È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando definitivamente due maestri del nostro cinema contemporaneo.
Quest’anno, in concorso, dopo la commozione dell’ultimo idilliaco film di Alice Rohrwacher Lazzaro felice, ecco alla ribalta anche Garrone, con un nuovo lavoro che segna un ritorno agli elementi che gli sono cari e che ha padroneggiato con enorme estro creativo nell’arco della sua carriera, dopo l’incursione in un cinema “diverso” quale fu Il racconto dei racconti: in Dogman il regista romano torna a occuparsi di periferia, di atmosfere e contesti e personaggi borderline, di trasfigurazione della realtà che rompe gli argini del comodo realismo d’osservazione, torna ai fatti di cronaca che però con estrema libertà creativa (diciamo pure “d’autore”) maneggia a piacimento per affermare un suo sguardo sul mondo e (soprattutto) sugli uomini.
La storia di Marcello (lo interpreta Marcello Fonte, che ha il volto e la parlata dei sublimi attori non professionisti di stampo neorealista), il piccolo e indifeso tolettatore di cani amato da tutto il quartiere e però anche considerato alla stregua di una mascotte dagli amici di sempre (il gestore della sala slot, il proprietario del compro oro), è ispirata, com’è noto, alla vicenda di Pietro de Negri, passato alla storia col nome di “canaro della Magliana”, macchiatosi dell’efferato omicidio del pugile dilettante Giancarlo Ricci – nel film interpretato magistralmente da Edoardo Pesce – e poi accanitosi con inedita e irripetibile efferatezza sul suo cadavere.
E già a questo punto le accuse eventuali di giustificazione e assoluzione dell’assassino de Negri possono essere rispedite al mittente, visto che Garrone con pudore rifugge dalla riproposizione pedissequa delle dinamiche per interessarsi ad altro, a qualcosa che ha rinvenuto fra le pieghe della vicenda di cronaca nera, che ha a che fare con l’uomo piuttosto che con il mostro. Come fu, dopo tutto, anche per L’imbalsamatore, pure ispirato a fatti reali e di cui Dogman sembra il controcampo più prossimo.
Dogman, nonostante questo, è davvero il film più cruento di Garrone: lo è anche più di Gomorra, che pur mostrava momenti ben noti di violenza, non permettendo mai, però, al racconto della faida di Secondigliano di sovrapporsi all’interesse per gli uomini vittima di quel sistema. “Il mio augurio è che i miei film possano emozionare e colpire il pubblico”: così disse Garrone in una intervista di dieci anni fa riferita proprio a Gomorra. E Dogman risponde con estrema coerenza a questo proposito.
Garrone ambienta Dogman in una periferia che potrebbe essere tutte le periferie, è riuscito a concepire insieme al suo scenografo Dimitri Capuani una location fatta di sabbia e di costruzioni incompiute, dove degrado e dissoluzione convivono, e poi con il nuovo direttore della fotografia Nicolaj Brüel ha studiato una trasposizione per immagini fatta di toni lividi, scegliendo non a caso di fare in modo che in cielo non splendesse mai il sole, anzi accentuando le ombre, sottoesponendo (non solo fotograficamente) i suoi personaggi.
Pure splende, comunque, il sole, nella vita di Marcello: fra le varie zone d’ombra della sua vita (la cocaina, l’amicizia con il crudele Giancarlo, la frequentazione coi pusher), c’è la piccola figlia Alida, a cui regala esplorazioni nei fondali marini e con cui sogna di andare alle Maldive. Nulla è casuale nell’impianto di Garrone, per quanto sia ben noto come i suoi film vengano costruiti per gran parte sul set, con il giusto grado di preparazione ma con una sostanziosa (e sostanziale) dose di apertura all’imprevisto e alla spontaneità: Marcello è felice solo sott’acqua, è un anfibio che quando riemerge si rattrista, e solo la figlia può accorgersi di una sfumatura del genere.
In un mondo che il regista è bravo a proporre come irrimediabilmente animalesco e bestiale, alla fine è grazie alla furbizia, è grazie all’intuito che Marcello riesce ad avere la sua rivincita/vendetta: “Ho un piano” pronuncia, fatidicamente, a un certo punto. E alla fine questo piccolo Davide raggrinzito, perseguitato, umiliato, riafferma la propria identità, e vince contro Golia.