Il Fairmont di Montecarlo è uno dei pochi alberghi al mondo in cui le stanze con vista mare costano quanto quelle con vista strada, affacciate su uno dei tratti più significativi del Grand Prix: la Fairmont Hairpin, la curva del celebre testacoda del 1982 di Riccardo Patrese, talmente stretta da costringere i piloti all’andatura di una Trabant. Il Fairmont è quel tipo di albergo con la concessionaria Bugatti all’entrata, il Twiga di Briatore sul retro, il casinò dentro e l’agenzia immobiliare nella lobby, nel caso si voglia comprare casa con i soldi fatti al Blackjack. O venderla. È probabile dunque che in questo contesto, qualche giorno fa, gli ignari clienti della struttura abbiano provato un sussulto di surrealtà nel sentire le note della canzone partigiana per eccellenza, Bella ciao, risuonare tra i corridoi direttamente dal pianobar dell’albergo. Dove Rocco Papaleo e Daniele Parisi – entrambi ospiti del Film Festival de la Comédie di Montecarlo, entrambi premiati per il film Orecchie – avevano sostituito il pianista ufficiale per improvvisare un duetto. In questa immagine (e in quella successiva: la sicurezza interna dell’hotel che s’avvicina circospetta e i due artisti che passano da Bella ciao a Sapore di sale) c’è tutto il senso, o meglio il nonsense, del festival ideato e caparbiamente condotto, da 14 anni, da Ezio Greggio.
Un festival di contrasti, prima di tutto, inevitabili a partire dalla location: qua un Principato dove il reddito procapite è tra i più alti al mondo, e ventisei chilometri più a est Ventimiglia, dove migliaia di rifugiati si accampano sperando di rifarsi una vita in Francia. Un contrasto non solo di censo, ma anche di aspirazioni, ideali, modelli tra galassie culturali sideralmente distanti: John Landis nel chillout etnopacchiano del Buddha Bar, Costa Gavras premiato da Melissa Satta, la navigata Simona Ventura e l’esordiente Alessandro Aronadio, e tutto intorno un parterre televintage, un po’ cafonal e un po’ chic, l’imitatore di Donald Trump e la signora in ermellino, l’anziano industriale e la squinzia-trofeo, giacche di leopardo e cuscini di seta, gigantografie di Briatore, sushi, fiori di plastica, champagne.
Ed è però proprio il contesto, così a suo modo estremo, a lavorare in favore del festival. A liberare, come nel caso di Papaleo/Parisi, lo spirito dissacrante dei comici. A provocarli, a spingerli alla parodia, alla rimozione di ogni ostacolo tra la realtà e quell’ipotesi di realtà che è Montecarlo.
Il contrasto, del resto, è una delle scintille da cui nasce il comico.
Ma un contesto come quello di Montecarlo, che rifugge la serietà come la morte (dei sensi, del godimento), ha anche un altro valore aggiunto: permette a un’icona come John Landis – invitato alla kermesse insieme alla moglie Deborah, geniale costumista de L’arca perduta – di mostrarsi senza la maschera polverosa del “maestro del cinema”, evitandosi il passaggio un po’ trombone in una masterclass che sarebbe stata scontata altrove. Qui, al festival della commedia, Landis si è rivelato per quel che (probabilmente) è: un creativo battutaro, un uomo incapace di resistere al gusto dello scherzo, pronto alla risata, alla presa in giro anche pesante, un mattatore dissacrante e anarchico. Irresistibile quando si entusiasma (Brilliant! è la parola che ne innesca la risata), incredibile in coppia col serissimo Costa Gavras, altro ospite del festival: immaginateli entrambi, il regista di Animal House e quello di Z-L’orgia del potere, su un palco mediasetteggiante, a fare gli scemi col telefonino durante una premiazione ufficiale. Poteva succedere soltanto qui.
È senz’altro un circo, quello di Montecarlo, dal grande potere liberatorio. Ezio Greggio, che lo conduce da anni, dice di aver convinto il Principe Alberto a sponsorizzare il festival promettendogli di farlo diventare importante come Cannes. Non succederà, ovviamente. Ma poco importa. Montecarlo in questi anni si è già guadagnato un record importante: riuscire a dire che il re è nudo senza farsi cacciare dal castello.