Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012).
L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi di un altro tipo ancora, quelli in divisa.
Protagonista è la torinese Giovanna (interpretata da Raffaella Giordano, coreografa, ha danzato anche con Pina Bausch nella leggendaria compagnia di Wupperthal), operatrice sociale che lavora in un centro ricreativo per i bambini del difficile quartiere di Ponticelli: «non un film sulla camorra» precisa Di Costanzo «ma un film con la camorra all’interno», proprio come fu L’intervallo, e anche in questo caso c’è un locus che dalla camorra protegge, isola, redime, o forse non fa nulla di tutto questo, perché – altra componente comune sia a Intrusa che a Intervallo – in nessuna delle due storie si racconta uno status destinato a perdurare, una condizione di stabilità, uno stanziamento, una felicità raggiunta, un esito accomodante.
Perché anche in questo sta la grandezza di Di Costanzo e dei suoi film: ha il tocco lieve di chi mette il racconto davanti a ogni cosa, ha uno sguardo d’autore autentico ma che non sta mai al di sopra dei suoi personaggi, la sua macchina a mano sta invece in mezzo a loro, alla loro altezza (anche e soprattutto quando si tratta di bambini), ne condivide i destini, ne asseconda i gesti, eppure non è mai conciliante, non si risparmia rispetto alle pieghe talvolta dolorose e impreviste che possono prendere gli eventi.
E d’altra parte la lezione del documentario sta proprio in questo tipo di approccio, prim’ancora che nello stile, affidato a una cura che non sfugge all’occhio attento (la fotografia fu di Bigazzi, nel film precedente, questa volta è affidata alla veterana francese Hélène Louvart, già dop per i lungometraggi di Alice Rohrwacher). In questo particolare cortile dove ambienta L’intrusa, Di Costanzo fa muovere un caleidoscopio di personaggi che a un certo punto quasi sembrano una compagnia circense, e tale, tutto sommato, è la loro sorte nel pittoresco finale.
Nella “Masseria” (questo il nome del centro di recupero) arriva Maria, sposata a un sanguinario camorrista che la polizia locale viene prontamente ad arrestare con una retata che sconvolge la serenità del luogo. La figlia Rita, asociale e scorbutica (anche lei un po’ selvaggia, anche lei dedita allo sputo, come un’altra bambina italiana che abbiamo conosciuto qui a Cannes…), viene incoraggiata da Giovanna a far parte della compagnia: i primi passi sono anche sorprendenti, ma poi la “diversità” sua e della madre prende il sopravvento.
Giovanna, filantropa illuminata, vuole che i suoi colleghi siano superiori a certe tendenze discriminatorie che si mettono in moto nei confronti della famiglia del malamente, che sarebbe ovviamente più sano per tutti cercare l’integrazione piuttosto che l’allontanamento (un concetto che si può estendere a tanti ambiti…). Ma come intrusa è Maria, è intrusa allo stesso modo anche Giovanna in un mondo che ha delle leggi, dei comportamenti stabiliti, i dettami del quieto vivere napoletano.
Giovanna e Maria sono due donne di principio, coraggiose, ciascuna a modo proprio. Prendono decisioni che in un modo o nell’altro possono ferire qualcuno. E pazienza se si tratta dello spettatore.