Applausi scroscianti hanno accolto la proiezione stampa di “Fortunata”, l’ultimo lungometraggio di Sergio Castellitto, da un soggetto originale di Margaret Mazzantini, l’esordio italiano nella sezione Un Certain Regard di Cannes 70.
Un romanzo popolare puro, almeno nella prima parte, quartiere “Torpigna(ttara)” inoltrato, con protagonista la bella, bionda, turgida Fortunata (Jasmine Trinca, che in questo film è veramente grande) parrucchiera a domicilio, moglie separata, madre della piccola e problematica Barbara, una bambina fin troppo intelligente ma anche fin troppo sauvage (ogni tanto, chissà se volutamente, i capelli di lei sono acconciati in una maniera che ricorda quell’enfant di tanti anni fa…) che sputa, fa i capricci, cova germi di razzismo e non dice “mamma” ma “a ma’”.
Poi c’è il padre, Franco (interpretato da Edoardo Pesce, bravissimo anche lui, lo ritroveremo alla Quinzaine, nei Cuori puri di De Paolis), guardia giurata in banca, beone, coatto, violento, interessato a portare a termine la pratica di divorzio e di affidamento della bambina più per affermare una forma di virile superiorità sulla povera Fortunata che non per autentico amore paterno.
A un certo punto, entra in scena il rassicurante volto di Stefano Accorsi nel ruolo dello psicologo: ha in cura la piccola Barbara, ma naturalmente finisce col rivolgere le sue attenzioni (ricambiate piacevolmente) anche a Fortunata, il che genera un terremoto che è poi il motore di tutta la seconda parte del film. Tante le gelosie che il dottor Malaguti attira su di sé: quelle del possessivo ex marito Franco, ovviamente, ma addirittura quelle di Barbara, forse sottovalutata dalla madre.
L’amico del cuore di Fortunata, che con lei ha il sogno di aprire un salone diviso a metà fra coiffeur e tatuaggi, è lo Chicano di Alessandro Borghi, attore intelligente e coraggioso che ha spesso confessato di fregarsene altamente (e fa benissimo) di restare intrappolato dentro gli stereotipi: anche qui, come in Il più grande sogno e Non essere cattivo, è un romanaccio di borgata, ma con delle complessità, delle sfaccettature, un disegno interiore multiforme: omosessuale e figlio di una ex grande attrice di teatro vittima dell’Alzheimer (Hanna Schygulla, poche pose per lei, ma naturalmente quando c’è ruba la scena a chiunque), dipendente dal gioco del lotto, artefice di uno dei momenti più alti del film: la spiegazione – a modo suo – della tragedia di Antigone alla inconsapevole Barbara, al chiaro di luna della notte estiva.
Per concludere, Fortunata è un film di attori, ma quando un film è “di attori” significa che è anche di un regista che con gli attori sa parlare, sa entrare in empatia, sa spiegare quanto importante strutturalmente per il racconto saranno un primo piano, un pianto, un grido, una carrellata. D’altra parte, Castellitto è attore egli stesso, e quindi evidentemente sa bene cosa cercano gli attori.
Non che qualche cedimento non ci sia nella tenuta narrativa (e registica) di Fortunata, ad esempio sembrano stonare alcuni raptus isterici del dottor Malaguti, o alcune derive nazional-popolari abbozzate un po’ frettolosamente che hanno per protagonisti gli abitanti di Torpignattara. Ma le sorti di questa madre ci stanno talmente a cuore, entriamo con lei in un’empatia così d’altri tempi (quasi da cinema del neo-realismo rosa), che si finisce col perdonare qualunque sbavatura, qualunque eccesso. Perfino il Vasco Rossi finale.