Dal mondo Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 24 Jul 2023 08:37:12 +0000 it-IT hourly 1 Favolacce: i bambini ci guardano (e ci giudicano) https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/#respond Wed, 26 Feb 2020 08:12:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13606 Favolacce è il secondo film dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, una favola nera con protagonisti bambini e i loro genitori

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Una fiaba nera come la notte quella firmata da Fabio e Damiano D’Innocenzo con tanto di voce narrante che funge da cornice, colori acidi e sguardo infantile. Dopo aver raccontato l’adolescenza criminale della periferia romana ne La terra dell’abbastanza, i D’Innocenzo si spingono oltre e scandagliano il lato oscuro dei sobborghi residenziali. Quelle raccontate in Favolacce sono famiglie del sottoproletariato uguali a tante altre, disoccupati, venditori, camerieri, che fanno sacrifici per tirare avanti dando ai figli un po’ di quel che meriterebbero, ma il malessere che scorre sotto la superficie troverà il modo di manifestarsi in modo imprevedibile.

A trentun anni, i fratelli D’Innocenzo si avventurano in un territorio impervio che ha visto cadere nomi più illustri ed esperti, ma la visione lucida e coraggiosa dei gemelli romani non teme ostacoli nell’accostarsi all’infanzia con sguardo a tratti partecipe e a tratti distaccato. Il talento di Fabio e Damiano D’Innocenzo si manifesta fin dal casting, perfetto, dei piccoli protagonisti che incarnano bambini solo in apparenza normali, bambini isolati, timidi o smarriti, curiosi di sperimentare e di conoscere ciò che li aspetta nella crescita.

Per gran parte del tempo Favolacce sembra raccontare una quotidianità fatta di piccole cose, incontri, confronti coi genitori, tentativi di socializzazione, prime cotte. La crisi economica rende più duro il quotidiano, ma le famiglie si dimostrano presenti, attente. Elio Germano, Gabriel Montesi e gli altri adulti non nascondono i loro lati grotteschi, la loro loro volgarità intrinseca, che cozza con la purezza dello sguardo infantile e i D’Innocenzo traslano da un punto di vista all’altro in un equilibro che arriverà a incrinarsi nel climax finale.

I D’Innocenzo si distanziano dalla matrice neorealista che caratterizzava la loro opera prima per esplorare quella regione oscura dove reale e surreale si incontrano, ed è da questo scarto che nasce Favolacce. La visione del film risulta ancor più angosciante proprio in virtù del fatto che la storia narrata nel film utilizza strumenti desueti per il cinema italiano. Lo stile visivo dei D’Innocenzo si fa più raffinato e stratificato, con primissimi piani insistiti sui piccoli protagonisti a cui corrisponde una rarefazione della parola. I piccoli osservano muti il degrado degli adulti che invece riversano su di loro un mare di parole (parolacce spesso), in buona fede, ma si dimostrano incapaci di comprenderli fino in fondo. La presenza dell’elemento naturalistico, tipico delle aeree suburbane, unito alla suggestiva fotografia di Paolo Carnera e a un montaggio sapiente creano un’atmosfera straniante e allucinata amplificata dall’uso del silenzio, tanto più assordante man mano che gli adulti aprono gli occhi sulla vera natura dei piccoli fino a toccare con mano l’orrore che si nasconde dietro i loro sguardi dopo che la luce si è spenta.

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Volevo nascondermi: Elio Germano è Ligabue https://www.fabriqueducinema.it/festival/volevo-nascondermi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/volevo-nascondermi/#respond Fri, 21 Feb 2020 21:51:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13602 Il film di Giorgio Dritti Volevo nascondermi su Antonio Ligabue interpretato da Elio Germano presentato al festival di Berlino 70

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Il cinema di Giorgio Diritti è fatto di sguardi, gesti, paesaggi, campi lunghi e altrettanto lunghi silenzi. Non fa eccezione Volevo nascondermi, biopic atipico incentrato sulla complessa figura dell’artista Antonio Ligabue presentato in concorso alla 70esima edizione del Festival di Berlino. Chi meglio di un regista legato alla terra e alla natura per raccontare la storia del pittore contadino? Nei panni di Ligabue, Elio Germano è protagonista dell’ennesima prova d’attore eccelsa. Non era semplice trovare una misura nella rappresentazione degli eccessi d’ira e delle crisi che hanno costellato la travagliata esistenza di Ligabue. Germano interiorizza il personaggio non limitandosi alla pura trasformazione fisica, agevolata dal trucco prostetico che trasfigura i lineamenti dell’attore, mentre il corpo si ripiega deformandosi. Grazie alla sua performance, Antonio Ligabue non è semplicemente una figura tragica, tormentata dalla sofferenza fisica e mentale, ma conserva una sua grazia, ha nello sguardo lo stupore infantile di chi scopre del mondo per la prima volta e a tratti mostra perfino cenni di humor.

Fin dal titolo, Volevo nascondermi lascia intendere la soggettività con cui la storia di Ligabue viene filtrata: suo è lo sguardo che ripercorre le dolorose esperienze vissute, l’incapacità di integrarsi e il desiderio mai sopito per le donne. Giorgio Diritti inaugura il suo film con una potente sequenza di flashback a incastro in cui l’infanzia e l’adolescenza di Antonio Ligabue si intrecciano al presente in cui il pittore, rannicchiato su una sedia in un rudimentale ambulatorio, si nasconde sotto una coperta ripetendo il gesto che era solito fare da piccolo. Per il regista, le radici del malessere del futuro pittore stanno nella perdita prematura della madre a cui seguono difficoltà relazionali con la famiglia adottiva e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico. Con l’arrivo in Italia, Ligabue scopre la pittura e la scultura e trova il modo di dare una forma al suo vivido mondo interiore che confluisce in dipinti coloratissimi, solo in apparenza infantili, ricchi di animali esotici. Con l’arte, arriveranno la pubblica affermazione, le mostre e il denaro, ma questo non servirà ad attenuare la malattia che consuma il pittore.

Volevo nascondermi abbraccia il registro grottesco immergendo lo spettatore in un mondo contadino grezzo, schietto. Il regista si prende tutto il tempo necessario per costruire la psiche del suo protagonista mostrandolo alle prese con la vita rurale e, in particolare, con gli animali con cui dimostra di avere un rapporto speciale. Il paesaggio acquista una valenza importante sia nella prima parte del film, quella svizzera, che nella fase italiana dove la bassa emiliana la fa da padrona. Ma a colpire è soprattutto il lavoro sul linguaggio a cui il filologico Giorgio Diritti dedica la massima attenzione, alternando dialetto svizzero tedesco a emiliano. Frutto di questo incrocio di culture, Antonio Ligabue si esprime con un linguaggio tutto suo, a tratti incomprensibile, fatto di mezze frasi, imprecazioni e urla che si trasformano in latrati. Questa visione naturalistica permea una pellicola ruvida, essenziale, che fa poche concessioni all’intrattenimento. Un’opera solida, meno potente di quanto avrebbe potuto essere, ma lodevole nel voler ritrarre con genuinità una delle figure illustri del nostro pantheon pittorico.

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Dogman: uomini e bestie https://www.fabriqueducinema.it/festival/dogman-uomini-e-bestie/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dogman-uomini-e-bestie/#respond Fri, 18 May 2018 08:35:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10426 È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando […]

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È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando definitivamente due maestri del nostro cinema contemporaneo.

Quest’anno, in concorso, dopo la commozione dell’ultimo idilliaco film di Alice Rohrwacher Lazzaro felice, ecco alla ribalta anche Garrone, con un nuovo lavoro che segna un ritorno agli elementi che gli sono cari e che ha padroneggiato con enorme estro creativo nell’arco della sua carriera, dopo l’incursione in un cinema “diverso” quale fu Il racconto dei racconti: in Dogman il regista romano torna a occuparsi di periferia, di atmosfere e contesti e personaggi borderline, di trasfigurazione della realtà che rompe gli argini del comodo realismo d’osservazione, torna ai fatti di cronaca che però con estrema libertà creativa (diciamo pure “d’autore”) maneggia a piacimento per affermare un suo sguardo sul mondo e (soprattutto) sugli uomini.

dogman di matteo garroneLa storia di Marcello (lo interpreta Marcello Fonte, che ha il volto e la parlata dei sublimi attori non professionisti di stampo neorealista), il piccolo e indifeso tolettatore di cani amato da tutto il quartiere e però anche considerato alla stregua di una mascotte dagli amici di sempre (il gestore della sala slot, il proprietario del compro oro), è ispirata, com’è noto, alla vicenda di Pietro de Negri, passato alla storia col nome di “canaro della Magliana”, macchiatosi dell’efferato omicidio del pugile dilettante Giancarlo Ricci – nel film interpretato magistralmente da Edoardo Pesce – e poi accanitosi con inedita e irripetibile efferatezza sul suo cadavere.

E già a questo punto le accuse eventuali di giustificazione e assoluzione dell’assassino de Negri possono essere rispedite al mittente, visto che Garrone con pudore rifugge dalla riproposizione pedissequa delle dinamiche per interessarsi ad altro, a qualcosa che ha rinvenuto fra le pieghe della vicenda di cronaca nera, che ha a che fare con l’uomo piuttosto che con il mostro. Come fu, dopo tutto, anche per L’imbalsamatore, pure ispirato a fatti reali e di cui Dogman sembra il controcampo più prossimo.

Dogman, nonostante questo, è davvero il film più cruento di Garrone: lo è anche più di Gomorra, che pur mostrava momenti ben noti di violenza, non permettendo mai, però, al racconto della faida di Secondigliano di sovrapporsi all’interesse per gli uomini vittima di quel sistema. “Il mio augurio è che i miei film possano emozionare e colpire il pubblico”: così disse Garrone in una intervista di dieci anni fa riferita proprio a Gomorra. E Dogman risponde con estrema coerenza a questo proposito.

dogman di matteo garrone

Garrone ambienta Dogman in una periferia che potrebbe essere tutte le periferie, è riuscito a concepire insieme al suo scenografo Dimitri Capuani una location fatta di sabbia e di costruzioni incompiute, dove degrado e dissoluzione convivono,  e poi con il nuovo direttore della fotografia Nicolaj Brüel ha studiato una trasposizione per immagini fatta di toni lividi, scegliendo non a caso di fare in modo che in cielo non splendesse mai il sole, anzi accentuando le ombre, sottoesponendo (non solo fotograficamente) i suoi personaggi.

Pure splende, comunque, il sole, nella vita di Marcello: fra le varie zone d’ombra della sua vita (la cocaina, l’amicizia con il crudele Giancarlo, la frequentazione coi pusher), c’è la piccola figlia Alida, a cui regala esplorazioni nei fondali marini e con cui sogna di andare alle Maldive. Nulla è casuale nell’impianto di Garrone, per quanto sia ben noto come i suoi film vengano costruiti per gran parte sul set, con il giusto grado di preparazione ma con una sostanziosa (e sostanziale) dose di apertura all’imprevisto e alla spontaneità: Marcello è felice solo sott’acqua, è un anfibio che quando riemerge si rattrista, e solo la figlia può accorgersi di una sfumatura del genere.

In un mondo che il regista è bravo a proporre come irrimediabilmente animalesco e bestiale, alla fine è grazie alla furbizia, è grazie all’intuito che Marcello riesce ad avere la sua rivincita/vendetta: “Ho un piano” pronuncia, fatidicamente, a un certo punto. E alla fine questo piccolo Davide raggrinzito, perseguitato, umiliato, riafferma la propria identità, e vince contro Golia.

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A Cannes l’Euforia di Valeria Golino supera l’esame https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-cannes-leuforia-di-valeria-golino-supera-lesame/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-cannes-leuforia-di-valeria-golino-supera-lesame/#respond Thu, 17 May 2018 07:03:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10391 In concorso nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2018, Euforia, seconda regia cinematografica di Valeria Golino, conferma tutti i difetti e i pregi del cinema italiano medio d’autore: il focus sui personaggi più che sull’intreccio, la capacità di creare singole sequenze d’impatto emotivo e poetico (più spesso poeticizzante), la cronica difficoltà nel […]

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In concorso nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2018, Euforia, seconda regia cinematografica di Valeria Golino, conferma tutti i difetti e i pregi del cinema italiano medio d’autore: il focus sui personaggi più che sull’intreccio, la capacità di creare singole sequenze d’impatto emotivo e poetico (più spesso poeticizzante), la cronica difficoltà nel costruirci intorno un film propriamente detto.
Une veloce sinossi: Matteo (Riccardo Scamarcio) e Ettore (Valerio Mastandrea) sono due fratelli estremamente diversi, il primo è un imprenditore carismatico e apertamente omosessuale, mentre il secondo è un uomo pacato che vive ancora nella piccola città di provincia dove entrambi sono nati e cresciuti. La scoperta della malattia di Ettore permette ai due fratelli di avvicinarsi e conoscersi veramente, di evidenziare le differenze e di comporre le distanze.
euforia diretto da valeria golino
Non riconosciamo una personalità registica peculiare nella Golino, ma di sicuro una solida preparazione tecnica e una capacità di trovare la giusta distanza dagli eventi messi in scena. L’omosessualità di Marco non è per nulla caricata dei luoghi comuni a cui (troppo) spesso il nostro cinema ancora si affida, e l’evento da cui prende le mosse la vicenda (la malattia di Ettore, che lo costringe a trasferirsi a Roma a casa del fratello) non scade mai nel pietismo o nella lacrima facile.
Mastandrea offre una prova misurata senza rinunciare ad alcuni vezzi di repertorio, ma è Scamarcio, dopo l’ottima prova in Loro di Sorrentino, a confermare di star vivendo una seconda fase di carriera migliore di quanto la prima avrebbe potuto far credere. Fase iniziata proprio qui a Cannes due anni fa, e ancora al Certain regard, con Pericle il nero di Stefano Mordini.
Una ridda di comprimari più o meno indovinati accompagnano la strana coppia di questa sorta di anomalo “buddy movie” (Isabella Ferrari, Jasmine Trinca, che al Regard rimette in palio il titolo di miglior interprete portato a casa l’anno scorso con Fortunata di Castellitto), il cui unico difetto, non da poco, è, come già anticipato, quello di essere scevro di snodi narrativi davvero convincenti, e di andare avanti a strappi.
Una visione non indimenticabile ma, quando i due protagonisti danzano sulle note di Guardo gli asini che volano nel ciel, celebre numero di Stanlio e Ollio, un velo di commozione vi stringerà inevitabilmente la gola. Non più di una sufficienza piena, ma neanche meno.

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“Gli asteroidi”, opera prima in concorso a Locarno https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/gli-asteroidi-opera-concorso-locarno/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/gli-asteroidi-opera-concorso-locarno/#respond Fri, 11 Aug 2017 15:29:19 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9106 La vita di provincia scorre tra drammi e grigiore per i giovani protagonisti de Gli asteroidi, opera prima di Germano Maccioni, unico film italiano nel concorso internazionale di Locarno. Il regista, che ha alle spalle una lunga esperienza teatrale, ha scelto di esordire con un film che sintetizza la crisi economica, ideologica e spirituale che […]

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La vita di provincia scorre tra drammi e grigiore per i giovani protagonisti de Gli asteroidi, opera prima di Germano Maccioni, unico film italiano nel concorso internazionale di Locarno.

Il regista, che ha alle spalle una lunga esperienza teatrale, ha scelto di esordire con un film che sintetizza la crisi economica, ideologica e spirituale che la società italiana attraversa osservata in un contesto familiare, la sua Emilia. Maccioni sposta, però, l’attenzione dalla sua generazione, quella dei trentenni/quarantenni, al complicato mondo dell’adolescenza.

Per farlo sceglie tre attori non professionisti, selezionati nelle scuole del bolognese, che interpretano Pietro, Ivan e Cosmic, tre ragazzi con alle spalle un passato difficile che trovano come unica valvola di sfogo ai problemi familiari la piccola criminalità.

uno dei protagonisti de gli asteroidi La vita dei giovani si divide tra liti in famiglie monche (il tema dei padri assenti, sia da vivi che da morti, risuona in tutto il film), la scuola frequentata con disinteresse, lo spaccio di droga e i furti compiuti per conto di Ugo, pizzaiolo dal passato criminale, e qualche amore giovanile che potrebbe rivelarsi salvifico. Pur rimanendo ancorato a una dimensione terrena nella descrizione della fuga dal quotidiano dei suoi tre protagonisti, il film di Maccioni rivela una tensione metafisica, una ricerca verso uno sguardo altro che lo stesso regista ammette essere parte integrante della sua arte.

«Sono ossessionato dalla filosofia e in special modo dall’esistenzialismo» spiega Maccioni. «È il tema che mi preme trattare, ma non potevo certo fare un film così pretenzioso. Così ho deciso di fare un film semplice, mantenendo alla base quelle riflessioni che mi stanno a cuore. Solo Antonioni è riuscito col finale de L’eclissi a trattare l’esistenzialismo al cinema. Solo lui avrebbe potuto fare un film su La nausea di Sartre. Ho vinto il Premio Antonioni con il mio primo corto e per me è il riconoscimento più importante perché Antonioni è il mio punto di riferimento».

Il legame de Gli asteroidi con il cinema di Antonioni è più esplicito del previsto. Location centrale del film è la Stazione Radioastronomica di Medicina, una cattedrale nel deserto che si erge nella campagna emiliana ed è stata eletta come rifugio dai tre amici, in particolare da Cosmic, ossessionato dall’astronomia e dall’idea che gli asteroidi stiano per abbattersi sulla terra cancellando la vita umana. Il regista confessa: «La stazione è una delle location principali del film. Solo dopo aver girato ho scoperto che proprio lì sono ambientate alcune scene di Deserto rosso, con Monica Vitti che si aggira tra le antenne, anche se all’epoca non c’era ancora il radiotelescopio».

A far da contraltare ai tre giovani protagonisti de Gli asteroidi vi sono due attori di grande esperienza e peso scenico, Chiara Caselli, che interpreta la madre di Pietro, e Pippo Delbono, controverso interprete teatrale che si diverte a concedersi qualche incursione sul grande schermo scardinando le regole prestabilite dell’industria.

immagine dal film gli asteroidi«Io non leggo il copione, non faccio prove e sono disponibile solo pochi giorni» conferma Delbono. «Odio la psicologia dell’attore, la trovo veramente nociva. Io agisco, nel momento del ciak divento il personaggio. Sul set mi preoccupo del corpo, della fisicità, della fluidità del movimento. Se devo picchiare qualcuno, come accade nel film, non mi interessa sapere se vivrà o morirà, mi concentro sul movimento e sulla rabbia nel picchiarlo».

Germano Maccioni descrive Gli asteroidi come una fiaba nera. Il film si distacca dalla dimensione puramente realistica aprendosi a squarci onirici che si elevano dal contesto generale creando un effetto di straniamento. La fotografia cupa, le musiche ossessive firmate da Lorenzo Esposito Fornasari e Lo Stato Sociale, il gioco luci/ombre che si manifesta principalmente nelle scene notturne e nella fosca rappresentazione di Ugo, che della fiaba sarebbe naturalmente l’orco, contribuiscono a creare un’estetica che distingue il film di Maccioni dal panorama contemporaneo.

Così i ganci al quotidiano, la minaccia di pignoramento che pende sulla testa di Pietro e della madre, la figura paterna di Iva, un sindacalista in crisi che passa il tempo a ubriacarsi di fronte al videopoker, le attività sordide di Ugo, vengono stemperati in una dimensione esistenziale che sposta lo sguardo dello spettatore più in alto, verso lo sterminato cielo emiliano da cui, prima o poi, gli asteroidi tanto attesi da Cosmic dovrebbero precipitare.

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“Easy”, un’opera prima “facile facile” a Locarno https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/easy-unopera-facile-facile-locarno/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/easy-unopera-facile-facile-locarno/#respond Wed, 09 Aug 2017 12:13:23 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9089 Isidoro, detto Isi (Easy), è un ex campione di go-kart in piena depressione. Il blocco mentale che lo affligge gli ha impedito di continuare a correre, e vincere, e lo ha fatto ingrassare a dismisura. A riscuoterlo dal torpore ci pensa il fratello, imprenditore edile, che lo convince a trasportare la salma di un suo […]

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Isidoro, detto Isi (Easy), è un ex campione di go-kart in piena depressione. Il blocco mentale che lo affligge gli ha impedito di continuare a correre, e vincere, e lo ha fatto ingrassare a dismisura. A riscuoterlo dal torpore ci pensa il fratello, imprenditore edile, che lo convince a trasportare la salma di un suo operaio morto in un incidente in cantiere dal Friuli all’Ucraina in un viaggio che si rivelerà pieno di sorprese. Easy – Un viaggio facile facile è l’opera prima di Andrea Magnani, regista legato al Friuli e alla sua cinematografia sempre più vitale, presentato a Locarno nella sezione “Cineasti del Presente”. Una commedia sorprendente, ironica, buffa e tenera, ma ricca di risvolti malinconici. «Ho iniziato a scrivere il film sette anni fa» racconta Andrea Magnani «ma il processo produttivo ha subito dei rallentamenti. A un certo punto si è bloccato a causa della guerra in Ucraina, co-produttore del film. In Ucraina, tra l’altro, è ambientata buona parte della pellicola perciò abbiamo dovuto attendere che la situazione ritornasse sotto controllo».

Easy – Un viaggio facile facile è una commedia di situazioni, ma soprattutto di caratteri. Anzi, di un carattere. Il film ruota attorno al corpulento Isi, presente in tutte le scene o quasi. Una maschera comica notevole, quella di Nicola Nocella, che per il ruolo di Isi mette a tacere la sua parlantina e accentua la propria fisicità ingrassando di venti chili. Il tutto per accentuare l’idiosincrasia al movimento del suo personaggio, costretto a un viaggio rocambolesco che si apre su un carro funebre per poi approdare a ogni tipo di mezzo di trasporto, camion, trattori, carriole, calessi e addirittura un fiume. Lo scopo è quello di trasportare la bara dello sfortunato operaio ucraino morto sul lavoro fino al suo sperduto villaggio. Tra Isi e il suo passeggero defunto si crea un legame speciale, reso sullo schermo dalla capacità di Nicola Nocella di dar vita a una notevole prova fisica ed espressiva che non sfigurerebbe a confronto con certe performance da commedia del muto.

Nicola Nocella in una scena del film Easy

«Per il ruolo di Isidoro sono dovuto ingrassare venti chili, che mi hanno permesso di diventare quella massa informe che è Isidoro» spiega Nic Nocella. «Questi venti chili mi hanno cambiato il modo di camminare, di respirare, sono il motivo per cui Isidoro si muove lentamente e fa sempre fatica. È stato un cambiamento fondamentale per plasmare il personaggio. Da quando Andrea mi ha chiesto di ingrassare ho capito che aveva un’idea precisa e che dovevo fidarmi di lui, infatti aveva ragione su tutto. Sapete quando un attore vi racconta quanto è stato divertente girare un film? Ebbene, girare Easy è stato è stata una fatica tremenda. Ma il risultato è stato incredibile. Queste sono le opere per cui vale la pena fare questo mestiere».

il regista di Easy Andrea Magnani

Ad affiancare Nicola Nocella, nella prima parte del film, troviamo due comprimari d’eccezione: Libero De Rienzo interpreta il fratello, imprenditore truffaldino, ma che ha il merito di riporre ancora fiducia in Isi catapultandolo in un’avventura incredibile, e Barbara Bouchet nei panni della madre di Isi, una signora di mezza età ancora più che piacente fanatica del fitness e del cibo sano. L’esatto opposto del figlio, insomma. Ad accompagnare Isi nel suo viaggio rocambolesco vi sono, invece, due compagni di strada silenti, ma altrettanto notevoli, la bara di Taras, l’operaio morto, e lo sterminato paesaggio ucraino. Dopo un breve passaggio in Ungheria, Isi si ritrova sperduto nel cuore di una nazione e di una popolazione di cui non sa niente. L’uomo entra in contatto con loro con lo sguardo puro di un bambino e pur non capendo una parola di ciò che dicono, riuscirà comunque a trovare un modo per comunicare grazie al suo buon cuore e alla buffa espressività. Il legame con l’Est è forte e lo sguardo si protende verso altri mondi, esulando così dalla tradizione della commedia all’italiana in cerca di nuovi spunti di ispirazione. Come conferma Andrea Magnani «ho abitato a lungo a Trieste e la vicinanza col confine mi ha sempre fatto venire la voglia di guardare oltre. Mi auguro che anche altri seguano il nostro esempio».

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Francesca Comencini: l’amore è una guerra https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/francesca-comencini-lamore-guerra/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/francesca-comencini-lamore-guerra/#respond Mon, 07 Aug 2017 12:23:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9078 L’amore per Francesca Comencini è una guerra. Guerra dei sessi e guerra con sé stessi. Per il suo nuovo lavoro, Amori che non sanno stare al mondo, presentato in anteprima al Festival di Locarno nella sezione Piazza Grande, la regista si è costruita un alter ego nevrotico e accentratore, Claudia, professoressa universitaria in piena crisi. […]

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L’amore per Francesca Comencini è una guerra. Guerra dei sessi e guerra con sé stessi. Per il suo nuovo lavoro, Amori che non sanno stare al mondo, presentato in anteprima al Festival di Locarno nella sezione Piazza Grande, la regista si è costruita un alter ego nevrotico e accentratore, Claudia, professoressa universitaria in piena crisi. La ragione è la fine della sua storia col collega Flavio, uomo taciturno, prudente, poco voglioso di impegnarsi in una relazione così totalizzante. Claudia e Flavio sono due personaggi che traboccano di idiosincrasie legate a un vissuto personale, ma sono anche lo specchio dei tempi di cui il film della Comencini prova a dare uno scorcio. Basti pensare al loro primo incontro/scontro durante il quale si scatena una polemica accademica sul peso dell’amore e della figura femminile nell’evoluzione della società. Una scaramuccia tra docenti che si consuma di fronte a una platea di allievi e che si trasformerà, nell’arco di poche ore, in una improvvisa dichiarazione d’amore (da parte di lei) di fronte a un piatto di spaghetti.

“Io sono femminista” sottolinea Francesca Comencini. “Considero il femminismo una cosa importantissima e rivendico totalmente questa etichetta. Per molti anni il femminismo è stato visto come una minaccia e sono felice nel vedere che oggi le ragazze ne abbiano riscoperto il valore. Generalmente le storie d’amore non riescono a realizzarsi. Prima o poi finiscono. In questo momento c’è una crisi dei rapporti tra uomini e donne. Per me questo è un film generazionale, della mia generazione, quella dei 40-50enni. Persone che si sono affrontate, scontrate, che si sono misurate con la nuova libertà delle donne e col suo impatto su tutti gli assetti della vita, in primis sulle storie d’amore”.

Mascino e Trabacchi in una scena del film di Francesca Comencini
foto di Andrea Pirrello

A interpretare Claudia e Flavio sono Lucia Mascino, attrice teatrale nota al grande pubblico per la web series Una mamma imperfetta e per I delitti del BarLume, e Thomas Trabacchi. Due volti poco inflazionati sul grande schermo che Francesca Comencini ha scelto cucendogli addosso due personaggi scomodi proprio perché capaci di mettere in piazza, senza filtri, manchevolezze e difetti. Il film, che ha una struttura narrativa scomposta, a tratti quasi caotica, assembla materiali diversi per riprodurre il “rumore” che si avverte nella testa dopo la fine di un amore. Un rumore che Francesca Comencini mima rimescolando la linea temporale, con continui salti tra passato e presente, aggiungendo voice over che riproducono i pensieri di Claudia e Flavio, immagini di repertorio e sequenze pseudo-oniriche. Ma su tutto svetta Claudia con le sue reazioni scomposte, i suoi momenti di sconforto, i suoi eccessi emotivi.

Lucia Mascino spezza una lancia a favore del suo personaggio: “Claudia può apparire isterica, eccessiva, egocentrica, ma il suo comportamento è causato dal momento che sta vivendo. Si trova nella fase di non accettazione della fine di un rapporto che lei ha contribuito a chiudere per poi pentirsene subito. D’altra parte in vari momenti del film Claudia sente che il suo uomo non è coinvolto nella storia in maniera totale, lei chiede di più perché quando ami veramente la totalità non ti spaventa. La sua ossessione amorosa contribuisce a rovinare il rapporto, ma l’ossessione proviene dal fatto che Flavio non è coinvolto quanto lei o da una sua insicurezza? E’ intorno a questo interrogativo che ruota il film”.

La regista Francesca Comencini

Amori che non sanno stare al mondo segue l’elaborazione del lutto di Claudia per la fine della relazione con Flavio seguendola nelle varie fasi che seguono il distacco, la frenesia dello stalking telefonico, gli sfoghi con l’amica del cuore, interpretata da un’irresistibile Carlotta Natoli, e l’approdo a una relazione omosessuale con una disinibita studentessa che ha il volto di Valentina Bellè.

Francesca Comencini alza l’asticella della provocazione mescolando sensualità esplicita e autoironia in un lavoro che si va delineando come una commedia, ma che presenta tratti decisamente atipici rispetto alla produzione italiana media. Quale reazione auspica la regista nel pubblico quando il film arriverà nelle sale? “Credo che la risposta sarà reattiva, sia in positivo che in negativo” confessa la Comencini. “Il mio è un film che irrita, infastidisce, fa rabbia oppure piace molto. Ciò che auspico è che tante donne vadano a vederlo e ne traggano un piccolo empowerment, che trovino la forza di rialzare la testa e ricominciare”. 

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Festival di Cannes: “Cuori puri” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-cuori-puri/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-cuori-puri/#respond Thu, 25 May 2017 08:44:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8613 Siamo forti, a questa Quinzaine. Amatissimo e applauditissimo anche Cuori puri, terzo e ultimo film italiano della sezione, lungometraggio d’esordio di Roberto De Paolis, che arriva alla prima regia dopo un percorso composito che è partito dalla fotografia (con esposizioni in tutta Europa) e la video arte. C’era un’energia particolare nella sala dell’Hotel Marriott, sede […]

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Siamo forti, a questa Quinzaine. Amatissimo e applauditissimo anche Cuori puri, terzo e ultimo film italiano della sezione, lungometraggio d’esordio di Roberto De Paolis, che arriva alla prima regia dopo un percorso composito che è partito dalla fotografia (con esposizioni in tutta Europa) e la video arte.

Simone Liberati in una scena di Cuori puri

C’era un’energia particolare nella sala dell’Hotel Marriott, sede della Quinzaine: oltre a tutto il cast del film e a buona parte della troupe, era presente anche Jonas Carpignano, e una congiuntura astrale favorevole ci ha permesso di godere del film seduti accanto niente di meno che a Ed Lachman, affascinato durante la proiezione e molto contento all’accensione delle luci.

Cuori puri è una storia di periferia. È una storia, ancora una volta, che parla dei margini, siano essi sociali e/o geografici. Come A Ciambra, che sta tra i rom di Gioia Tauro, o L’intrusa, ambientato a Ponticelli, all’ombra del Vesuvio, Cuori puri affonda le radici nel grigiore di Tor Sapienza, ed è la storia di due ragazzi, Stefano e Agnese (Simone Liberati e Selene Caramazza, bravissimi, mai sotto la soglia dell’autenticità delle parole e dei gesti), che si aprono l’uno con l’altra fino a un atto di sacrificio estremo, che per lui significa perdere il lavoro, per lei, invece, perdere qualcos’altro, qualcosa di più intimo, nascosto, proibito, contravvenendo a una madre religiosissima (Barbora Bobulova) e alla lezione del parroco-guida spirituale dell’intera comunità (Stefano Fresi).

Stefano è un ragazzo che vive davvero una vita difficile: la madre e il padre sono disperati, il padrone di casa dopo due anni di affitto arretrato li sfratta e li costringe a vivere in una roulotte, con il conseguente inasprimento delle tensioni familiari, viene licenziato da un supermercato, riesce a trovare un altro lavoro come guardiano di un parcheggio con la complicazione del campo rom confinante e si ritrova con la madre che gli elemosina quelle poche centinaia di euro che lui riesce a guadagnare e un padre intrattabile con il quale viene quasi alle mani.

Ci sarebbe l’alternativa dello spaccio, ma Stefano proprio non è portato, e l’esuberante amico Lele (Edoardo Pesce, che gigioneggia e incute timore allo stesso tempo) prova a farglielo capire: ma Stefano è un “cuore puro”, non è fatto per frequentare la scuola della strada, fa il duro con i rom ma poi li difende, dovrebbe vendere la droga ma la coscienza lo bacchetta di fronte alle richieste dei ragazzini di 12 anni.

Selene Caramazza in una scena di Cuori puri

Il destino lo fa incontrare due volte con Agnese, prossima al compimento dei 18 anni e incatenata alla promessa di arrivare vergine al matrimonio, di cui sono artefici una madre fin troppo possessiva e il simpatico Don Luca, interprete molto sui generis delle Sacre Scritture.

Il film, date le premesse, è il barcamenarsi di questi due ragazzi fra cause impedienti di vario genere e barriere sociali o morali che in qualche modo bisogna scavalcare. Denominatore comune di altre prove del nostro cinema recente, si pensi a Fiore, a La ragazza del mondo, sono le nostre storie, che i nostri registi dimostrano di saper affrontare con piglio sicuro.

De Paolis si affida alla scuola del cinema-verità, sgancia la macchina dal cavalletto e alterna i primi piani ai campi lunghissimi, accenna il contesto e poi si attacca ai personaggi, predilige ogni volta che è possibile la luce naturale e suggerisce ai suoi attori di improvvisare i dialoghi, di conferire alle scene il loro apporto, il loro vissuto, e la strategia è vincente: l’aderenza alla realtà in più momenti raggiunge picchi talmente elevati che si prova quasi la sensazione di essere intrusi; anche grazie alla fluidità del dialetto Simone Liberati e Edoardo Pesce, su tutti, riescono a farci credere a ogni parola che dicono. E questo è sempre un pregio.

 

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Festival di Cannes 2017: “Dopo la guerra” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-la-guerra/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-la-guerra/#respond Wed, 24 May 2017 13:52:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8594 Qui al Festival l’attesa per Dopo la guerra, opera prima di Annarita Zambrano in concorso a Un Certain Regard, era molta e la lunghissima fila di spettatori fuori della sala Debussy per la prima proiezione del film l’ha ampiamente confermato. In molti, come chi scrive, non sono riusciti a entrare e si sono così dovuti […]

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Qui al Festival l’attesa per Dopo la guerra, opera prima di Annarita Zambrano in concorso a Un Certain Regard, era molta e la lunghissima fila di spettatori fuori della sala Debussy per la prima proiezione del film l’ha ampiamente confermato. In molti, come chi scrive, non sono riusciti a entrare e si sono così dovuti accontentare di vedere Dopo la guerra alla proiezione serale.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

La forte curiosità intorno all’esordio nel lungometraggio di finzione della 45enne Annarita Zambrano era dovuta a tre fattori in particolare: da una parte si tratta di una coproduzione franco-italiana a prevalenza francese; in secondo luogo la cineasta, romana che vive e lavora ormai da vent’anni a Parigi, viene da una serie di apprezzati cortometraggi presentati nei festival più prestigiosi del mondo, come lo stesso Cannes (Ophelia fu in gara per la Palma d’Oro nel 2013, Tre ore alla Quinzane des Réalisateurs), Venezia (À la lune montante) e Berlino (Andante mezzo forte); infine, Dopo la guerra affronta il delicato tema del terrorismo rosso e il rapporto fra Italia e Francia tra i primi anni Ottanta e i primi Duemila in materia di estradizione e diritto d’asilo.

Dopo aver fatto parte insieme al deceduto fratello di un gruppo terroristico italiano ed essere stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di un magistrato, Marco Lamberti (Giuseppe Battiston) si è costruito una nuova vita in Francia, dove per vent’anni ha usufruito del diritto d’asilo garantito a partire dal 1982 dalla dottrina Mitterand. Qui ha avuto una figlia, la 16enne Viola (Charlotte Cétaire), che sa ben poco del drammatico passato del padre. Tutto cambia radicalmente quando nel 2002, in seguito alla decisione del Presidente francese Raffarin di abrogare la dottrina Mitterrand, un insegnante universitario viene assassinato a Bologna. L’ipotesi del governo italiano è che Marco sia la mente dell’attentato e così padre e figlia si trovano all’improvviso costretti a fuggire.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

Ambientato tra la Francia e l’Italia, Dopo la guerra si concentra non solo sulla fuga di Marco e Viola ma anche su come le passate attività terroristiche dell’uomo si ripercuotano ancora drammaticamente, a distanza di oltre vent’anni, sulla famiglia italiana: la madre Teresa (Elisabetta Piccolomini), la sorella Anna (Barbora Bobulova), il marito di quest’ultima Riccardo (Fabrizio Ferracane) e la loro figlioletta. Annarita Zambrano evita abilmente di prendere banali posizioni ideologiche e focalizza la propria attenzione sulle sofferenze e il travaglio esistenziale dei vari personaggi. La sceneggiatura, scritta a quattro mani dalla stessa regista insieme a Delphine Agut, colpisce per la solidità e sul piano drammaturgico alterna in maniera particolarmente efficace le vicende francesi e quelle italiane. In questo contesto, i percorsi emotivi dei protagonisti vengono raccontati con delicatezza, senza mai calcare la mano, optando per un approccio asciutto ed essenziale che allontana qualsiasi tipo di enfasi.

fotogramma dal film Dopo la guerra di Annarita Zambrano

Nonostante qualche piccola sbavatura registica iniziale (i primi minuti ambientati all’università e nella palestra in cui Viola gioca a pallavolo non convincono appieno), Dopo la guerra rivela il talento di Annarita Zambrano non solo come sceneggiatrice ma anche dietro la macchina da presa. Affascinanti sono ad esempio alcuni primi piani dedicati a Viola, in primis quello abbinato a un carrello laterale che la ritrae mentre va in bicicletta in uno dei momenti più intensi del film. Accolto da un lungo applauso al termine della proiezione ufficiale, Dopo la guerra uscirà in Italia in autunno e noi di Fabrique vi consigliamo fin d’ora di andarlo a vedere.

 

 

 

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Festival di Cannes 2017: “L’intrusa” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/#respond Wed, 24 May 2017 13:36:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8588 Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012). L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi […]

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Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012).

L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi di un altro tipo ancora, quelli in divisa.

Raffaella Giordano nel film intrusaProtagonista è la torinese Giovanna (interpretata da Raffaella Giordano, coreografa, ha danzato anche con Pina Bausch nella leggendaria compagnia di Wupperthal), operatrice sociale che lavora in un centro ricreativo per i bambini del difficile quartiere di Ponticelli: «non un film sulla camorra» precisa Di Costanzo «ma un film con la camorra all’interno», proprio come fu L’intervallo, e anche in questo caso c’è un locus che dalla camorra protegge, isola, redime, o forse non fa nulla di tutto questo, perché – altra componente comune sia a Intrusa che a Intervallo – in nessuna delle due storie si racconta uno status destinato a perdurare, una condizione di stabilità, uno stanziamento, una felicità raggiunta, un esito accomodante.

Perché anche in questo sta la grandezza di Di Costanzo e dei suoi film: ha il tocco lieve di chi mette il racconto davanti a ogni cosa, ha uno sguardo d’autore autentico ma che non sta mai al di sopra dei suoi personaggi, la sua macchina a mano sta invece in mezzo a loro, alla loro altezza (anche e soprattutto quando si tratta di bambini), ne condivide i destini, ne asseconda i gesti, eppure non è mai conciliante, non si risparmia rispetto alle pieghe talvolta dolorose e impreviste che possono prendere gli eventi.

E d’altra parte la lezione del documentario sta proprio in questo tipo di approccio, prim’ancora che nello stile, affidato a una cura che non sfugge all’occhio attento (la fotografia fu di Bigazzi, nel film precedente, questa volta è affidata alla veterana francese Hélène Louvart, già dop per i lungometraggi di Alice Rohrwacher). In questo particolare cortile dove ambienta L’intrusa, Di Costanzo fa muovere un caleidoscopio di personaggi che a un certo punto quasi sembrano una compagnia circense, e tale, tutto sommato, è la loro sorte nel pittoresco finale.

Set del film Intrusa di Leonardo di Costanzo.
Foto: Gianni Fiorito

Nella “Masseria” (questo il nome del centro di recupero) arriva Maria, sposata a un sanguinario camorrista che la polizia locale viene prontamente ad arrestare con una retata che sconvolge la serenità del luogo. La figlia Rita, asociale e scorbutica (anche lei un po’ selvaggia, anche lei dedita allo sputo, come un’altra bambina italiana che abbiamo conosciuto qui a Cannes…), viene incoraggiata da Giovanna a far parte della compagnia: i primi passi sono anche sorprendenti, ma poi la “diversità” sua e della madre prende il sopravvento.

Giovanna, filantropa illuminata, vuole che i suoi colleghi siano superiori a certe tendenze discriminatorie che si mettono in moto nei confronti della famiglia del malamente, che sarebbe ovviamente più sano per tutti cercare l’integrazione piuttosto che l’allontanamento (un concetto che si può estendere a tanti ambiti…). Ma come intrusa è Maria, è intrusa allo stesso modo anche Giovanna in un mondo che ha delle leggi, dei comportamenti stabiliti, i dettami del quieto vivere napoletano.

Giovanna e Maria sono due donne di principio, coraggiose, ciascuna a modo proprio. Prendono decisioni che in un modo o nell’altro possono ferire qualcuno. E pazienza se si tratta dello spettatore.

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