Proiettato tra i titoli Fuori Concorso della 69a edizione del Festival di Cannes, il documentario del duo composto da Thanos Anastopoulos e Davide Del Degan parte da un’idea interessante, ma si perde progressivamente per strada.
Dopo l’apertura della Quinzaine con Fai bei sogni di Marco Bellocchio, a Cannes è arrivato il momento de L’ultima spiaggia, il secondo dei sei film italiani attesi quest’anno nel contesto della prestigiosa kermesse francese. La curiosità per questo piccolo documentario, interamente ambientato in una spiaggia triestina dove ancora oggi un muro separa lo spazio dedicato alle donne da quello riservato agli uomini, non era poca (guarda il trailer).
Girato nell’arco di un anno a quattro mani dal greco Thanos Anastopoulos e dall’italiano Davide Del Degan e co-prodotto da Italia, Grecia e Francia, L’ultima spiaggia si propone di mostrare una moltitudine di persone che frequentano giorno dopo giorno il popolare stabilimento balneare di Pedocin (chiamato anche Lanterna) per stimolare una riflessione sulla travagliata storia di Trieste e sui molteplici contrasti interni a un popolo che nel corso dei secoli, così come più specificamente del Novecento, ha conosciuto diverse occupazioni e molteplici influenze socio-culturali.
Per quanto alcune immagini siano senz’altro suggestive (a tratti, come nel caso delle scene subacquee, emerge un buon gusto per la messa in scena) e taluni momenti anche spassosi o stimolanti (una serie di dialoghi tra pensionati al mare, le loro genuine espressioni), il documentario però si perde troppo spesso in aspetti della quotidianità che alla resa dei conti risultano sconnessi tra loro e, di conseguenza, incapaci di far emergere un discorso profondo e strutturato sui vari e complessi temi che si vorrebbero toccare, tra i quali anche quello così attuale connesso alla costituzione di muri e barriere in territorio europeo.
Il più grande problema de L’ultima spiaggia risiede nel fatto che, passando in continuazione da un personaggio all’altro e da una più o meno estemporanea chiacchierata all’altra, non dà mai l’impressione di riuscire a trovare una vera e propria chiave narrativa, un filo rosso che permetta allo spettatore di appassionarsi davvero ai vari personaggi e a quanto scorre sullo schermo. Di certo avrebbe giovato limitare il numero di persone su cui focalizzarsi, con la conseguente più concreta possibilità di porre maggiormente in risalto le singole storie personali e i punti di vista di ognuno. In questo modo, invece, il documentario è condannato a rimanere alla superficie delle cose nonostante la durata di due ore e quindici minuti, decisamente eccessiva.
Se l’idea di partenza era certamente buona e sulla carta avrebbe potuto condurre a sviluppi molto interessanti, la sensazione dominante che si ha alla fine della proiezione è quella di un’occasione mancata.