Documentario, sinfonia visiva, partitura musicale su schermo, urlo e insieme canto: Beautiful Things è un oggetto strano, un’opera visionaria che durante la scorsa Mostra del cinema di Venezia ha lasciato la laguna a occhi spalancati e bocca chiusa. Il film è infatti un assordante elogio al silenzio che calpesta i 5 sensi costringendo lo spettatore a una profonda riflessione sul dietro le quinte della macchina che muove la nostra società: il consumismo
Selezionato da Biennale College – bottega d’arte alla sua quinta edizione che ogni anno dà la possibilità a tre giovani autori di realizzare film low budget – Beautiful Things è l’opera prima di Giorgio Ferreri, fotografo ma soprattutto compositore e musicista torinese, che ha avuto 8 mesi per realizzarla. Il film, molto più che sperimentale, è un eccentrico tentativo – assolutamente riuscito – di racchiudere immagini, parole e suoni in un’ipnotica sinergia.
In Beautiful Things s’intrecciano 4 storie, 4 personaggi che probabilmente non si incontreranno mai, 4 esistenze ai limiti dell’isolamento, 4 eremiti della società, imperatori di regni fantasma e sotterranei che a nessuno interessa scoprire. 4 capitoli (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere)per svelare chi c’è dietro alla gigantesca macchina produttiva di quelle “cose bellissime” di cui noi esseri umani siamo ghiotti, per raccontare le 4 fasi principali, dalla nascita alla morte, dalla creazione alla distruzione, passando per il trasporto e la commercializzazione, di qualsiasi cosa teniamo in mano, guidiamo, indossiamo.
C’è Van, manutentore di pozzi petroliferi, che nel deserto texano conduce la vita dell’ultimo uomo sulla terra; Danilo, che ricorda tanto il Novecento di Alessandro Baricco, un ingegnere meccanico filippino che vive su una nave cargo; Andrea, che da sempre trascura l’aspetto esteriore per curare la mente, scienziato bolognese votato al silenzio che si occupa di testare le proprietà acustiche di oggetti d’ogni tipo nelle immobili e silenziosissime camere anecoiche e, infine, Vito, che indossa sempre una maschera e trascorre le sue giornate dentro a una fossa di rifiuti.
Uomini soli per scelta, il “lato oscuro” della nostra bulimia consumistica, che ogni giorno creano, misurano, testano e poi distruggono quegli oggetti che amiamo, odiamo, annusiamo, collezioniamo, che a volte ci precedono e sempre ci sopravvivono.
Il punto di vista del regista è preciso ma mai imposto: lo spettatore è messo di fronte a uno specchio ed è lui a dover decidere se guardarsi dritto negli occhi o trovare l’ennesimo escamotage per non riflettersi. D’altronde siamo sempre noi a rinunciare al nostro stesso spazio vitale per fare posto a oggetti che ci ricordano qualcosa o che semplicemente crediamo ci possano rendere migliori.
Le 4 storie sono orchestrate da una regia e un ritmo rigorosi, simmetrici, ma è la musica a rendere questo documentario un’opera che sarà difficile dimenticare: tutto diviene colonna sonora, dai movimenti cadenzati della mostruosa Pumpjack petrolifera, fino a una musica diegetica realizzata da un bambino con un bastone e alcuni oggetti trovati nel deserto,per un risultato che toglie il fiato.
Storditi e quasi feriti da immagini, parole e suoni che insieme collaborano fino a fondersi, ancora confusi sul senso del film, la scena finale arriva inaspettata: un incredibile piano sequenza accompagnato da una musica capace di entrare davvero nel cervello. Due ballerini si esibiscono in un centro commerciale in una coreografia precisa e insieme scatenata che non è né la soluzione, né tantomeno la via d’uscita al nostro modo di vivere, ma in qualche modo ha il sapore della liberazione, della catarsi.