Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 20 Mar 2025 15:07:01 +0000 it-IT hourly 1 Stiamo arrivando: Gugliemo Poggi fascistoide NPC a teatro https://www.fabriqueducinema.it/focus/stiamo-arrivando-gugliemo-poggi-fascistoide-npc-a-teatro/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/stiamo-arrivando-gugliemo-poggi-fascistoide-npc-a-teatro/#respond Thu, 20 Mar 2025 15:02:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19635 L’eroe fascistoide di Guglielmo Poggi prende a calci la quarta parete del teatro Belli di Trastevere con la stessa violenza di chi, fomentato da Donald Trump, il 6 gennaio 2021 ha preso d’assalto Capitol Hill. Un punto di non ritorno della storia recente nonché il primo, indisturbato scacco matto ai nuovi equilibri delle democrazie occidentali. […]

L'articolo Stiamo arrivando: Gugliemo Poggi fascistoide NPC a teatro proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
L’eroe fascistoide di Guglielmo Poggi prende a calci la quarta parete del teatro Belli di Trastevere con la stessa violenza di chi, fomentato da Donald Trump, il 6 gennaio 2021 ha preso d’assalto Capitol Hill. Un punto di non ritorno della storia recente nonché il primo, indisturbato scacco matto ai nuovi equilibri delle democrazie occidentali. Pronto ad andare in guerra con anfibi e divisa mimetica, tronfio di protesi, mitra e muscoli posticci, il fascistoide sul palco non fa altro che sparare. Guarda il pubblico: mira, pausa, fuoco. In meno di un’ora fa secchi tutti, anche Lilli Gruber, Macron e Fedez. E senza omettere le sue valide argomentazioni. Parla moltissimo, infatti, quasi senza respirare, in un delirio d’onnipotenza restituito da un inquietante esercizio di scrittura e memoria attoriale. Inquietante perché, in effetti, ogni tanto ci si dimentica d’essere a teatro e viene voglia di andarsene.

Il fascista ideato da Umberto Marino e interpretato da Guglielmo Poggi ci sfotte, ride, balla, uccide e poi esulta, s’accascia e poi torna in vita, fa discorsi da spogliatoio in uno spogliatoio vuoto. Il suo è un cameratismo che non ha più bisogno di interlocutori, perché l’ascolto non è un’opzione. “Stiamo arrivando”, preannuncia il titolo dello spettacolo, ma il personaggio si prende gioco del suo stesso autore e gli ricorda a scena aperta che, in realtà, loro sono già arrivati. «Noi il pianeta ce lo mangiamo, ce lo fumiamo, ce lo scopiamo. E se a chi viene dopo non gli rimane niente, chi se ne frega. Ha fatto male ad arrivare dopo», questo è lo slogan urlato dal fascistoide, mentre penetra l’aria a colpi di bacino. Poggi lo fa con un macigno di costume addosso (realizzato da Elena Giordani), tra machete, pistole, fucili, protesi, pettorine e braccialetti luminosi che lo stringono come un insaccato pronto ad esplodere. Impossibile staccargli gli occhi di dosso, perché è vero: i fascisti urlano meglio di chiunque altro. E naturalmente urlano contro di noi, le «zecche» in platea – così ci appella per un’ora – mentre in prima fila ci raggiungono gli sputi e gli schizzi del suo sudore (anche questo è teatro).

Stanno arrivandoIn scena vediamo il prototipo di un videogioco che cita l’estetica da combattimento del deathmatch, in cui l’ultimo a rimanere in piedi è l’unico a sopravvivere. Stiamo arrivando omaggia gli iconici immaginari di Fortnite, Tekken o Mortal Kombat, mentre con una sinergia a tratti inspiegabile tra la performance, la giostra di luci ideata da Stefano Rampa e i comandi della regia, Francesco Andolfi pilota Guglielmo Poggi attraverso le tipiche voice over dei cosiddetti “pre-battle announcement”. Get ready for the next battle, countdown, fight. Ma soprattutto, senza sosta e per quasi un’ora, Poggi fluttua. Si muove come un avatar, molleggia in costante equilibrio sulle gambe e agisce secondo la fisica dell’idle animation, in una sorta di marcia sul posto che dilata la tensione nel presagio della prossima azione. Siamo in un videogioco che rievoca gli avatar degli anni Novanta e insieme la rappresentazione sanguigna delle frange sociali più violente della nostra epoca. È un personaggio fastidiosamente rozzo, macchiettistico, invadente, ingombrante, mentre a raffica parla di armi, sinistra europea, diritti civili, giornalismo, conflitto in Medio-Oriente, cultura, conquista dello spazio, immigrazione (e se è vero che tra le fila della commedia italiana e dell’Orchestraccia ha trovato la sua cifra, nei ruoli da psycho come questo o come quello di Angelo Izzo nella serie Circeo, Poggi riesce a trasformarsi e dare il meglio di sé).

Lo conosciamo bene, il protagonista di questo spettacolo, e lo detestiamo. È una figura incurante dello spazio altrui, che divora tutto ma resta pur sempre un NPC. Un non-playable character che porta avanti la storia, sì, ma senza alcun controllo su di essa. Un burattino che incarna l’obiettivo del gioco mentre possiede solo l’illusione di dettarne le regole. L’allegoria è perfetta e disturbante, perché finiamo per detestarci anche noi, quando ci strappa una risata con una battuta volgare, quando ci scopriamo a trovarlo attraente nelle sue pose plastiche, quando balla su Taylor Swift e inneggia al fascismo sulle note di Mad About You degli Hooverphonic, in un momento di squisitissimo pop. Non vogliamo dirlo, ma stiamo pensando che forse un po’ ha ragione. Che ci stiamo trastullando nel disprezzo dell’altro senza provare a cambiare le cose.

Marino e Poggi portano in scena un j’accuse al contrario, un manifesto del fascistoide in cui è il sinistroide a specchiarsi e fare harakiri. Il suo coprirsi di ridicolo è la parodia del nostro fallimento, del nostro compiaciuto dissenso di facciata, della nostra sterile opposizione. Non siamo altro che gli spettatori impotenti del suo show. L’emblema di tutti gli errori? Neanche a dirlo, il parquet (tra i passaggi più esilaranti della pièce). Perché certo che siamo ecologisti, e certo che manifestiamo per l’ambiente, ma come possiamo rinunciare al parquet, che tanto bene si sposa con le nostre librerie, con lo yoga fatto in casa, con il tofu, i calici di vino bio e lo status da intellettuali con cui salveremo il mondo a suon di talk? Non rinunceremo mai al parquet su cui spiccano i nostri, di manifesti. Quelli della rivoluzione minimalista in helvetica, brandizzata su borse di tela e quadretti da sfoggiare ovunque con la scritta: Sta rottura de cojoni dei fascisti. Be’, forse è troppo tardi. Game over.

In anteprima a Roma, in scena dal 14 al 16 marzo, da non perdere in vista di un prossimo tour.

 

L'articolo Stiamo arrivando: Gugliemo Poggi fascistoide NPC a teatro proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/focus/stiamo-arrivando-gugliemo-poggi-fascistoide-npc-a-teatro/feed/ 0
I moti celesti: tre adulti ma non troppo e una città https://www.fabriqueducinema.it/focus/i-moti-celesti-tre-adulti-ma-non-troppo-e-una-citta/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/i-moti-celesti-tre-adulti-ma-non-troppo-e-una-citta/#respond Wed, 19 Mar 2025 16:14:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19629  I moti celesti, pubblicato da Coconino, segna l’esordio nel racconto lungo a fumetti di Michele Peroncini. La storia ha però un ritmo e delle scelte stilistiche pienamente consapevoli, segno di una profonda conoscenza del linguaggio del fumetto, del cinema d’autore e, come ci ha confessato l’autore, di un rapporto quasi d’affetto con i suoi teneri […]

L'articolo I moti celesti: tre adulti ma non troppo e una città proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
 I moti celesti, pubblicato da Coconino, segna l’esordio nel racconto lungo a fumetti di Michele Peroncini. La storia ha però un ritmo e delle scelte stilistiche pienamente consapevoli, segno di una profonda conoscenza del linguaggio del fumetto, del cinema d’autore e, come ci ha confessato l’autore, di un rapporto quasi d’affetto con i suoi teneri e spietati “Zanni” da commedia dell’arte.

 Come è nata l’idea dei Moti celesti e quanto ci hai lavorato per portarla a termine?

Questa storia è nata da riflessioni e suggestioni che si sono sedimentate nel tempo e slanci di idee più improvvise, che mano a mano si sono andate a compattare attraverso il bisogno di esprimermi con il racconto per immagini. Il fumetto è un’arte lenta e forse per questo bisogna essere veloci, ma in ogni caso è difficile iniziare e terminare un libro nel giro di pochi giorni. Ci ho lavorato molto, non saprei quantificare con precisione, perché durante la lavorazione facevo anche altro; penso spesso che ho scritto I moti celesti quando non avevo la penna in mano, durante quel “fare altro” appunto, rimanendo però sintonizzato con la necessità di raccontare.

I moti celesti

A proposito della composizione delle tavole, Manuele Fior ha scritto che le tue vignette sono «un mosaico dinamico che marca strettissimo i movimenti dei suoi personaggi». Ti chiederei allora quali sono i tuoi riferimenti, i tuoi “maestri”.

Hai citato Manuele Fior e sicuramente lui è in cima alla classifica degli autori che più mi ispirano. Le prime opere che mi fecero capire che si potevano sviluppare storie lunghe e autoconclusive attraverso il linguaggio del fumetto furono Cinquemila chilometri al secondo di Fior, per l’appunto, e Appunti per una storia di guerra di Gipi. Sul fronte francese mi piace molto Christophe Blain. Per quanto riguarda la composizione delle tavole, credo che la cosa che più influisce nel “marcare strettamente” i movimenti dei personaggi sia il fatto che inizialmente devo visualizzare lo svolgersi dell’azione in maniera fluida, più o meno come in un film d’animazione, e poi scelgo le immagini e le inquadrature che meglio possono restituire questa dinamicità. Da qui la necessità non solo estetica di tenere una frequenza di vignette molto alta, cosa che permette di essere capillare nel ritmo e ottenere per esempio molti scambi nei dialoghi, oppure all’occorrenza di dilatare i tempi, andando a diminuire e ingrandire le immagini a pagina.

 Sfogliando il tuo libro, una fonte evidente sono inoltre la storia dell’arte e il cinema. Quali autori e quali atmosfere?

Morandi, Gauguin, Exekias, della Robbia sono alcuni degli autori che vengono citati nel libro a volte per un’unica immagine, riferimenti scelti anche solo per un legame con il contesto narrativo, perché nell’arte mi piacciono davvero troppe cose, spesso molto diverse tra loro: se dovessi partire dalla pittura attica a figure nere sino ai giorni nostri l’elenco sarebbe lunghissimo e sicuramente dimenticherei qualcosa. Lo stesso vale per il cinema: sono una fonte di ispirazione enorme il cinema italiano del Fellini in bianco e nero, quello de I vitelloni, La dolce vita,   o I soliti ignoti di Monicelli, la trilogia del dollaro di Sergio Leone, ma anche la Nouvelle Vague e il cinema americano.

I moti celesti

Vista l’attenzione meticolosa all’ambientazione urbana – una Genova grigia e piovosa ma anche, per contrasto, vivacemente colorata – immagino che nella stesura della storia tu abbia studiato da vicino luoghi e scene. È così?

Volevo che la città fosse un vero co-protagonista, ma devo dire che non è proprio Genova la città in questione, perché nonostante ci sia davvero molto del capoluogo ligure e di tutto il tratto di Levante, c’è ancora di più di La Spezia, la città in cui vivo. Più in generale mi interessava creare un immaginario che rispecchiasse il mio gusto, in cui potermi orientare e raccontare in modo credibile: di conseguenza è stato naturale per me ambientare questa storia in una città di mare dalla forte identità ligure, fatta di scorci e luoghi a me familiari, ma anche di colori e atmosfere che ben conosco, come quei cieli plumbei e piovosi che si trovano in autunno e inverno a La Spezia, così diversi dai cieli luminosi dei mesi estivi.

Nel racconto picaresco, randagio se vuoi, i tre protagonisti sembrano affacciarsi a una redenzione possibile. Qual è il tuo atteggiamento verso Fausto, Siro e Gian?

Per me ormai sono tre vecchi amici, tanto che a volte non mi ricordo neppure dove li ho incontrati per la prima volta: di certo li ho trovati disegnando, forse loro hanno trovato me, non so se mi hanno raccontato la loro storia o io avevo bisogno di loro per questo libro. Da subito mi sono sembrati tre randagi, come gli Zanni nella commedia dell’arte italiana, un po’ spiantati e sempre alla ricerca di cibo o denaro, ma in Fausto, Siro e Gian c’è anche un’irrequietezza esistenziale oltre quella materiale, e forse è questa tensione a offrire loro lo slancio per un cambiamento.

 

 

L'articolo I moti celesti: tre adulti ma non troppo e una città proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/focus/i-moti-celesti-tre-adulti-ma-non-troppo-e-una-citta/feed/ 0
L’albero: un’amicizia che diventa amore https://www.fabriqueducinema.it/focus/lalbero-unamicizia-che-diventa-amore/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/lalbero-unamicizia-che-diventa-amore/#respond Tue, 18 Mar 2025 08:47:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19621 Fotografa di professione, Sara Petraglia, prodotta da Angelo Barbagallo per BibiFilm e con la distribuzione di Fandango, ha esordito alla regia con L’albero, in concorso alla Festa del Cinema di Roma e da giovedì in sala, con protagoniste Tecla Insolia e Carlotta Gamba. Un’insolita opera prima che racconta il vuoto post-adolescenziale di due ragazze che […]

L'articolo L’albero: un’amicizia che diventa amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Fotografa di professione, Sara Petraglia, prodotta da Angelo Barbagallo per BibiFilm e con la distribuzione di Fandango, ha esordito alla regia con L’albero, in concorso alla Festa del Cinema di Roma e da giovedì in sala, con protagoniste Tecla Insolia e Carlotta Gamba.

Un’insolita opera prima che racconta il vuoto post-adolescenziale di due ragazze che prendono una casa in affitto in un quartiere popolare di Roma. Magari un po’ fortunate a potersi permettere i loro vizi senza troppi problemi, giocano le loro chance trascorrendo il tempo a ciondolare in spiaggia di giorno e nei locali la sera, il tutto condito da righe di cocaina consumate insieme a un gruppo di amici altrettanto indolenti. I loro sorrisi non sono mai pieni e i loro dolori inconoscibili. Fino a quando la regista ci mostra le loro reazioni e le loro contraddizioni di fronte a una notizia che le scuoterà.

Come nasce il film?

Facevo la fotografa e mi veniva abbastanza bene, però mi era sempre rimasto qui di non essere riuscita a scrivere niente. Poi, durante qualche mese di disoccupazione, ho superato la frustrazione e mi sono data un’ultima possibilità. Non riuscivo trovare la storia giusta, ma rovistando tra i miei appunti ritornava la figura di un albero che vedevo da una finestra del Pigneto quando vivevo lì. Mi sono accorta che la storia in realtà ce l’avevo già, perché l’avevo in parte vissuta, dovevo solo trovare il coraggio di tirarla fuori. Ho scritto la sceneggiatura in soli due mesi. Inizialmente l’ho tenuta per me, poi ho trovato il coraggio di farla leggere ad Angelo Barbagallo, produttore di cui mi fido tantissimo perché ama il cinema fatto di storie, che mi ha proposto subito di girarlo. All’inizio gli ho detto di no perché non lo avevo mai fatto prima, ma quando mi ha chiesto a chi avrei voluto farlo girare, gli ho risposto: «A nessuno». Allora era chiaro che dovevo farlo io! È stato un salto nel vuoto incredibile e credo di aver imparato tutto girando.

L'albero
Tecla Insolia e Carlotta Gamba sul set de “L’albero” (ph: Tecla Insolia).

Giochi molto sui contrasti: Bianca e Angelica evocano purezza con i loro nomi, ma vestono solo di nero. E coltivano una dipendenza da sostanze, un po’ un seme di autodistruzione.

Da Bianca e Angelica è venuto fuori automaticamente qualcosa di allegro e disperato insieme. Stanno vivendo un periodo molto duro e spaventoso della loro vita, ma riescono ad attraversarlo anche con una certa dose di ironia. Non l’avevo deciso a priori, però ho fatto dire loro cose tragiche da smorzare poi con una battuta, che non doveva neanche far ridere a tutti costi. Credo sia importante non prendersi troppo sul serio quando si raccontano storie così drammatiche, perché così trovano più forza. Ho frequentato nella mia vita tanti di quei gruppetti tutti vestiti di nero, esistenzialisti e tristi…

Come gli emo?

Esatto! Allora non lo sapevamo, ma in fondo eravamo emo, magari senza ciuffi. Spesso questi ragazzi si compiacciono del loro dolore e Bianca ha in effetti un lato molto teatrale. Predica che la vita è sofferenza, legge Leopardi, i suoi amici sono malinconici come lei. È un po’ il privilegio di molte di queste persone che possono permettersi di buttare via il loro tempo a vent’anni, possono permettersi di essere tristi tutto il giorno. In tanti mi hanno chiesto se è un film generazionale. No, io racconto due persone particolari, borghesi che buttano via il loro tempo. Non mi permetterei mai di dire che quelli sono i ventenni di dieci anni fa o di adesso. Sono solo due personaggi.

Le tue attrici affrontano tutto il film con grande naturalezza. Quanta improvvisazione c’è stata e quante prove ci sono state dietro al vostro lavoro?

Pochissime prove, ma fondamentali. Ci siamo viste prima delle riprese per tre giorni a casa mia sviscerando passo passo la sceneggiatura: Tecla e Carlotta trovavano subito il tono giusto che dava vita alla scena. Hanno trovato immediatamente una grande sintonia, creando un’alchimia perfetta. Sono state giornate intense, particolari, divertentissime. Mi hanno addirittura rubato i diari per leggerli e mi hanno praticamente sottoposto a interrogatori appassionati. E poi il set è stato magico. Sono due attrici incredibili, e io fortunata ad averle insieme.

Per certi versi mi sembra che tu abbia voluto ricreare una rappresentazione di amore liquido.

Non saprei dire se “amore liquido” è l’espressione giusta. Però m’interessa tantissimo l’amicizia che è anche amore. Non necessariamente una cosa porta all’altra, ma c’è qualcosa tra questi sentimenti che ha a che fare col destino. Un po’ come quando ti sembra di conoscere una persona da una vita precedente, anche se poi non è detto che il rapporto funzioni. E quando si arriva a distruggersi così tanto come accade nel film a un certo punto bisogna riuscire a separarsi. Mi piace parlare di rapporti non standardizzati: “Quella è un’amica”, “quella è una fidanzata”. Qui è tutto è aperto all’eventualità e tutto potrebbe essere. Quindi liquido, in effetti!

Nel film non offri appigli interpretativi. Ma l’albero del titolo che si vede sempre dalla finestra può essere inteso come simbolo di una stabilità irraggiungibile?

Anche. Mi piace questa idea. Non ho voluto spiegare l’albero perché probabilmente sfugge anche a me qualcosa di questo simbolo. Di sicuro rappresenta ciò che non si dimentica. Il film è tutto un ricordo di Bianca e alla fine quello che resta è un albero. Come dici tu, al contrario delle loro vite, l’albero è fermo, è rimasto lì. Forse è qualcosa di più eterno rispetto a loro. Che poi pure gli alberi li tagliano, soprattutto al Pigneto…

L'albero
Tecla Insolia, Sara Petraglia e Carlotta Gamba.

Come mai ti sei avvicinata al filone di Christiane F – Noi ragazzi dello Zoo di Berlino e Trainspotting, i cosiddetti drug movies?

Credo che della dipendenza, ma soprattutto della cocaina, si parli a volte in maniera sbagliata. Troppi stereotipi e pregiudizi, troppe connotazioni negative su chi ne fa uso. Penso che abbia ancora bisogno di essere raccontata. La cocaina viene collegata in genere all’universo maschile, alla criminalità, alla ricchezza aggressiva. Io ho provato a togliere quegli aspetti che trovavo caricaturali, inutili. Ho girato senza effetti di distorsione, senza visioni frenetiche: non avrei mai potuto mostrare come nasce e come finisce una dipendenza perché ci vorrebbero dieci film. Suona come una minaccia, perché potrei anche farli… [ride]. Quello che racconto è un momento preciso, quando il consumo di una sostanza è diventato già un abuso e l’abuso sta per diventare dipendenza. Così come racconto un’amicizia che potrebbe diventare amore, come una pentola a pressione che a un certo punto comincia a fischiare.

Qual è il tuo cinema di riferimento?

Sono cresciuta guardando ossessivamente i film. Sceglievo un regista e poi guardavo tutto quello che aveva girato. Quelli che mi hanno ossessionato di più sono Kieślowski, Tarkovskij, Bergman e poi i più contemporanei, come Lynch. Però sono stata molto attenta a togliere tutto questo al momento di girare.

L'articolo L’albero: un’amicizia che diventa amore proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/focus/lalbero-unamicizia-che-diventa-amore/feed/ 0
Dark Astro Film: è nata una stella, o forse un pianeta https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dark-astro-film-e-nata-una-stella-o-forse-un-pianeta/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dark-astro-film-e-nata-una-stella-o-forse-un-pianeta/#respond Mon, 17 Mar 2025 09:45:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19613 Hanno 19 anni, erano compagni all’Accademia Cineteatro di Roma ma non si parlavano granché. Poi un giorno è arrivata l’esigenza di creare qualcosa e di crearlo insieme. Francesco Pratini e Alessio Lupu sono due sognatori come pochi ne esistono, determinati, puri. Hanno fretta di creare e fame di storie. Per loro il cinema non è […]

L'articolo Dark Astro Film: è nata una stella, o forse un pianeta proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Hanno 19 anni, erano compagni all’Accademia Cineteatro di Roma ma non si parlavano granché. Poi un giorno è arrivata l’esigenza di creare qualcosa e di crearlo insieme. Francesco Pratini e Alessio Lupu sono due sognatori come pochi ne esistono, determinati, puri. Hanno fretta di creare e fame di storie. Per loro il cinema non è una passione e neanche un lavoro. È una religione. Qualcosa di sacro e allo stesso tempo qualcosa che ti porta a peccare, perché quando esplori, fai ricerche e crei qualcosa, per forza di cose ti devi sporcare le mani. Anticonformisti e desiderosi di fare cinema indipendente con una fortissima connotazione intima, personale e drammatica, Francesco e Alessio hanno da poco fondato la loro casa di produzione, la Dark Astro Film, nome visionario tanto quanto i suoi fondatori.

Francesco, partiamo dalle origini. Come è nata la passione per la recitazione?

Francesco: Recito da quando ho sei anni. Non si può neanche definirlo come un lavoro, perché ormai per me è uno stile di vita. Sono partito dal teatro poi ho iniziato a conoscere meglio il cinema. Mi ispiro a quegli artisti che credono fermamente  nei loro progetti anche a costo di andare contro l’industria e contro tutti, come ad esempio Leonardo DiCaprio che fin da giovane si è prodotto i film che voleva fare. Per me essere indipendenti significa essere liberi. Non starsene con le mani in mano ad aspettare, ma mettersi in gioco su ciò che realmente si vuole fare.

E tu, Alessio, come sei arrivato al cinema?

Alessio: Io sono regista, attore e adesso anche sceneggiatore. Ho scritto e diretto diversi corti, sono stato giurato all’ultima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dove ho potuto assegnare il Premio Leoncino d’Oro al Miglior Film (avevo vinto questa possibilità grazie a un concorso ai David di Donatello con una recensione). Ho lavorato a tanti progetti e ho anche scritto un libro, L’ultima speranza. Sono aperto a qualsiasi forma d’arte. Per me ogni storia è un universo con le sue proprie leggi fisiche.

Come nasce la vostra casa di produzione?

F: Dopo un’operazione stavo attraversando un periodo tremendamente buio. È stato allora che ho capito che oggi stiamo bene e domani stiamo male, e se davvero si ha la voglia di raccontare qualcosa, non c’è tempo da perdere. Io e Alessio ci siamo conosciuti all’Accademia Cineteatro, non ci parlavamo tantissimo, anzi quasi ci evitavamo, ma scrissi  a lui perché sapevo che era l’unico che poteva darmi una mano. Non mi sarei mai immaginato che sarebbero nate un’amicizia e una collaborazione così forti. Abbiamo capito subito che la strada giusta da prendere insieme era quella della produzione. Così è nata l’idea del nostro primo corto prodotto con la nostra casa di produzione, La stella cadente.

Dark Astro FilmDa dove arriva il nome Dark Astro Film?

A: Abbiamo scelto una parola a testa. Francesco ha scelto “dark”, e io “astro”. Penso che in Italia ci sia terreno fertile per questi due temi. Si pensa spesso agli effetti speciali ma in realtà si possono creare tantissime storie “fantastiche” senza nessun tipo di effetto. Fin da piccolo sono sempre stato affascinato dallo spazio, dall’universo, e questa cosa la voglio portare anche al cinema. Ma ad esempio il nostro secondo corto, L’astronauta, non parla veramente di un astronauta. È un corto psicologico. In fase di sceneggiatura non volevo scrivere il classico corto con i tre atti, il colpo di scena, dove sai sempre che sta per accadere qualcosa. Volevo raccontare il trauma silenzioso di una bambina che ha perso il suo migliore amico, portato via dal cancro. È un tema che ho voluto far percepire allo spettatore, volevo farlo emozionare raccontando però l’amore impossibile fra i due. Perché la domanda del film alla fine è questa: si può sprecare una vita intera inseguendo un amore eterno per qualcuno che non c’è più?

Come concepite il vostro lavoro, quello di attore, di sceneggiatore e di regista?

F: Il cinema viene considerato di solito come finzione ma per me, come attore, non è così. Nel momento in cui piango, piango veramente, se provo amore lo sto provando davvero: è veramente un controsenso dire che il cinema è finzione, perché per me è quasi più reale della vita vera. Mi spingo a dire che l’attore dovrebbe nascondere a se stesso il fatto che la sua sia una finzione. Non dovrebbe esserne proprio cosciente. Gli attori si dividono “tecnici” ed “emotivi”. Quelli che interpretano in base alle tecniche studiate e quelli che semplicemente aprono i loro canali e quello che succede poi succede. Io cerco di essere uno di questi ultimi, punto a far emozionare i bambini e gli anziani, perché altrimenti questo mestiere non avrebbe alcuna utilità.

A: La penso allo stesso modo, forse il vero attore è quello che non sa fingere al cento per cento perché vive la scena. Sta in ascolto. E credo fermamente che se una cosa non la senti o non ti emoziona è inutile raccontarla. Prima di essere regista o sceneggiatore, devi essere spettatore. Spesso dico che scrivo storie che non esistono, perché sono troppo belle per non esistere. È un paradosso che mi piace tantissimo.

Avete intenzione di produrre solo progetti ideati da voi o farete anche scouting di idee di altri artisti?

F: Abbiamo iniziato per una necessità nostra, ma non sottovalutiamo assolutamente le idee di altri artisti nel momento in cui ce le propongono. Abbiamo una sola esigenza: quella di raccontare storie che ci piacciono, e se qualcuno ha una bella storia ma non ha la possibilità di realizzarla da solo, possiamo senz’altro farlo insieme.

A: Di base se c’è emozione – che per me è l’anima di questo lavoro – allora perché non raccontare una storia? Essere regista per me significa essere aperti, curiosi, a me interessa sapere tutto. Capire tutto. Scoprire, più che capire. Per questo vedo il regista un po’ come uno scienziato, perché lo scienziato ha il gene della curiosità nei confronti dell’universo.

Francesco Pratini
Francesco Pratini.

Come producete i vostri lavori?

F: Abbiamo iniziato come tutti con l’autoproduzione, il primo corto infatti è nato così. Ora però sembra che qualcosa si stia smuovendo. Abbiamo instillato un po’ di curiosità nella mente di qualche investitore, perché quando hai così tanta fame di storie le persone poi credono nei tuoi progetti. Chiunque voglia credere in noi può salire sulla nave. Abbiamo ottimi riscontri, in poco tempo ci siamo già fatti notare, i nostri passi li stiamo facendo.

Quali sono adesso i progetti che state portando avanti?

A: Al momento abbiamo due film in produzione. Una sceneggiatura è completa e una sto finendo di scriverla. Il primo film, La mia luna, è un film drammatico-romantico, fondato sull’idea che esiste una quotidianità della fantascienza. È una sfida, perché in Italia non si trattano spesso argomenti come questo. Il secondo film nasce da un’idea di Francesco e si intitola L’angelo più bello.

F: È su un musicista rock e la sua ossessione per la scrittura, destinata a trasformarsi in una vera e propria psicosi che lo porterà a dissociarsi dal mondo reale e lo condurrà in un mondo tutto suo alla ricerca del genio. Torna insomma l’idea dell’arte come assoluto. Attualmente mi sto occupando della preparazione attoriale: non ho mai suonato uno strumento e adesso sto imparando a suonare la chitarra.

Come descrivereste la mission della vostra casa di produzione? Che tipo di film vorreste girare?

A: Io userei tre parole: acqua, stringhe e tempo. Acqua e tempo perché voglio che i film che faremo siano qualcosa che può adattarsi a qualsiasi tipo di pubblico ed epoca. Che possa fluire e modellarsi come fa l’acqua. E poi stringhe: c’è una teoria che dice che in tutto l’universo ci sono delle stringhe che continuano a vibrare. Sono talmente piccole che non si possono ancora vedere, neanche con i microscopi più potenti. Però costituiscono i mattoni fondamentali dell’universo, perché sono delle stringhe di energia. E i film li vedo un po’ così: una stringa che vibra e quella vibrazione emana un’energia che è la sua potenza.

Un’idea bellissima. Molto cosmica. E la tua risposta, Francesco?

F: Quella breve è: vorrei girare film che rimangano. Con una consapevolezza però: il cinema, come ogni arte, è un’arte benedetta. Però gli artisti sono maledetti. Mi spiego meglio: l’arte di per sé è un culto, il cinema è sacro. Le persone che ci lavorano invece sono dei peccatori, perché per creare qualcosa che sia davvero arte per forza si pecca. A fare ricerche e a esplorare si va sempre oltre, non si può guardare in faccia niente e nessuno. E così si diventa dei peccatori.

 

 

 

 

L'articolo Dark Astro Film: è nata una stella, o forse un pianeta proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/dark-astro-film-e-nata-una-stella-o-forse-un-pianeta/feed/ 0
Gabriele Mainetti e La città proibita: “Avrei voluto essere wagneriano” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/gabriele-mainetti-e-la-citta-proibita-avrei-voluto-essere-wagneriano/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/gabriele-mainetti-e-la-citta-proibita-avrei-voluto-essere-wagneriano/#respond Thu, 13 Mar 2025 12:17:22 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19602 C’era una volta il cinema di genere e niente sarebbe stato più come prima. Arrivarono i poliziotteschi, lo spaghetti western, la commedia erotica e l’horror, tutti a loro modo rivoluzionari. E oggi? L’industria italiana del film è infinitamente cambiata, ma è indubbio che dal 2015, con il suo esordio alla regia con Lo chiamavano Jeeg […]

L'articolo Gabriele Mainetti e La città proibita: “Avrei voluto essere wagneriano” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
C’era una volta il cinema di genere e niente sarebbe stato più come prima. Arrivarono i poliziotteschi, lo spaghetti western, la commedia erotica e l’horror, tutti a loro modo rivoluzionari. E oggi? L’industria italiana del film è infinitamente cambiata, ma è indubbio che dal 2015, con il suo esordio alla regia con Lo chiamavano Jeeg Robot, il regista Gabriele Mainetti stia cercando di riportare in auge una delle epoche più floride del nostro cinema. Partendo dagli stilemi fumettistici d’oltreoceano, al racconto fantasy storico di Freaks Out, anche con grandi richiami sonori all’epopea del west, Mainetti ha costruito negli anni una forte cifra stilistica che non sarebbe potuta esistere senza la grande tradizione dei B-Movies all’italiana. Dissacranti, violenti, fortemente estetici e rappresentativi di un’epoca, sono nuovamente d’attualità proprio grazie al suo cinema, che oggi ritorna con una nuova e ambiziosa prova registica, La città proibita.

Ambientato nella mutietnica Piazza Vittorio, che potrebbe essere allo stesso tempo la Chinatown di San Francisco di Grosso guaio a Chinatown di Carpenter, la narrazione segue il processo di redenzione e vendetta di Mei, arrivata a Roma per ritrovare sua sorella. Nel viaggio dell’eroina, troverà sulla sua strada Marcello, cuoco e figlio del proprietario del Ristorante da Alfredo, caposaldo della romanità contro “l’invasione” orientale del quartiere, mescolando l’ironia pulp con il realismo urbano. Il suo sguardo si sofferma sulle contraddizioni culturali, sui conflitti identitari e sulla trasformazione di Roma, una città che diventa scenario di scontri ma anche di inaspettate alleanze.

Il cinema di Mainetti è coraggioso, dirompente, anche nella sua imperfezione.  Alle volte le sequenze action travalicano la trama, ma la resa è veramente di altissima fattura in una perfetta coreografia che unisce regia, musica e suono. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e discutere con lui di come il genere kung fu si possa congiungere con la commedia all’italiana e del ruolo focale della musica, così come del suono, nel saper costruire tensione e ritmo narrativo.

Da dove nasce l’idea per La città proibita, considerando la varietà di stili presenti che si rifanno al genere principale del kung fu? Penso, ad esempio, a riferimenti che vanno da I tre dell’Operazione Drago fino a Grosso guaio a Chinatown di Carpenter, con il suo tono più comico. Mi interessa anche capire come avete lavorato sul suono e sulla musica, visto che le scene d’azione hanno una forte componente coreografica che non è solo registica, ma anche fortemente sonora.

Quando realizzo un nuovo film parto sempre dall’idea di voler raccontare un genere che non ho ancora affrontato. Il kung fu movie era senz’altro qualcosa di nuovo per me e mi interessava esplorarlo. Come hai detto tu, Bruce Lee docet, e da lì è iniziato tutto. Però, per me, è fondamentale che una storia sia radicata in uno spazio che ci appartiene, altrimenti rischia di rifarsi soltanto ai modelli preesistenti. È proprio in questo incontro-scontro culturale che nascono spunti interessanti. Mi è sembrato naturale far confluire il racconto anche in una storia d’amore, un elemento che avevo in testa sin dall’inizio. Allo stesso modo ho voluto citare lo spaghetti western, in particolare Per un pugno di dollari. Mi divertiva l’idea di un personaggio che, come quello di Clint Eastwood, scombina gli equilibri tra due fazioni contrapposte come quella dei Baxter e i Rojo. Nel nostro caso, da un lato c’è Annibale, nella trattoria del suo miglior amico Alfredo, e dall’altro La Città Proibita, il ristorante di Mr. Wang che nasconde una bisca, prostituzione e traffici poco chiari. Il film nasce proprio da queste tensioni. A quel punto inizi a costruire i personaggi: chi è Annibale? Chi è Marcello? Per dare profondità alla storia, con gli sceneggiatori Stefano Bises e Davide Serino abbiamo fatto ricerca sul campo. Siamo andati nelle zone frequentate dalla comunità cinese e abbiamo parlato con la polizia, cercando di capire quali fossero gli spazi di criminalità e di prostituzione. In realtà ci hanno parlato molto bene della comunità cinese, descrivendola come una realtà riservata, rispettosa e molto attenta all’aspetto sociale. Ma ci hanno anche raccontato altre storie interessanti, come quella di un italiano che subaffittava un appartamento a decine di senegalesi a cifre spropositate. Quando la polizia interveniva, se la prendeva con il proprietario, mentre lui spariva nel nulla. Questo spunto ci è sembrato perfetto per caratterizzare il personaggio di Annibale e da lì il racconto ha preso forma. C’è una ragazza cinese che arriva a Roma alla ricerca della sorella scomparsa. Si trova a muoversi tra due realtà criminali che si detestano. Chi c’è dietro a questi traffici? Chi sono davvero queste persone? Il nostro intento era raccontarle nella loro tridimensionalità, senza giudicarle, ma rendendole comprensibili, empatiche, a volte persino divertenti. Non volevamo personaggi stereotipati o monodimensionali. Così, passo dopo passo, la storia ha trovato la sua strada.

La città proibitaPer quanto riguarda la costruzione musicale e sonora del film, su quali aspetti avete lavorato? Tratti spesso generi molto specifici, ciascuno con un approccio musicale ben definito. Quanto è importante per te che l’aspetto musicale e sonoro rappresenti e valorizzi il genere del film?

Abbiamo lavorato sulla musica seguendo due direzioni principali. Da un lato, c’è il needle dropping (uso di musica preesistente), con brani totalmente diegetici e partecipati. Penso alle canzoni di Mina e Patty Pravo, cantate dai personaggi di Lorena e Marcello, interpretati rispettivamente da Sabrina (Ferilli) ed Enrico (Borello). Dall’altro lato, c’è la musica sinfonica classica, costruita attorno ai temi principali del film. Questa parte ha il compito di sostenere il racconto senza invaderlo, cercando di integrare le tecniche più contemporanee. L’orchestra è stata infatti ibridata con elementi elettronici in modo sobrio, evitando di darle troppo spazio. Abbiamo lavorato con sincopati tipici di un approccio minimalista contemporaneo, cercando però di far dialogare queste sonorità anche con un certo folklore cinese. Questo non solo a livello di strumenti, ma proprio nella struttura armonica e narrativa della musica. Abbiamo trovato soluzioni che suonano più orientali che europee. Mi sarebbe piaciuto adottare un approccio più wagneriano, con quel trionfo tipico del cinema americano, ma in Italia non funziona: ci ho provato, ma suonava quasi comico. Così abbiamo scelto una strada più europea, più asciutta. Per le registrazioni abbiamo lavorato con un’orchestra di Praga, ed essendo anche io un compositore sono stato coinvolto direttamente in questo processo. Per quanto riguarda il suono, è stato un lavoro fondamentale. Il sound designer è Mirko Perri, con cui collaboro da anni e che ha lavorato anche su Freaks Out  e Lo chiamavano Jeeg Robot. Conosce bene quanto per me il suono sia parte integrante del racconto. Trovare l’equilibrio tra musica, suono e narrazione non è stato facile, ma Mirko ha fatto un lavoro straordinario. Quello che ha realizzato in Freaks credo non abbia precedenti nel cinema italiano, almeno a livello di sound design. E lo dico senza prendermi alcun merito: è tutto suo. Mirko lavora anche con registi come Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, ed è incredibile vedere quanto si diverta a sperimentare quando si tratta di azione e di racconti più dinamici, come in questo film. Volevamo che ogni elemento sonoramente scenico fosse realistico, dalle ambientazioni fino al suono dei cazzotti, tanto caro ai film di genere kung fu. Anche se Yaxi (Liu), che interpreta Mei, mi ha rimproverato dicendomi che avremmo dovuto spingere di più (ride) ed io le ho risposto: «Scusami, ma sono europeo».

L'articolo Gabriele Mainetti e La città proibita: “Avrei voluto essere wagneriano” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/gabriele-mainetti-e-la-citta-proibita-avrei-voluto-essere-wagneriano/feed/ 0
Come se non ci fosse un domani: la meglio gioventù di Ultima generazione https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/come-se-non-ci-fosse-un-domani-la-meglio-gioventu-di-ultima-generazione/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/come-se-non-ci-fosse-un-domani-la-meglio-gioventu-di-ultima-generazione/#respond Wed, 12 Mar 2025 09:12:38 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19594 Ricordate i ragazzi di Ultima Generazione, che richiamavano l’attenzione sulla crisi climatica “sporcando” l’acqua della Fontana di Trevi o imbrattandosi di fango davanti al Senato? Come se non ci fosse un domani racconta la loro storia, per non scordarci della loro lotta. Presentato alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale in questi giorni, […]

L'articolo Come se non ci fosse un domani: la meglio gioventù di Ultima generazione proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Ricordate i ragazzi di Ultima Generazione, che richiamavano l’attenzione sulla crisi climatica “sporcando” l’acqua della Fontana di Trevi o imbrattandosi di fango davanti al Senato? Come se non ci fosse un domani racconta la loro storia, per non scordarci della loro lotta. Presentato alla Festa del Cinema di Roma e nelle sale in questi giorni, il documentario è il primo lungometraggio girato dal duo Riccardo Cremona e Matteo Keffer, che da anni lavorano su temi sociali e ambientali. Riccardo Cremona insegue da sempre le storie e posa uno sguardo sensibile e curioso sulle vite che sceglie di raccontare, che sia un uomo alla ricerca di una moglie russa su un sito internet, un prete di campagna pronto ad accogliere chi ne ha bisogno o le partecipanti a un concorso di bellezza per sole ragazze di origine cinese in un casinò di Venezia. È la cura narratologica a fare la differenza tra un buon documentario e una bella idea e in questo Matteo Keffer dà prova del suo talento, affrontando temi come la droga, l’ecosostenibilità, le speculazioni edilizie e gli abusi governativi. Grazie a una lunga esperienza televisiva, Keffer realizza reportage in Italia e all’estero con uno sguardo lucido e un’impareggiabile attitudine alla narrazione d’inchiesta. Nel convergere, le abilità di entrambi trovano spazio e respiro in un lavoro impegnativo, scomodo, che raramente trova finanziamenti e pubblico in Italia.

Quale è stata la genesi di Come se non ci fosse un domani?

Alla fine del 2022 io e Riccardo ci trovavamo a lavorare per un programma televisivo e a me capitò di girare uno dei primi servizi dedicati a Ultima Generazione. Dopo la messa in onda, ne parlammo riconoscendoci entrambi affascinati dal coraggio e dalla determinazione che questo gruppo di ragazzi esprimeva sedendosi per strada. Volevamo saperne di più e incontrammo Michele Giuli, uno dei fondatori di UG. Pochi giorni dopo eravamo in macchina diretti a Courmayeur per documentare il blocco del tunnel del Monte Bianco, convinti che qualsiasi fosse stato l’esito di questa nascente esperienza politica avrebbe meritato il tentativo di un racconto cinematografico. Volevamo esserci.

Matteo, tu fai parte di Extinction Rebellion, è questo che ti ha permesso di entrare in contatto con Ultima generazione?

Per un paio d’anni ho contribuito all’esperienza del gruppo romano di Extinction Rebellion che si creò dopo l’incredibile Rebellion Week del 2018. Fu un momento di grande, storica e felice partecipazione, in cui migliaia di persone per una settimana paralizzarono Londra per chiedere al governo britannico di dire la verità sulla crisi climatica e occuparsene seriamente. La disobbedienza civile non violenta può essere uno strumento efficace per ottenere dalla politica risposte concrete, ma ha bisogno di partecipazione. Basti pensare all’occupazione di Hambach, una foresta millenaria minacciata dall’espansione della più grande miniera di carbone a cielo aperto dell’Europa occidentale. Un piccolo gruppo di persone getta il cuore oltre l’ostacolo, costruisce case sugli alberi dove vivere difendendo la foresta, pronto a sopportare anche il rigido inverno tedesco. Quel gesto di coraggio di pochi attira migliaia di persone che raggiungono Hambach da tutto il paese costringendo il gigante dell’energia RWE a rivedere i suoi piani. La foresta è salva, ma ancor più importante, nei cuori delle persone c’è una scintilla nuova, la consapevolezza che insieme si può ancora fare la differenza.

Quale è stata la parte migliore e quale la più complicata del filmare le azioni e la quotidianità degli attivisti?

Considerato il trattamento che i media tradizionali hanno da subito riservato a UG, anche le nostre macchine da presa all’inizio risultavano scomode e invadenti. Per lunghi mesi è stato difficile guadagnare la loro fiducia, faticavamo a far passare l’idea che poter documentare le difficoltà, le incertezze o gli errori del percorso, per noi era cruciale. Solo l’essere ripetutamente presenti, in orari, luoghi e situazioni complicate ci ha permesso di stabilire nel tempo un rapporto diverso: esclusivo. A un certo punto abbiamo sentito che stavamo diventando i custodi della memoria delle loro vite in un momento molto importante che solo noi potevamo osservare così da vicino. Dopo aver girato per quasi due anni, lo sguardo e la pazienza del montatore Roberto Cruciani hanno contribuito in maniera determinante a orientarci tra le centinaia di ore di materiale e dettare il respiro della storia.

A livello produttivo, quali ostacoli avete incontrato nel finanziamento e nella distribuzione di questo documentario? Come è nata la collaborazione con Motorino Amaranto e quindi con Paolo e Ottavia Virzì e Marco Belardi?

Siamo stati molto fortunati a incontrare Ottavia e Paolo Virzì, la Motorino Amaranto ha manifestato da subito un grande interesse nei confronti di questa storia permettendoci di seguire in giro per l’Italia le vicende dei ragazzi e accogliendo una miriade di imprevisti con grande tolleranza ed elasticità, senza le quali sarebbe stato impossibile raccontare questa vicenda. Inoltre, la collaborazione con lo scrittore Paolo Giordano – che ha partecipato allo sviluppo della narrazione – ha apportato un punto di vista prezioso aiutandoci a definire e aggiornare la nostra postura rispetto al racconto.

Come se non ci fosse un domani racconta le azioni di UG e mostra il dietro le quinte. Ma ci permette di vedere anche qualcos’altro: la difficoltà nel fare comunità, nel farsi ascoltare, nel far capire agli altri l’urgenza di un’azione non-violenta ma d’impatto. Mostra anche molta rabbia, da parte degli attivisti ma anche della folla, del cittadino infastidito. Cosa siete più fieri di aver fatto emergere e cosa avreste voluto portare più alla luce?

All’inizio ci sembrava incredibile che non ci fossero decine di giornalisti e documentaristi a raccontare questa vicenda. Poi abbiamo capito che salvo rare eccezioni i media la stavano trattando come una storia qualsiasi, senza capire il senso di ciò a cui stavano assistendo. Siamo fieri di aver fatto emergere la disconnessione totale dalla realtà che determina le scelte della maggioranza e il cinico opportunismo di chi pur di guadagnarci un po’ di consenso o soldi insiste nel negare l’evidenza. Ma soprattutto questo è il nostro piccolo ma sincero atto di amore non per UG in sé, ma per chi non ha paura di lottare per il bene comune nonostante le conseguenze. Molti elementi non hanno trovato spazio: tante storie personali che ci hanno emozionato, la serietà con cui i ragazzi affrontano i processi decisionali, la difficoltà di creare gruppi locali, il rapporto con le altre realtà in lotta, gli inviati dei talk show infiltrati sotto mentitCome se non ci fosse un domanie spoglie nel gruppo. Ma in un film di 90 minuti devi fare delle scelte e noi siamo contenti dell’equilibrio raggiunto.

Cosa, a vostro parere, può fare l’industria dell’audiovisivo per sostenere la causa e portare l’attenzione sull’emergenza climatica e sulla realizzazione di un cinema sostenibile?

Noi viviamo di narrazioni e la crisi climatica ha un grande problema di narrazione. Negli ultimi anni solo il cinema documentario ha tentato di esplorare quello che sta accadendo veramente e quali saranno le ripercussioni sulle nostre vite se non invertiamo la rotta. Ecco, il cinema ha una grossa responsabilità nel creare e nello stimolare l’immaginazione necessaria per affrontare questo nuovo contesto che riguarda tutti, indistintamente. Sono ancora pochi i titoli importanti in questo senso, a livello internazionale mi viene in mente la serie Extrapolations diretta da Scott Z. Burns che, forte di un cast stellare (Meryl Strep, Sienna Miller, Marion Cotillard, Tobey Maguire, Forest Withaker, Edward Norton), ragiona sulle conseguenze della crisi climatica sviluppando un racconto che inizia nel 2037 e si conclude nel 2070. In Italia, se non mi son perso qualcosa, l’unico regista che ha ambientato un suo film in un futuro prossimo dove la scarsità d’acqua avrà ripercussioni violente sulla società, è proprio il nostro produttore Paolo Virzì con il suo Siccità.

Questo progetto è concluso o avete in mente di tornare a seguirne l’evoluzione? Come credi che sia stato percepito questo lavoro dal pubblico?

All’inizio il nostro primo istinto è stato immaginare un film che seguisse per molti anni le vicende pubbliche e private delle persone di UG e allo stesso tempo gli sviluppi della crisi climatica. Ma nella storia che raccontiamo il fattore tempo è centrale, quindi c’era l’urgenza di fare uscire questo film il prima possibile perché potesse contribuire a suo modo a tenere alto il livello dell’attenzione sia sulla questione generale della crisi climatica che sul tema della repressione del dissenso, messa in atto dal governo anche con leggi ad hoc pensate per colpire UG e movimenti simili. Conserviamo l’idea che questo racconto possa proseguire e non è detto che non succederà. Dalle reazioni che abbiamo registrato in sala e fuori ci sembra che il film stia facendo quello che speravamo: portare chi lo guarda a farsi delle domande sincere.

Il movimento sembra aver cambiato metodo, scegliendo di organizzare più manifestazioni autorizzate e legali, per essere più sostenibile ma anche per potersi espandere attraverso un approccio costruttivo. Cosa è andato storto in una comunicazione tesa a sensibilizzare e che invece sembra aver alienato larga parte dei media e della popolazione?

Quello che è andato storto è che alla maggioranza delle persone non interessa più di tanto della crisi climatica. Abbiamo la segreta speranza che alla fine non andrà poi tanto male oppure siamo vittime della disinformazione ben organizzata e ben pagata dalla ricca industria dei combustibili fossili. I membri di UG non hanno soldi, hanno solo i loro corpi e la lucidità di guardare in faccia una realtà che quasi nessuno vuole accettare per quello che è davvero. Comunicano male? Può essere. Ma credo che praticamente nessuno sia nella posizione di poter giudicare i loro metodi o la loro efficacia. Dovremmo piuttosto giudicare noi stessi e la nostra indifferenza. Non colpevolizzarci, ma essere semplicemente onesti. Poi certo, è difficile organizzare una mobilitazione di massa efficace senza risorse e senza grossi appoggi politici o di opinione. Ma la crisi climatica riguarda ogni singola persona su questo pianeta e le informazioni sulla situazione sono chiare e a disposizione di chiunque. Se non ci sentiamo coinvolti è a causa della nostra disconnessione dalla realtà, non dell’inefficacia di chi grida disperatamente di svegliarci.

Si parla di eco-ansia, l’interesse per il clima si è fatto questione generazionale, un’idea che non a caso incide sulla scelta del nome del movimento UG, confine ultimo di azione – di salvezza. Cosa unisce quindi, questa generazione che teme la fine, che vuole salvare tutti ma viene definita criminale, mentre le istituzioni negano e le aziende fanno greenwashing?

L’ansia è un sistema di allarme che si attiva quando c’è un disequilibrio profondo, una disarmonia fra l’esperienza interiore e la realtà. La cosiddetta eco-ansia è il risultato della constatazione dello squilibrio fra la gravità della situazione e le misure messe in atto per contrastarla. Le persone giovani sono meno propense a farsi abbindolare dalle fandonie, hanno capito benissimo che c’è qualcosa che non va nel sistema e sono incazzate perché toccherà a loro fare i conti con le conseguenze delle scelte fatte finora. Dovremmo essere con loro, ma invece le odiamo perché non sappiamo più come si fa a cambiare, cosa vuol dire ribellarsi. Non contempliamo l’idea di sacrificare nulla, neanche quando ne va della nostra stessa sopravvivenza come specie. Quindi è normale che se ci bloccano nel traffico per venti minuti li prendiamo a calci in faccia. Chissà se un giorno ci perdoneranno.

Perché è così potente la forza della negazione nonostante le prove e le evidenze scientifiche ormai note a tutti? E perché credete che il governo abbia avuto un orientamento così repressivo verso gli attivisti dell’emergenza climatica?

Il mondo gira secondo le regole della competizione e del mercato, dove l’idea è “chi si ferma è perduto”: ma la transizione energetica sarebbe un buon affare per tutti, servirebbe solo il coraggio di affrontare un cambio di paradigma epocale senza aver paura di smontare il mito fondativo del capitalismo, cioè la crescita a tutti i costi. Il negazionismo è la reazione violenta e organizzata di chi non intende smettere di guadagnare miliardi sulla pelle di tutti gli altri, neanche se il prezzo è la distruzione definitiva della vita sulla Terra. Poi si può credere ciò che si vuole e chiamarlo maltempo, sfortuna o crisi climatica, ma la realtà è che gli eventi estremi sono sempre più frequenti e disastrosi, la gente muore, perde le case e il lavoro e i risarcimenti non arrivano. Servirebbero piani urgenti di messa in sicurezza del territorio da attuare immediatamente. Il governo reprime perché non ha risposte e non intende averne. La destra basa la sua esistenza sulla continua fabbricazione di nemici con cui popolare l’immaginario delle persone. Producono un’allucinazione collettiva che si appoggia su istinti molto umani, la paura per la propria sicurezza e la propria libertà. Il paradosso è che la crisi climatica produce effetti ben più spaventosi sulla vita delle persone.

 

L'articolo Come se non ci fosse un domani: la meglio gioventù di Ultima generazione proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/come-se-non-ci-fosse-un-domani-la-meglio-gioventu-di-ultima-generazione/feed/ 0
Alessandra Gonnella e Miss Fallaci: “A 25 anni la mia prima serie” https://www.fabriqueducinema.it/serie/alessandra-gonnella-e-miss-fallaci-a-25-anni-la-mia-prima-serie/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/alessandra-gonnella-e-miss-fallaci-a-25-anni-la-mia-prima-serie/#respond Tue, 25 Feb 2025 16:49:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19583 Regista e sceneggiatrice di base a Londra, Alessandra Gonnella ha iniziato il suo cammino con un cortometraggio ambizioso su Oriana Fallaci, la celebre giornalista italiana che raccontò la seconda metà del novecento intervistando alcune tra le più importanti personalità di cinema e politica internazionale. A Cup Of Coffee With Marilyn, ambientato negli anni ’50, vedeva […]

L'articolo Alessandra Gonnella e Miss Fallaci: “A 25 anni la mia prima serie” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Regista e sceneggiatrice di base a Londra, Alessandra Gonnella ha iniziato il suo cammino con un cortometraggio ambizioso su Oriana Fallaci, la celebre giornalista italiana che raccontò la seconda metà del novecento intervistando alcune tra le più importanti personalità di cinema e politica internazionale. A Cup Of Coffee With Marilyn, ambientato negli anni ’50, vedeva già Miriam Leone nei panni della giornalista fiorentina, che alle prime armi si avventurò in un viaggio americano alla ricerca spasmodica di Marilyn Monroe per intervistarla. Il corto del 2019 si è aggiudicato il Nastro d’Argento, e successivamente è evoluto in un progetto per una serie tv presentato alla Festa del Cinema di Roma, più precisamente al MIA Market, e premiato come Miglior pitch seriale. Anche Alessandra ha iniziato a rincorrere i suoi sogni fuori dall’Italia. «Mi sono innamorata di Londra a 11 anni, al mio primo viaggio studio, e da lì è stato un unire i puntini su quella che ho sempre percepito come casa mia». Gli studi di cinema alla MetFilm School e la National Film and Television School, equivalente al nostro Centro Sperimentale, sono alla base della sua formazione, ma su questa ragazza e la sua idea Paramount ha scommesso, insieme a RedString e Minerva Pictures, sulla produzione di una serie in onda su RaiUno, e già passata nelle tivù di Spagna, Israele, Sudafrica, Grecia, Islanda e Australia. «Spero esca presto anche in Gran Bretagna, così la vedranno tante persone che conosco lì e mi chiedono sempre». Miss Fallaci è una serie in 8 episodi, diretti da Luca Ribuoli, Giacomo Martelli, e appunto da Alessandra Gonnella, che ha firmato la sceneggiatura insieme a un nutrito gruppo di autori, tra i quali la stessa Leone e la head writer Viola Rispoli.

Nasci come regista e sceneggiatrice, poi l’ideazione di Miss Fallaci. Quasi una showrunner.

Io ho ideato tutta la serie, che poi deriva dal mio corto e ho sceneggiato e diretto una puntata. Diciamo che ho un ruolo fondamentale fin dalla genesi del progetto, ma non sono showrunner. C’erano un advisor e un head director, ma non ero il capo di questi due dipartimenti. All’epoca avevo solo 25 anni e il network ha affidato quel ruolo, giustamente, a persone più senior di me. Quindi figuro come ideatrice di Miss Fallaci, ma non showrunner.

Cosa ti ha colpita di più su Oriana Fallaci per portarti a farne un corto prima e una serie poi?

Ho iniziato a leggerla al liceo, con Il sesso inutile, sul reportage che aveva fatto negli anni ’60 intorno alla condizione femminile. Ero rimasta folgorata dalla storia e dalla sua scrittura. Più approfondivo con altri libri, articoli e note biografiche, più mi rendevo conto che la sua vita era come un film. Il suo racconto era proprio cinematic, molto visivo. Così già da quei tempi avrei voluto raccontare sullo schermo una delle sue storie. E iniziai alla scuola di cinema di Londra, con un primo compito su Oriana e Il sesso inutile. Così poi sono arrivati il cortometraggio, e adesso la serie.

Riguardo alle ambientazioni sei molto vicina alla visione felliniana del ricostruire ogni luogo e realtà semplicemente sul set. Com’è andata con una creatura molto più grande e complessa del corto iniziale? 

Ho trovato in realtà molti parallelismi.  Anche nel 2019, per il corto, giravamo a Londra e con pochi mezzi fingendo che fosse la New York degli anni ’50. Le stesse sfide le abbiamo vissute sulla serie quando abbiamo capito che dovevamo girare tutto in Italia, anche le scene americane. Così abbiamo ricreato quell’epoca a Roma e dintorni. Però alcune scene londinesi esterne le abbiamo girate negli studi cinematografici di Sofia, in Bulgaria. Per fortuna! Perché fingere di stare a Londra da Roma era impossibile. Molto difficile ma anche molto divertente è stato coordinare organicamente i reparti di regia, fotografia con Ivan Casalgrandi, i costumi con Eva Coen, e scenografia con Paolo Bonfini. Con tutti loro abbiam fatto del nostro meglio per dare questo vibe un po’ anglosassone anni ’50, un po’ alla Mrs. Maisel.

E sul lavoro con il cast, in primis con Miriam Leone, rispetto a personaggi realmente esistiti che tipo di approccio documentale e interpretativo avete utilizzato?

È stato un grande lavoro di ricerca e scoperta, e la cosa bella è stata l’identificazione di molti nella sua versione giovanile.  Ognuno ha una propria visione emotiva di Oriana, ma a livello universale raccontiamo una ragazza che deve lottare, fastidiosa come una zanzara, per arrivare ai suoi obiettivi. In questi giorni pensavo al fatto che sua madre la spronava a studiare ed emanciparsi, viaggiare, lavorare e mantenersi da sola. Miriam ha apportato una disponibilità e un’immersione totali. È stata con noi sul set per 12 ore al giorno, tutti i giorni, per sei mesi.

Alessandra Gonnella e Miriam Leone
Alessandra Gonnella e Miriam Leone.

In quegli anni ancora non si parlava di femminismo, ma Oriana Fallaci lo praticava. E oggi forse inizia ad essere messo in pratica. Pensi si possa dire?

Si, anche se sembra scontato oggi per molte di noi. Ci sono ancora molte altre che non riconoscono ancora il valore assoluto dell’indipendenza economica e intellettuale.  O a volte capita di nascondersi in una comfort zone fatta di vita relazionale soccombendo a situazioni spiacevoli proprio perché non indipendenti economicamente. Il concetto di viaggiare e lavorare non ha mai lasciato Oriana, ed è uno dei cardini della nostra storia.

Fallaci era una giovanissima giornalista promettente che ha dovuto lottare per avere la sua chance. Tu adesso hai trent’anni, quanto hai dovuto lottare per conquistarti la produzione di questa serie?

Abbastanza. Anche se col corto è come se fossi arrivata un po’ di traverso. Mi pare che il commediografo americano Tyler Perry descrivesse la film industry come un negozio chiuso dove non puoi entrare da una porta perché è chiusa o non c’è, quindi devi irrompere in questo negozio. Io l’ho fatto con il corto, ma non sapevo che avrebbe sortito questo effetto, intendo lo sviluppo che è seguito. Grazie anche a Miriam e al nome della Fallaci  si è iniziato a parlare molto del corto. Così dopo le prime curiosità su questa venticinquenne italiana che viveva a Londra, ho iniziato a sedermi ai tavoli, hanno iniziato a cercarmi gli agenti, e si è smosso un po’ tutto. Avevo convinto Miriam, vinto un Nastro e il MIA, ma non potevo comunque reggere tutto il progetto da sola, cosa mai successa in precedenza a un professionista così giovane. Però c’è stata la volontà di farmi crescere all’interno del progetto ritagliandomi il mio ruolo di sceneggiatrice e regista. E poi se ci dovesse esserci un’altra stagione, magari evolverà anche il mio ruolo.

Siete tre registi a dirigere gli 8 episodi. E tu ne hai uno.

Sì, il mio è il sesto e va in onda il 4 marzo. Sarà uno spartiacque, il più intimo sulla vita personale di Oriana e ruoterà su cose mai mostrate di lei.

Nel senso che non sono mai state messe in scena né documentate, o sono già note in qualche modo? 

Messe in scena sicuramente no, ma molta della nostra documentazione si rifà alla biografia Una donna, di Cristina De Stefano, che aveva fatto ricerca parlando anche con un nipote di Oriana Fallaci. Oltre al pubblico generalista, che non può sapere le cose che stiamo mettendo in scena, ci sono gli esperti lettori molto attaccati alla biografia, che ho scoperto dai social. Loro parlano di Oriana come se l’avessero conosciuta, e m’interessano molto anche i loro pareri puntigliosi. Nelle prossime puntate credo daremo delle sorprese sulla sua vita, ma abbiamo preso tutto da una corposa documentazione. Spero che le persone si lascino trasportare e stupire dal racconto, perché abbiamo cercato di indagare la persona oltre al personaggio.

Come sono state assegnate le regie degli episodi tra voi tre?

Luca è entrato subito nel progetto impostando la serie con la direzione dei primi quattro episodi, Giacomo ha preso la seconda metà lasciando a me il sesto, dove ci sono molti twist emotivi importanti, come dicevamo. Su una serie è necessario mantenere sempre una certa visione d’insieme perché si tratta di un progetto lungo, complesso e snodato nel tempo. Molti cambi di cast, sceneggiatura, di location, dove si parlava sia in inglese che in italiano. Non basta la visione artistica, devi essere una persona di polso, che sa prevedere certe cose, veloce nel fare scelte giuste sul tempo e su cosa tagliare. Quindi bisogna avere una visione d’insieme molto articolata.

Oriana era ossessionata dall’intervista che doveva fare a Marilyn. Cosa ossessiona Alessandra Gonnella?

Tante cose! Perché sono un po’ come Oriana, una persona molto ossessiva! Una persona che mette passione in quello che fa, ne conosco tante persone così, e trovo questo aspetto affascinante quando lo trovo negli altri. Adesso la mia ossessione è fare il primo film. Per ora non riesco a vedere oltre la mia opera prima cinematografica.

Infatti ora quali saranno i tuoi programmi tra scrittura e set?

Ho tanti progetti nel paniere, effettivamente. Ad esempio mi sto dilettando con la scrittura di stand-up comedy, ho iniziato a esibirmi a Londra, e un giorno chissà se potrò diventare anche una stand-up comedian. Forse l’universo mi guiderà, ma intanto cerco di mantenermi determinata su questa romantic comedy tra Londra e l’Italia, vorrei diventasse la mia opera prima. Mi piace l’idea di coniugare due mondi, due sistemi diversi, anche produttivi, che conosco, ho vissuto e sto vivendo. Ma per ora non posso dirne di più.

 

L'articolo Alessandra Gonnella e Miss Fallaci: “A 25 anni la mia prima serie” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/serie/alessandra-gonnella-e-miss-fallaci-a-25-anni-la-mia-prima-serie/feed/ 0
Margherita Giusti: quando l’animazione è fatta di carne e sangue https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/margherita-giusti-quando-lanimazione-e-fatta-di-carne-e-sangue/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/margherita-giusti-quando-lanimazione-e-fatta-di-carne-e-sangue/#respond Thu, 13 Feb 2025 13:35:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19573 Il cinema di Margherita Giusti, animatrice e regista nata a Roma nel 1991, è sensoriale e porta lo spettatore dentro le storie di chi resta ai margini della narrazione collettiva. Tra realismo e surrealismo magico, Giusti ricrea un mondo in cui si muovono personaggi dalle motivazioni complesse, un luogo in cui è possibile essere sia […]

L'articolo Margherita Giusti: quando l’animazione è fatta di carne e sangue proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Il cinema di Margherita Giusti, animatrice e regista nata a Roma nel 1991, è sensoriale e porta lo spettatore dentro le storie di chi resta ai margini della narrazione collettiva. Tra realismo e surrealismo magico, Giusti ricrea un mondo in cui si muovono personaggi dalle motivazioni complesse, un luogo in cui è possibile essere sia persone che belve, tagliare e farsi tagliare. Ma la cosa più affilata resta la precisione autoriale con la quale Giusti scava nelle storie e ne espone la materia pulsante con una grazia crudele che ammalia e rende impossibile distogliere lo sguardo.

Hai scelto la forma del documentario animato sia per il tuo esordio En Rang Par Deux (2020) che per il tuo lavoro successivo, The Meatseller, prodotto da Luca Guadagnino e vincitore di un premio al festival di Annecy. È la storia vera di Selinna Ajamikoko, una ragazza nigeriana che sogna di diventare una macellaia come sua madre e per questo si imbarca in un lungo viaggio verso l’Italia. Come hai conosciuto Selinna?

Grazie a Margherita D’Andrea, una cara amica che al tempo lavorava in una casa di accoglienza per donne e bambini a Roma. Io volevo raccontare storie di donne che si emancipano tramite il lavoro e la vicenda di Selinna, che faceva la macellaia, era perfetta. Quando l’ho conosciuta però ho capito che c’era di più. A fine intervista, Margherita le ha chiesto «che animale vorresti essere» e lei ha riposto «una mucca, perché è la mia esperienza nella vita». Da quella frase ho deciso di concentrare le forze solo sulla sua storia e per un anno io e Margherita siamo andate a trovarla a borgata Finocchio, dove Selinna, incinta, raccontava seduta sul suo divano. Alla fine avevamo ore e ore di interviste che pian piano abbiamo sbobinato fino a creare un soggetto che ci convincesse, da lì ho scritto la sceneggiatura e iniziato a lavorare agli storyboard, insieme a Emanuele Bonomi che mi aiutava a montarli.

Margherita Giusti
The Meatseller, bozze.

Kant diceva che nelle giurie inglesi non erano ammessi né macellai, né chirurghi, né medici per la loro insensibilità verso la morte. Ma nel tuo film ribalti questo immaginario: The Meatseller è una storia di emancipazione ma è anche la storia della carne, del corpo. Non c’è insensibilità, anzi, c’è quasi un’identificazione.

Già dalla prima intervista Selinna mostrava una specie di morbosità quando parlava della carne, era chiarissimo che per lei tagliare la carne era come una catarsi. Ma, pur venendo da una vita privilegiata rispetto alla sua, capivo bene quell’idea di fare male al corpo nostro o di altri, come donna, perché il corpo delle donne è stato sempre abusato direttamente o indirettamente, è una consapevolezza che ci portiamo fin dall’adolescenza. Non è un caso che i film splatter abbiano un pubblico maggiormente femminile. Ciò che mi interessava di più era proprio rappresentare la connessione tra chi macella e chi viene macellato.

Quella che mostri è la bestialità cannibale dell’umanità che tratta i corpi degli altri, delle donne, come pezzi di carne, oggetti di consumo, di tratta e di vendita, di sfruttamento e abuso. Cosa porti con te della storia di Selinna e cosa speri che resti agli spettatori?

Porto con me la volontà umana e femminile di essere indipendente. Selinna ha una forza interiore che possiamo comprendere solo in piccola parte. Ma era una bambina quando è partita e mi ha colpito quando ci ha raccontato che aveva detto alla madre che sarebbe andata a dormire da una sua amica. Mi ha colpito perché è la stessa bugia che avrei potuto dire io a mia madre da adolescente, se volevo andare a fare serata. So che sembra scontato, ma l’unica cosa che veramente ci differenzia è il posto dove nasciamo, nient’altro, ed è assurdo pensare che esistano Paesi dove avere dei diritti è un privilegio. Mi hanno criticato dicendo «dovresti parlare di una storia che ti appartiene»: ma questa storia mi appartiene come appartiene a tutti quelli che che la vedono. Spero che questo resti agli spettatori e alle spettatrici, l’idea di stare assistendo alla storia di una ragazzina che viene trattata come carne da macello, ma soprattutto che quella ragazzina potevamo essere noi.

Come è iniziata la tua collaborazione con Luca Guadagnino e Frenesy Film?

Conosco Luca da anni, ho lavorato con lui facendo alcuni storyboard per una pubblicità e gli avevo mandato il mio corto di diploma. Quando cercavo una produzione per The Meatseller gli mandai la sceneggiatura e mi chiamò subito chiedendomi di raccontargli il film a voce. Mi ha sempre lasciato molto libera, soprattutto dal punto di vista stilistico. È una persona estremamente intelligente, oltre a essere un grande autore: quando gli ho fatto vedere il primo animatic, con immagini molto schizzate e ferme, lui ha guardato tutto in silenzio e alla fine ha detto solo «sento che mancano sei minuti». Ho aggiunto il finale, perché ero d’accordo con lui, senza pensare al minutaggio, e alla fine erano veramente sei minuti.

Margherita Giusti
Margherita Giusti.

Quali tecniche digitali e tradizionali preferisci impiegare in questo momento o vorresti provare in futuro?

Per animare solitamente io uso Tvpaint, altre animatrici nel corto hanno usato Harmony e per colorare abbiamo impiegato Photoshop. Essendo il corto un ibrido tra carta e digitale molte cose le abbiamo realizzate su carta, come le trasformazioni e ciò che è più materico, la carne e gli sfondi. Tutto è studiato, in animazione non puoi fare nulla di improvvisato. Le trasformazioni più astratte le ho pensate e scritte in sceneggiatura e poi disegnate negli storyboard; con Elisabetta Bosco ci abbiamo lavorato ancora e le abbiamo ripassate in fase di layout, per definire meglio i punti chiave e passarle poi all’animazione: quindi sono state animate, stampate e ricolorate su carta. La scena della violenza, per esempio, l’ho eseguita da sola animando in digitale e ripassando poi tutto su carta. Volevo che rendesse la visione dell’incubo, con un’animazione molto sporca e imprecisa. Dopo il corto mi è rimasta la voglia di tornare a esplorare l’animazione tradizionale su carta, con i pastelli, le gouaches e la matita, ma allo stesso tempo mi piacerebbe imparare nuove tecniche digitali e soprattutto nuovi software: vedo dei film bellissimi e mi viene la voglia di sperimentare con tutto.

Sei stata assistente regista e storyboard artist per alcuni anni, cosa ti è piaciuto di questa esperienza e quali sono le criticità che hai affrontato?

Il set mi ha insegnato tantissimo: a lavorare in squadra, a capire le altre persone, a non prendere le cose sul personale, a essere diplomatica. Ma, soprattutto, se stai sul set impari che tutto si può fare, mai dire “no” senza averci provato prima. Ho lavorato sui set dai venti ai venticinque anni, li amavo odiavo allo stesso tempo. Era un ambiente brutale, tossico e sessista, faticavo quasi sedici ore al giorno e non vedevo più i miei amici, ma allo stesso tempo lì ho conosciuto persone meravigliose, avevo il cuore pieno e mi sentivo in famiglia.

Nel 2020 hai fondato il collettivo Muta animation con Elisabetta Bosco, Elisa Bonandin e Viola Mancini.

Abbiamo fondato Muta dopo il diploma al CSC: eravamo molto unite con Elisabetta e Viola perché avevamo appena finito En Rang Par Deux e con Elisa perché lavoravamo tutte nella stessa aula. Ci ha unito la voglia di fare un’animazione libera, di trovare uno spazio sicuro dove sperimentare. La chiave del nostro legame è che ognuna fa quello che vuole, ognuna ha qualcosa che sa fare meglio e nei vari lavori gestiamo la parte creativa con massima libertà e allo stesso tempo ci consigliamo e correggiamo a vicenda. Ci piacerebbe in futuro essere più strutturate, per ora siamo sparse in giro per l’Italia per cui stiamo aspettando di capire, non abbiamo fretta.

Selinna
Selinna

Cosa pensi dello stato di salute dell’animazione in Italia? Credi che sia un settore più collaborativo o più competitivo?

Quando sono andata a Torino a fare animazione mi sono ritrovata immersa in un ambiente completamente diverso da quello a cui ero abituata. Un ambiente molto femminile, dove la competizione era sana e basata principalmente sulla tecnica. Ho scelto l’animazione perché è molto meritocratica e soprattutto è un processo talmente difficile e lungo che raramente chi non ha la passione continua. In più, è un mondo così vasto che tra colleghi registi c’è una tale differenza di stile che è impossibile non provare curiosità e stima per i reciproci lavori. Purtroppo in Italia siamo ancora indietro, molta gente non è abituata ai film animati, pensa che siano solo per i più giovani o che “fa tutto il computer”; c’è anche un problema produttivo, non c’è mercato in Italia per i film animati e non c’è distribuzione, ma mi sembra che le cose stiano cambiando, almeno dalla parte del pubblico. Basti pensare agli incassi de Il ragazzo e l’airone.

C’è qualche artista o studio con il quale speri di lavorare in futuro?

Negli anni ho cominciato a seguire il lavoro di illustratori come Brecht Evens, Taiyo Matsumoto, Nicolas Nemiri e mi sono innamorata della poetica di registe come Anca Damian e Regina Pessoa; poi ci sono studi meravigliosi come SacreBleu e Miyu in Francia, BAP in Portogallo. Ma c’è una cosa che mi piacerebbe fare in futuro: la pubblicità. Soprattutto moda, dove vedo pubblicità bellissime e molto sperimentali.

Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto da quando lavori in questo settore?

Uno dei migliori consigli che mi porto dietro dai tempi di En Rang Par Deux e che darei ad artisti alle prime armi è quello che ci ha dato la nostra tutor Eva Zurbriggen: «fidatevi sempre delle vostre intuizioni».

 

L'articolo Margherita Giusti: quando l’animazione è fatta di carne e sangue proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/margherita-giusti-quando-lanimazione-e-fatta-di-carne-e-sangue/feed/ 0
Ciao bambino, Napoli e l’amore a vent’anni in bianco e nero https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/ciao-bambino-napoli-e-lamore-a-ventanni-in-bianco-e-nero/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/ciao-bambino-napoli-e-lamore-a-ventanni-in-bianco-e-nero/#respond Mon, 27 Jan 2025 16:16:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19546 Attilio non è più un bambino, non ha neanche vent’anni e nella testa una serie di sogni disordinati e inespressi. Le sue giornate estive a ciondolare nei bar con gli amici o a tuffarsi nel mare cristallino di Napoli scorrono tra riflessive ipotesi di futuro e risate intorno a sfide a carte. Fino a quando […]

L'articolo Ciao bambino, Napoli e l’amore a vent’anni in bianco e nero proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Attilio non è più un bambino, non ha neanche vent’anni e nella testa una serie di sogni disordinati e inespressi. Le sue giornate estive a ciondolare nei bar con gli amici o a tuffarsi nel mare cristallino di Napoli scorrono tra riflessive ipotesi di futuro e risate intorno a sfide a carte. Fino a quando non viene folgorato da una ragazza, bella quanto intoccabile. Il problema è il lavoro di lei. Perché vive prostituendosi sfruttata da un sistema illegale di cui Attilio stesso fa inevitabilmente parte, quanto suo padre appena uscito di galera, e quanto le immani difficoltà del tirare a campare in questo micro universo urbano raccontato dalla sceneggiatura di Ivan Ferone e Edgardo Pistone. Ciao bambino, opera prima di Pistone, prende dal suo ultimo cortometraggio, Le mosche, ampliandone trama, tiro e cast. Proprio lo street casting basato su dialetto partenopeo, espressività e vitalità effettuato per il suo lungometraggio mostra una collana d’interpreti preziosi quanto sconosciuti. Anastasia è una ventenne disincantata che si destreggia in un oblio forzato, ma proprio l’incontro e l’innamoramento saranno la miccia di un coming of age che si serve di una storia dura raccontata con sobria levità, e soprattutto una confezione registica esteticamente quasi ipnotica. I movimenti eleganti di questo bianco e nero senza tempo di Pistone nobilitano la periferia, in questo caso il rione Traiano di Napoli, lo stesso dove il regista è cresciuto.

Da qui Pistone gira equilibrandosi tra naturale gusto per l’immagine e un’efficacia narrativa che fanno ricordare mani felici come quelle di Emma Dante. Nel realismo morbido di questo autore si nota molto il contrasto tra forma e sostanza. Contrasto che magicamente non crea distanza tra gli elementi, ma li fa danzare insieme, tra le esistenze strizzate ma gaudenti di questi poveri ma belli. Il lirismo visivo a volte si porta ai limiti dello spot da Film Commission, quasi da sguardi sorrentiniani, ma pure queste piacevoli vertigini ne fanno l’ottimo lavoro che è per qualità esecutiva e magniloquenza di certe immagini.

Meritano positiva menzione i protagonisti Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk, entrambi forti delle loro veracità, lui campano, lei ucraina, ma soprattutto della loro età a cavallo tra scoperta e distruzione, coraggio e passione, tragedia e sentimento. Tutto funziona tra loro e intorno a loro, nei tempi e nelle intensità di un humus di umanità dai tanti colori, seppure solo di due sul grande schermo.

Il corto originario, Le mosche, era stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia nel 2020, vincendo peraltro il Premio per la Miglior Regia; mentre Ciao bambino si è aggiudicato il Premio Miglior Opera Prima alla Festa del Cinema di Roma nel 2024 e il Premio Speciale della Giuria al Tallinn Black Nights Film Festival, in Estonia. Certi film sono come quelle piante che hanno bisogno di spazi ampi per crescere. Questo è ora in sala, ed è proprio uno di quei film che andrebbero goduti sull’ampiezza del grande schermo.

L'articolo Ciao bambino, Napoli e l’amore a vent’anni in bianco e nero proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/ciao-bambino-napoli-e-lamore-a-ventanni-in-bianco-e-nero/feed/ 0
Momo Assad: Roma è la mia casa, ma ora voglio il mondo https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/momo-assad-roma-e-la-mia-casa-ma-ora-voglio-il-mondo/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/momo-assad-roma-e-la-mia-casa-ma-ora-voglio-il-mondo/#respond Mon, 20 Jan 2025 13:16:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19531 Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per […]

L'articolo Momo Assad: Roma è la mia casa, ma ora voglio il mondo proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per necessità.

Momo è giovane di quella gioventù profonda, forse un po’ tragica, di chi ha già sfogliato parecchie versioni di sé. Le sue cominciano alle radici: genitori siriano-libanesi, nascita nella Capitale, famiglia di ristoratori (loro è l’Osteria del Tempo Perso). «Facciamo cucina romana, i miei cucinano mediorientale quando siamo da noi. Non mi dispiace stare ancora un po’ con loro, alla fine Roma sento di non averla vissuta del tutto, sono stato in giro. Ci credi che non sono mai entrato nel Colosseo?».

Ci credo, visto che Momo pare uno di quei giovani indirizzati, o comunque quadrati, che si instradano da soli. Ed è sempre un po’ più difficile, quando non si intraprende la via della ribellione, svincolarsi dagli “affari di famiglia”. «Mio padre ha sempre detto a me e mio fratello che tutto quello che faceva con il lavoro era per noi. Che un giorno sarebbe stato il nostro turno. In realtà siamo sempre stati liberi di fare le nostre scelte». Per Momo, tutto è cambiato quando ha preso la scelta in cui proprio i suoi genitori avrebbero potuto credere di meno: decidere, senza esperienza pregressa e già dopo aver superato gli anni universitari, di diventare un attore.

La tua storia ha diversi capitoli. Com’è andata?

Sono cresciuto in una famiglia in cui si parlava arabo, abitavo a Roma, andavo alla scuola internazionale dove si studiava in inglese. Non pensavo minimamente a fare l’attore, speravo che un giorno avrei giocato a calcio nella nazionale italiana e che avrei vinto i Mondiali. Invece già qui, primo colpo di scena: sono finito a studiare con il cursus honorum all’americana, ho partecipato al Model European Parliament (iniziativa che permette ai giovanissimi di confrontarsi con il funzionamento delle istituzioni politiche europee, nda), ho fatto l’università negli Stati Uniti studiando marketing. A quel punto sapevo parlare fluentemente quattro lingue, un bel vantaggio. Solo che, durante il Covid-19, la mia vita è cambiata, e non me lo aspettavo: non potevo rientrare dalla mia famiglia in Italia, ero sulla costa Est degli States, mi sono concentrato su quello che avevo intorno. Uno dei miei amici frequentava la scuola di recitazione di Stella Adler (lo Stella Adler Studio of Acting, tra i suoi alumni vanta nomi come Robert De Niro, Christoph Waltz, Rachel Sennott e Benicio Del Toro, nda), mi sono incuriosito e gli ho chiesto come avrei potuto fare per iniziare a recitare senza avere alcun tipo di esperienza pregressa. Così ho provato le ammissioni al loro corso di formazione di tre anni, che chiamano Conservatory.

Non la cosa più facile.

Ho iniziato a studiare monologhi shakespeariani su internet, ho guardato dei video, è così che mi sono preparato per l’audizione. È andata bene, però, visto che non avevo curriculum, mi dissero che non avrebbero potuto prendermi, perché il programma è solo per 24 studenti, sarebbe stato troppo rischioso per loro. Mi proposero di frequentare uno dei loro Summer Program. Perfetto, andata. Dopo solo un mese mi dissero che c’era un posto per me nel Conservatory. È stato fantastico, ma anche ora che ho finito mi sento comunque uno studente. Vivo a Los Angeles da tre anni, ho un agente, un manager, ho firmato il primo NDA e guadagnato le prime cosette. E poi la scuola mi ha fatto entrare in un bellissimo cerchio di persone, ne sono molto grato. Alla fine quello che cerco di fare è ricreare vita di Roma negli States, con qualche piccola differenza. Non è mai facile. Prendi il cibo, per esempio: no way.

Il percorso ti ha cambiato?

Sì, mi sento benissimo. Per la prima volta capisco davvero che sto facendo quello che voglio fare. Ero così nervoso all’inizio di tutto, pensa che ho detto ai miei genitori dell’accademia solo una volta che ero stato preso. È stato un salto importante, ma non ho guardato indietro. Intraprendere questo viaggio mi ha insegnato molto su me stesso, e sono stato davvero fortunato a farlo alla scuola di Stella Adler. Ti dà qualcosa di più. Uno dei principi su cui il suo metodo si fonda è che crescere come attore significa crescere come persona. Tutti quei discorsi su Apollo e Dioniso e la loro compresenza dentro ognuno di noi… uno non ci crede, ma arrivi proprio a sentirlo.

E adesso?

Ora che ho cominciato a lavorare e a fare anche festival e produzioni internazionali, voglio solo continuare così, diventare sempre più radicato nel mondo. So le lingue, ho viaggiato, posso farlo.

C’è un posto che chiami “casa”, ora?

Casa per me è la mia famiglia, poi se devo scegliere una città, allora è Roma. Ma sempre di più lo diventano anche le persone che mi stanno attorno. Cerco di ricreare i miei cerchi di amicizie ovunque sia. In Italia sono stato fortunato, ho incontrato tante persone belle che mi porto dietro da anni.

Devi scegliere su che medium recitare: dici cinema o teatro?

Da quando ho un agente mi hanno piazzato soprattutto nel cinema. Poi ho fatto una parte in un episodio della HBO, anche qualche corto. Però allo stesso tempo ho fatto quattro mesi in uno Shakespeare Festival a teatro, dove ho lavorato su La dodicesima notte e Misura per misura. Per l’ultima ero il sostituito di uno degli attori, è stata una sfida, dovevo replicare quello che faceva lui in tutto e per tutto. Davvero formativo. Il cinema e la televisione mi piacciono, ma il teatro è un’altra cosa. Una volta che dici la prima frase, non puoi fermarti. Ogni sera è lo stesso ed è diverso.

Momo AssadHai già lavorato in Italia?

No, ancora no. Però mi piacerebbe, intanto che aspetto di tornare in America cerco di recuperare informazioni e capire come funziona l’ambiente qui. Essere figlio di ristoratori torna utile in questi casi, a mangiare ci vanno tutti. E tutti sono più contenti di parlare di cose serie quando sono rilassati e stanno bene.

Chi sono i tuoi modelli attoriali? Ne hai?

Se devo scegliere tre persone che non riuscirei a trattare da colleghi, ti dico: Rowan Atkinson, un genio della commedia; Daniel Radcliffe, che quando faceva Harry Potter vivevo come il mio migliore amico, poi è passato al teatro ed è bravissimo, sono molto contento che abbia vinto il Tony; e Johnny Depp. Adoro la progressione della sua carriera, i personaggi che interpreta e come li sa portare in vita.

Ma vorresti fare della commedia, quindi?

Per ora mi hanno sempre scritturato per romance e drama, ma se posso indicare la mia scelta, dico sempre commedia. A teatro vorrei fare tutti i fool di Shakespeare. In Italia c’è la commedia dell’arte, anche Mr. Bean è un personaggio universale, come Arlecchino. Non aprono bocca e tutti capiscono. Magnifico.

Che poi, venendo da Roma, non potrebbe essere altrimenti. Senti, ma un sogno ce l’hai?

Non me l’hanno mai chiesto. È una domanda importante. Per ora penso di voler continuare a fare questa cosa, e diventare un attore sempre migliore. Voglio lavorare con belle persone, e raccontare storie positive. Dare il 100% di me stesso. Questa sarebbe già la felicità.

L'articolo Momo Assad: Roma è la mia casa, ma ora voglio il mondo proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/momo-assad-roma-e-la-mia-casa-ma-ora-voglio-il-mondo/feed/ 0