Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 13 Feb 2025 13:37:30 +0000 it-IT hourly 1 Margherita Giusti: quando l’animazione è fatta di carne e sangue https://www.fabriqueducinema.it/focus/margherita-giusti-quando-lanimazione-e-fatta-di-carne-e-sangue/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/margherita-giusti-quando-lanimazione-e-fatta-di-carne-e-sangue/#respond Thu, 13 Feb 2025 13:35:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19573 Il cinema di Margherita Giusti, animatrice e regista nata a Roma nel 1991, è sensoriale e porta lo spettatore dentro le storie di chi resta ai margini della narrazione collettiva. Tra realismo e surrealismo magico, Giusti ricrea un mondo in cui si muovono personaggi dalle motivazioni complesse, un luogo in cui è possibile essere sia […]

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Il cinema di Margherita Giusti, animatrice e regista nata a Roma nel 1991, è sensoriale e porta lo spettatore dentro le storie di chi resta ai margini della narrazione collettiva. Tra realismo e surrealismo magico, Giusti ricrea un mondo in cui si muovono personaggi dalle motivazioni complesse, un luogo in cui è possibile essere sia persone che belve, tagliare e farsi tagliare. Ma la cosa più affilata resta la precisione autoriale con la quale Giusti scava nelle storie e ne espone la materia pulsante con una grazia crudele che ammalia e rende impossibile distogliere lo sguardo.

Hai scelto la forma del documentario animato sia per il tuo esordio En Rang Par Deux (2020) che per il tuo lavoro successivo, The Meatseller, prodotto da Luca Guadagnino e vincitore di un premio al festival di Annecy. È la storia vera di Selinna Ajamikoko, una ragazza nigeriana che sogna di diventare una macellaia come sua madre e per questo si imbarca in un lungo viaggio verso l’Italia. Come hai conosciuto Selinna?

Grazie a Margherita D’Andrea, una cara amica che al tempo lavorava in una casa di accoglienza per donne e bambini a Roma. Io volevo raccontare storie di donne che si emancipano tramite il lavoro e la vicenda di Selinna, che faceva la macellaia, era perfetta. Quando l’ho conosciuta però ho capito che c’era di più. A fine intervista, Margherita le ha chiesto «che animale vorresti essere» e lei ha riposto «una mucca, perché è la mia esperienza nella vita». Da quella frase ho deciso di concentrare le forze solo sulla sua storia e per un anno io e Margherita siamo andate a trovarla a borgata Finocchio, dove Selinna, incinta, raccontava seduta sul suo divano. Alla fine avevamo ore e ore di interviste che pian piano abbiamo sbobinato fino a creare un soggetto che ci convincesse, da lì ho scritto la sceneggiatura e iniziato a lavorare agli storyboard, insieme a Emanuele Bonomi che mi aiutava a montarli.

Margherita Giusti
The Meatseller, bozze.

Kant diceva che nelle giurie inglesi non erano ammessi né macellai, né chirurghi, né medici per la loro insensibilità verso la morte. Ma nel tuo film ribalti questo immaginario: The Meatseller è una storia di emancipazione ma è anche la storia della carne, del corpo. Non c’è insensibilità, anzi, c’è quasi un’identificazione.

Già dalla prima intervista Selinna mostrava una specie di morbosità quando parlava della carne, era chiarissimo che per lei tagliare la carne era come una catarsi. Ma, pur venendo da una vita privilegiata rispetto alla sua, capivo bene quell’idea di fare male al corpo nostro o di altri, come donna, perché il corpo delle donne è stato sempre abusato direttamente o indirettamente, è una consapevolezza che ci portiamo fin dall’adolescenza. Non è un caso che i film splatter abbiano un pubblico maggiormente femminile. Ciò che mi interessava di più era proprio rappresentare la connessione tra chi macella e chi viene macellato.

Quella che mostri è la bestialità cannibale dell’umanità che tratta i corpi degli altri, delle donne, come pezzi di carne, oggetti di consumo, di tratta e di vendita, di sfruttamento e abuso. Cosa porti con te della storia di Selinna e cosa speri che resti agli spettatori?

Porto con me la volontà umana e femminile di essere indipendente. Selinna ha una forza interiore che possiamo comprendere solo in piccola parte. Ma era una bambina quando è partita e mi ha colpito quando ci ha raccontato che aveva detto alla madre che sarebbe andata a dormire da una sua amica. Mi ha colpito perché è la stessa bugia che avrei potuto dire io a mia madre da adolescente, se volevo andare a fare serata. So che sembra scontato, ma l’unica cosa che veramente ci differenzia è il posto dove nasciamo, nient’altro, ed è assurdo pensare che esistano Paesi dove avere dei diritti è un privilegio. Mi hanno criticato dicendo «dovresti parlare di una storia che ti appartiene»: ma questa storia mi appartiene come appartiene a tutti quelli che che la vedono. Spero che questo resti agli spettatori e alle spettatrici, l’idea di stare assistendo alla storia di una ragazzina che viene trattata come carne da macello, ma soprattutto che quella ragazzina potevamo essere noi.

Come è iniziata la tua collaborazione con Luca Guadagnino e Frenesy Film?

Conosco Luca da anni, ho lavorato con lui facendo alcuni storyboard per una pubblicità e gli avevo mandato il mio corto di diploma. Quando cercavo una produzione per The Meatseller gli mandai la sceneggiatura e mi chiamò subito chiedendomi di raccontargli il film a voce. Mi ha sempre lasciato molto libera, soprattutto dal punto di vista stilistico. È una persona estremamente intelligente, oltre a essere un grande autore: quando gli ho fatto vedere il primo animatic, con immagini molto schizzate e ferme, lui ha guardato tutto in silenzio e alla fine ha detto solo «sento che mancano sei minuti». Ho aggiunto il finale, perché ero d’accordo con lui, senza pensare al minutaggio, e alla fine erano veramente sei minuti.

Margherita Giusti
Margherita Giusti.

Quali tecniche digitali e tradizionali preferisci impiegare in questo momento o vorresti provare in futuro?

Per animare solitamente io uso Tvpaint, altre animatrici nel corto hanno usato Harmony e per colorare abbiamo impiegato Photoshop. Essendo il corto un ibrido tra carta e digitale molte cose le abbiamo realizzate su carta, come le trasformazioni e ciò che è più materico, la carne e gli sfondi. Tutto è studiato, in animazione non puoi fare nulla di improvvisato. Le trasformazioni più astratte le ho pensate e scritte in sceneggiatura e poi disegnate negli storyboard; con Elisabetta Bosco ci abbiamo lavorato ancora e le abbiamo ripassate in fase di layout, per definire meglio i punti chiave e passarle poi all’animazione: quindi sono state animate, stampate e ricolorate su carta. La scena della violenza, per esempio, l’ho eseguita da sola animando in digitale e ripassando poi tutto su carta. Volevo che rendesse la visione dell’incubo, con un’animazione molto sporca e imprecisa. Dopo il corto mi è rimasta la voglia di tornare a esplorare l’animazione tradizionale su carta, con i pastelli, le gouaches e la matita, ma allo stesso tempo mi piacerebbe imparare nuove tecniche digitali e soprattutto nuovi software: vedo dei film bellissimi e mi viene la voglia di sperimentare con tutto.

Sei stata assistente regista e storyboard artist per alcuni anni, cosa ti è piaciuto di questa esperienza e quali sono le criticità che hai affrontato?

Il set mi ha insegnato tantissimo: a lavorare in squadra, a capire le altre persone, a non prendere le cose sul personale, a essere diplomatica. Ma, soprattutto, se stai sul set impari che tutto si può fare, mai dire “no” senza averci provato prima. Ho lavorato sui set dai venti ai venticinque anni, li amavo odiavo allo stesso tempo. Era un ambiente brutale, tossico e sessista, faticavo quasi sedici ore al giorno e non vedevo più i miei amici, ma allo stesso tempo lì ho conosciuto persone meravigliose, avevo il cuore pieno e mi sentivo in famiglia.

Nel 2020 hai fondato il collettivo Muta animation con Elisabetta Bosco, Elisa Bonandin e Viola Mancini.

Abbiamo fondato Muta dopo il diploma al CSC: eravamo molto unite con Elisabetta e Viola perché avevamo appena finito En Rang Par Deux e con Elisa perché lavoravamo tutte nella stessa aula. Ci ha unito la voglia di fare un’animazione libera, di trovare uno spazio sicuro dove sperimentare. La chiave del nostro legame è che ognuna fa quello che vuole, ognuna ha qualcosa che sa fare meglio e nei vari lavori gestiamo la parte creativa con massima libertà e allo stesso tempo ci consigliamo e correggiamo a vicenda. Ci piacerebbe in futuro essere più strutturate, per ora siamo sparse in giro per l’Italia per cui stiamo aspettando di capire, non abbiamo fretta.

Selinna
Selinna

Cosa pensi dello stato di salute dell’animazione in Italia? Credi che sia un settore più collaborativo o più competitivo?

Quando sono andata a Torino a fare animazione mi sono ritrovata immersa in un ambiente completamente diverso da quello a cui ero abituata. Un ambiente molto femminile, dove la competizione era sana e basata principalmente sulla tecnica. Ho scelto l’animazione perché è molto meritocratica e soprattutto è un processo talmente difficile e lungo che raramente chi non ha la passione continua. In più, è un mondo così vasto che tra colleghi registi c’è una tale differenza di stile che è impossibile non provare curiosità e stima per i reciproci lavori. Purtroppo in Italia siamo ancora indietro, molta gente non è abituata ai film animati, pensa che siano solo per i più giovani o che “fa tutto il computer”; c’è anche un problema produttivo, non c’è mercato in Italia per i film animati e non c’è distribuzione, ma mi sembra che le cose stiano cambiando, almeno dalla parte del pubblico. Basti pensare agli incassi de Il ragazzo e l’airone.

C’è qualche artista o studio con il quale speri di lavorare in futuro?

Negli anni ho cominciato a seguire il lavoro di illustratori come Brecht Evens, Taiyo Matsumoto, Nicolas Nemiri e mi sono innamorata della poetica di registe come Anca Damian e Regina Pessoa; poi ci sono studi meravigliosi come SacreBleu e Miyu in Francia, BAP in Portogallo. Ma c’è una cosa che mi piacerebbe fare in futuro: la pubblicità. Soprattutto moda, dove vedo pubblicità bellissime e molto sperimentali.

Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto da quando lavori in questo settore?

Uno dei migliori consigli che mi porto dietro dai tempi di En Rang Par Deux e che darei ad artisti alle prime armi è quello che ci ha dato la nostra tutor Eva Zurbriggen: «fidatevi sempre delle vostre intuizioni».

 

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Ciao bambino, Napoli e l’amore a vent’anni in bianco e nero https://www.fabriqueducinema.it/focus/ciao-bambino-napoli-e-lamore-a-ventanni-in-bianco-e-nero/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/ciao-bambino-napoli-e-lamore-a-ventanni-in-bianco-e-nero/#respond Mon, 27 Jan 2025 16:16:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19546 Attilio non è più un bambino, non ha neanche vent’anni e nella testa una serie di sogni disordinati e inespressi. Le sue giornate estive a ciondolare nei bar con gli amici o a tuffarsi nel mare cristallino di Napoli scorrono tra riflessive ipotesi di futuro e risate intorno a sfide a carte. Fino a quando […]

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Attilio non è più un bambino, non ha neanche vent’anni e nella testa una serie di sogni disordinati e inespressi. Le sue giornate estive a ciondolare nei bar con gli amici o a tuffarsi nel mare cristallino di Napoli scorrono tra riflessive ipotesi di futuro e risate intorno a sfide a carte. Fino a quando non viene folgorato da una ragazza, bella quanto intoccabile. Il problema è il lavoro di lei. Perché vive prostituendosi sfruttata da un sistema illegale di cui Attilio stesso fa inevitabilmente parte, quanto suo padre appena uscito di galera, e quanto le immani difficoltà del tirare a campare in questo micro universo urbano raccontato dalla sceneggiatura di Ivan Ferone e Edgardo Pistone. Ciao bambino, opera prima di Pistone, prende dal suo ultimo cortometraggio, Le mosche, ampliandone trama, tiro e cast. Proprio lo street casting basato su dialetto partenopeo, espressività e vitalità effettuato per il suo lungometraggio mostra una collana d’interpreti preziosi quanto sconosciuti. Anastasia è una ventenne disincantata che si destreggia in un oblio forzato, ma proprio l’incontro e l’innamoramento saranno la miccia di un coming of age che si serve di una storia dura raccontata con sobria levità, e soprattutto una confezione registica esteticamente quasi ipnotica. I movimenti eleganti di questo bianco e nero senza tempo di Pistone nobilitano la periferia, in questo caso il rione Traiano di Napoli, lo stesso dove il regista è cresciuto.

Da qui Pistone gira equilibrandosi tra naturale gusto per l’immagine e un’efficacia narrativa che fanno ricordare mani felici come quelle di Emma Dante. Nel realismo morbido di questo autore si nota molto il contrasto tra forma e sostanza. Contrasto che magicamente non crea distanza tra gli elementi, ma li fa danzare insieme, tra le esistenze strizzate ma gaudenti di questi poveri ma belli. Il lirismo visivo a volte si porta ai limiti dello spot da Film Commission, quasi da sguardi sorrentiniani, ma pure queste piacevoli vertigini ne fanno l’ottimo lavoro che è per qualità esecutiva e magniloquenza di certe immagini.

Meritano positiva menzione i protagonisti Marco Adamo e Anastasia Kaletchuk, entrambi forti delle loro veracità, lui campano, lei ucraina, ma soprattutto della loro età a cavallo tra scoperta e distruzione, coraggio e passione, tragedia e sentimento. Tutto funziona tra loro e intorno a loro, nei tempi e nelle intensità di un humus di umanità dai tanti colori, seppure solo di due sul grande schermo.

Il corto originario, Le mosche, era stato presentato alla Settimana Internazionale della Critica durante la Mostra del Cinema di Venezia nel 2020, vincendo peraltro il Premio per la Miglior Regia; mentre Ciao bambino si è aggiudicato il Premio Miglior Opera Prima alla Festa del Cinema di Roma nel 2024 e il Premio Speciale della Giuria al Tallinn Black Nights Film Festival, in Estonia. Certi film sono come quelle piante che hanno bisogno di spazi ampi per crescere. Questo è ora in sala, ed è proprio uno di quei film che andrebbero goduti sull’ampiezza del grande schermo.

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Momo Assad: Roma è la mia casa, ma ora voglio il mondo https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/momo-assad-roma-e-la-mia-casa-ma-ora-voglio-il-mondo/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/momo-assad-roma-e-la-mia-casa-ma-ora-voglio-il-mondo/#respond Mon, 20 Jan 2025 13:16:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19531 Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per […]

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Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per necessità.

Momo è giovane di quella gioventù profonda, forse un po’ tragica, di chi ha già sfogliato parecchie versioni di sé. Le sue cominciano alle radici: genitori siriano-libanesi, nascita nella Capitale, famiglia di ristoratori (loro è l’Osteria del Tempo Perso). «Facciamo cucina romana, i miei cucinano mediorientale quando siamo da noi. Non mi dispiace stare ancora un po’ con loro, alla fine Roma sento di non averla vissuta del tutto, sono stato in giro. Ci credi che non sono mai entrato nel Colosseo?».

Ci credo, visto che Momo pare uno di quei giovani indirizzati, o comunque quadrati, che si instradano da soli. Ed è sempre un po’ più difficile, quando non si intraprende la via della ribellione, svincolarsi dagli “affari di famiglia”. «Mio padre ha sempre detto a me e mio fratello che tutto quello che faceva con il lavoro era per noi. Che un giorno sarebbe stato il nostro turno. In realtà siamo sempre stati liberi di fare le nostre scelte». Per Momo, tutto è cambiato quando ha preso la scelta in cui proprio i suoi genitori avrebbero potuto credere di meno: decidere, senza esperienza pregressa e già dopo aver superato gli anni universitari, di diventare un attore.

La tua storia ha diversi capitoli. Com’è andata?

Sono cresciuto in una famiglia in cui si parlava arabo, abitavo a Roma, andavo alla scuola internazionale dove si studiava in inglese. Non pensavo minimamente a fare l’attore, speravo che un giorno avrei giocato a calcio nella nazionale italiana e che avrei vinto i Mondiali. Invece già qui, primo colpo di scena: sono finito a studiare con il cursus honorum all’americana, ho partecipato al Model European Parliament (iniziativa che permette ai giovanissimi di confrontarsi con il funzionamento delle istituzioni politiche europee, nda), ho fatto l’università negli Stati Uniti studiando marketing. A quel punto sapevo parlare fluentemente quattro lingue, un bel vantaggio. Solo che, durante il Covid-19, la mia vita è cambiata, e non me lo aspettavo: non potevo rientrare dalla mia famiglia in Italia, ero sulla costa Est degli States, mi sono concentrato su quello che avevo intorno. Uno dei miei amici frequentava la scuola di recitazione di Stella Adler (lo Stella Adler Studio of Acting, tra i suoi alumni vanta nomi come Robert De Niro, Christoph Waltz, Rachel Sennott e Benicio Del Toro, nda), mi sono incuriosito e gli ho chiesto come avrei potuto fare per iniziare a recitare senza avere alcun tipo di esperienza pregressa. Così ho provato le ammissioni al loro corso di formazione di tre anni, che chiamano Conservatory.

Non la cosa più facile.

Ho iniziato a studiare monologhi shakespeariani su internet, ho guardato dei video, è così che mi sono preparato per l’audizione. È andata bene, però, visto che non avevo curriculum, mi dissero che non avrebbero potuto prendermi, perché il programma è solo per 24 studenti, sarebbe stato troppo rischioso per loro. Mi proposero di frequentare uno dei loro Summer Program. Perfetto, andata. Dopo solo un mese mi dissero che c’era un posto per me nel Conservatory. È stato fantastico, ma anche ora che ho finito mi sento comunque uno studente. Vivo a Los Angeles da tre anni, ho un agente, un manager, ho firmato il primo NDA e guadagnato le prime cosette. E poi la scuola mi ha fatto entrare in un bellissimo cerchio di persone, ne sono molto grato. Alla fine quello che cerco di fare è ricreare vita di Roma negli States, con qualche piccola differenza. Non è mai facile. Prendi il cibo, per esempio: no way.

Il percorso ti ha cambiato?

Sì, mi sento benissimo. Per la prima volta capisco davvero che sto facendo quello che voglio fare. Ero così nervoso all’inizio di tutto, pensa che ho detto ai miei genitori dell’accademia solo una volta che ero stato preso. È stato un salto importante, ma non ho guardato indietro. Intraprendere questo viaggio mi ha insegnato molto su me stesso, e sono stato davvero fortunato a farlo alla scuola di Stella Adler. Ti dà qualcosa di più. Uno dei principi su cui il suo metodo si fonda è che crescere come attore significa crescere come persona. Tutti quei discorsi su Apollo e Dioniso e la loro compresenza dentro ognuno di noi… uno non ci crede, ma arrivi proprio a sentirlo.

E adesso?

Ora che ho cominciato a lavorare e a fare anche festival e produzioni internazionali, voglio solo continuare così, diventare sempre più radicato nel mondo. So le lingue, ho viaggiato, posso farlo.

C’è un posto che chiami “casa”, ora?

Casa per me è la mia famiglia, poi se devo scegliere una città, allora è Roma. Ma sempre di più lo diventano anche le persone che mi stanno attorno. Cerco di ricreare i miei cerchi di amicizie ovunque sia. In Italia sono stato fortunato, ho incontrato tante persone belle che mi porto dietro da anni.

Devi scegliere su che medium recitare: dici cinema o teatro?

Da quando ho un agente mi hanno piazzato soprattutto nel cinema. Poi ho fatto una parte in un episodio della HBO, anche qualche corto. Però allo stesso tempo ho fatto quattro mesi in uno Shakespeare Festival a teatro, dove ho lavorato su La dodicesima notte e Misura per misura. Per l’ultima ero il sostituito di uno degli attori, è stata una sfida, dovevo replicare quello che faceva lui in tutto e per tutto. Davvero formativo. Il cinema e la televisione mi piacciono, ma il teatro è un’altra cosa. Una volta che dici la prima frase, non puoi fermarti. Ogni sera è lo stesso ed è diverso.

Momo AssadHai già lavorato in Italia?

No, ancora no. Però mi piacerebbe, intanto che aspetto di tornare in America cerco di recuperare informazioni e capire come funziona l’ambiente qui. Essere figlio di ristoratori torna utile in questi casi, a mangiare ci vanno tutti. E tutti sono più contenti di parlare di cose serie quando sono rilassati e stanno bene.

Chi sono i tuoi modelli attoriali? Ne hai?

Se devo scegliere tre persone che non riuscirei a trattare da colleghi, ti dico: Rowan Atkinson, un genio della commedia; Daniel Radcliffe, che quando faceva Harry Potter vivevo come il mio migliore amico, poi è passato al teatro ed è bravissimo, sono molto contento che abbia vinto il Tony; e Johnny Depp. Adoro la progressione della sua carriera, i personaggi che interpreta e come li sa portare in vita.

Ma vorresti fare della commedia, quindi?

Per ora mi hanno sempre scritturato per romance e drama, ma se posso indicare la mia scelta, dico sempre commedia. A teatro vorrei fare tutti i fool di Shakespeare. In Italia c’è la commedia dell’arte, anche Mr. Bean è un personaggio universale, come Arlecchino. Non aprono bocca e tutti capiscono. Magnifico.

Che poi, venendo da Roma, non potrebbe essere altrimenti. Senti, ma un sogno ce l’hai?

Non me l’hanno mai chiesto. È una domanda importante. Per ora penso di voler continuare a fare questa cosa, e diventare un attore sempre migliore. Voglio lavorare con belle persone, e raccontare storie positive. Dare il 100% di me stesso. Questa sarebbe già la felicità.

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Gli attori di Fabrique n. 46: Zanini, Santorum, Schiavo e Librando https://www.fabriqueducinema.it/focus/gli-attori-di-fabrique-n-46-zanini-santorum-schiavo-e-librando/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/gli-attori-di-fabrique-n-46-zanini-santorum-schiavo-e-librando/#respond Thu, 16 Jan 2025 18:23:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19505 Clelia Zanini, Matteo Santorum, Giulia Schiavo e Filippo Librando sono i protagonisti del nuovo numero di Fabrique du Cinéma, il 46esimo. Quattro volti emergenti, quattro percorsi artistici diversi ma accomunati da una straordinaria determinazione, talento e voglia di lasciare il segno. Clelia Zanini ha conquistato il pubblico internazionale portando sullo schermo un’Imperatrice Marcia memorabile nella serie […]

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Clelia Zanini, Matteo Santorum, Giulia Schiavo e Filippo Librando sono i protagonisti del nuovo numero di Fabrique du Cinéma, il 46esimo. Quattro volti emergenti, quattro percorsi artistici diversi ma accomunati da una straordinaria determinazione, talento e voglia di lasciare il segno.

Clelia Zanini ha conquistato il pubblico internazionale portando sullo schermo un’Imperatrice Marcia memorabile nella serie Those About to Die di Roland Emmerich.

Matteo Santorum, con la sua interpretazione in Io ricordo: Piazza Fontana al fianco di Giovanna Mezzogiorno e il suo lavoro in Un posto al sole, ha dimostrato una versatilità capace di spaziare tra cinema e televisione.

Giulia Schiavo, tra commedie romantiche come Sotto il sole di Riccione e serie di successo come Skam Italia, ha costruito una carriera che unisce leggerezza e profondità, diventando un volto amato dai più giovani.

Filippo Librando, infine, è tra gli interpreti di Rossosperanza di Annarita Zambrano e di Dron Amor di Jonathan Elia, dove ha messo in luce sua sensibilità interpretativa.

Fotografo: Gioele Vettraino – Stylist: Alex Sinato – Hairstylist: Adriano Cocciarelli @AdriaRe – Make-up: Ilaria di Lauro per IDLMakeup – Location: Coho loft – Prodotti: Davines

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Romana Maggiora Vergano, la bambina dei perché https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/romana-maggiora-vergano-la-bambina-dei-perche/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/romana-maggiora-vergano-la-bambina-dei-perche/#respond Fri, 20 Dec 2024 08:40:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19480 Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema. Anche e soprattutto quando il cinema ti travolge con il fenomeno Cortellesi, con la regia più intima di Francesca Comencini, con una serie internazionale targata Rodat-Emmerich e un camerino accanto a quello di Anthony Hopkins. Oggi […]

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Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema. Anche e soprattutto quando il cinema ti travolge con il fenomeno Cortellesi, con la regia più intima di Francesca Comencini, con una serie internazionale targata Rodat-Emmerich e un camerino accanto a quello di Anthony Hopkins. Oggi Romana Maggiora Vergano è sul set della nuova serie di Bellocchio, dove torna a condividere la scena con Fabrizio Gifuni in un’evoluzione del rapporto padre-figlia dopo aver compiuto, insieme, un piccolo miracolo attoriale nella pelle dei Comencini. A 26 anni è già destinata a farsi ricordare come la Marcella di C’è ancora domani, in una storia universale che ha raggiunto il mondo, e come la giovane Francesca de Il tempo che ci vuole, in un testamento autobiografico che omaggia la storia del nostro cinema. Ha un nome antico, un volto senza tempo, e l’aria di chi è talmente forte da potersi rompere in mille pezzi. Vergano si appoggia alle spalle dei giganti senza farli annegare, anzi, rafforzandone le bracciate. E dentro due film spogli di grandi orpelli, tra quattro mura che sono state insieme gabbia e focolare, ha dimostrato di poter fare la differenza. Su di lei non c’è neanche gusto a scommettere.

Partiamo dalla storia di questo nome che sfugge al tempo.

Pensa che volevano farmelo cambiare, perché è troppo lungo e strano. Non mi sono mai fatta molte domande sulle mie origini, poi il film di Paola mi ha smosso qualcosa e ho scoperto che Maggiora e Vergano sono due piccole località del Piemonte. Non paghi del cognome, mi hanno dato anche un nome particolare…

Hai dovuto imparare a voler bene al tuo nome?

È una domanda interessante, perché io ho odiato il mio nome. Mi dicevano che era duro e vecchio. Ricordo bene il giorno in cui mi ci sono affezionata: è stato quando, per la prima volta, mi è capitato di presentarmi a un’altra persona che si chiamava Romana. E quindi la sensazione di condividere un peso.

Sei figlia di medici. Quando hai deciso di fare l’attrice?

È stata una scena da film. Sono sempre stata una secchiona, avevo preparato il test d’ingresso per Medicina ed ero convinta di entrare, perché me l’ero messo in testa. Poi arriva il 5 settembre, la mattina faccio colazione e quando è il momento di uscire di casa mi sento fisicamente bloccata. Il mio corpo non mi risponde più. Dico a mia madre: «Non è che non voglio, è che non posso andare». Il pomeriggio ho cercato su Internet dei corsi di recitazione.

Quindi recitare era già un’idea?

Ho sempre fatto teatro amatoriale e da poco avevo iniziato dei corsi serali di recitazione cinematografica. Vivevo a Ostia con mia madre, così la mattina andavo a scuola e poi prendevo la metro verso Roma, ma pensavo sarebbe rimasto un hobby. L’epifania è arrivata durante l’estate. Dopo la maturità ero stata presa per Immaturi – La serie. Un ruolo da figurazione speciale, tre battute ma tante giornate sul set. Mi sono innamorata perché avevo zero responsabilità e molto tempo per osservare tutte le discipline del cinema.

Nella giovinezza il cinema che ruolo ha avuto?

I miei facevano lunghi turni in ospedale, ho conosciuto il cinema come forma d’intrattenimento con le commedie, con il mondo dello spettacolo e le repliche di Techetè. Ricordo Brutti, sporchi e cattivi e la scena della pastarella in C’era una volta in America, poesia pura. Poi La ragazza con la pistola, di cui mia madre era grandissima fan, e ovviamente Il tempo delle mele. E poi ricordo Malèna, da bambina volevo essere lei.

Il tempo che ci vuole racconta che possiamo fallire anche se facciamo quello che amiamo. E che fa male il doppio. Durante gli studi c’è stata la paura di “non saperlo fare”?

Per me la paura del fallimento è stato un grande tema durante tutta l’adolescenza, e proprio entrando alla Volonté me ne sono liberata. Ero una iper perfezionista, sempre il massimo dei voti, sempre a fare la cosa giusta, sempre quello che ci si aspettava da me. Alla Volonté mi è stato detto per la prima volta: «Tu fai il compitino. Sei bravissima, ma smettila». Che vuol dire smettila? Se porto il risultato andiamo avanti, no? Invece mi hanno rotto in mille pezzi. Hanno cercato la sfumatura, l’errore, la disattenzione.

Oggi non lo si direbbe mai: la sporcatura è il quid di ogni tua interpretazione.

Mi rendi felice, perché ho avuto molta paura per Il tempo che ci vuole. Oltre a quella che potete immaginare tutti, cioè essere diretta dalla persona che stai interpretando, anche se Francesca mi ha spogliato immediatamente di questa responsabilità: prima di essere lei, ero una figlia e una ragazza degli anni Settanta. Ho cercato di non farmi più domande di quelle di cui realmente avevo bisogno, ed ho faticato, perché nella vita io sono la bambina dei perché. Ho bisogno che mi si diano delle risposte per sentirmi al sicuro.

La tua pelle nel film: primi piani che sanno di eroina su un volto come il tuo, che invece si tende a non abbrutire.

Non ho mai avuto problemi di acne nell’adolescenza, ma questo film è arrivato in un momento in cui la vita mi stava mettendo alla prova: avevo cambiato casa e chiuso una relazione, dormivo poco e mi erano usciti molti sfoghi. Insieme al supporto di un’incredibile squadra di truccatori, il mio corpo si era preparato da solo al film. La mia pelle era pronta.

Ti sei giudicata, riguardandoti?

È stata la prima volta in cui non mi sono mai giudicata fisicamente. È brutto ammetterlo, ma alle prime visioni tendo sempre a guardarmi esteticamente: il doppio mento, la gamba grossa, l’occhio storto. Stavolta mi sono vista diversa, col viso rovinato e confuso, e l’ho trovato affascinante.

C’è ancora domani: quando hai capito che eri all’interno di un fenomeno più grande di te?

Il giorno in cui abbiamo girato la scena finale. Sembrava un giorno come tanti, ormai eravamo sul set da un mese. Invece arrivo in location e mi trovo travolta da centinaia di donne vestite anni Quaranta, tutte con il documento in mano, il rossetto sulle labbra e i manifesti appesi sulle scale. Oltre al regalo immenso che mi hanno fatto Paola e il cinema in generale, facendomi vivere un momento storico che ha cambiato il nostro Paese, lì ho sentito che stavamo facendo una cosa enorme che avrebbe parlato a tante persone, e di cui si sarebbe parlato per molto tempo.

Il giorno in cui hai aperto i social e hai pensato: “Ci siamo. La giostra è partita”?

Quando lo hanno presentato alla Festa del Cinema di Roma. Io ero a Parigi a girare con Francesca Comencini, ero tra la Tour Eiffel e Montmartre e non riuscivo ad alzare gli occhi dal telefono, perché leggevo questi commenti meravigliosi di chi lo aveva appena visto. Dal primo giorno sono stata travolta, ma la cosa più bella è stata incontrare persone che ci hanno portato le nonne, i padri, gli amici, che sono tornate in sala quattro o cinque volte. Questo capita raramente: vedere un film con degli sconosciuti e commuoversi insieme, arrabbiarsi e sperare insieme. Allora diventa un’esperienza e non solo un film.

Fuori dal fenomeno, qual è stato il tuo momento più intimo con Marcella?

Quello in cui il ragazzo le toglie il rossetto dalle labbra con le mani. È stato particolare perché in quel momento è entrata in gioco anche l’attrice e non solo il personaggio. Marcella, da scrittura, non doveva rendersi conto del gesto violento che subiva, invece a Romana quel gesto non era mai stato fatto, e mi è scattata una repulsione che dovevo contrastare. Romana è dovuta restare lì, dentro la scena, ma negli occhi di Marcella si percepisce un disagio.

È vero, in quel gesto c’è un incontro tra epoche, una repulsione che attraversa i secoli e tocca ogni donna. Dunque, da una parte eccoci con la storia universale di Cortellesi, e dall’altra con la memoria autobiografica di Comencini. Due registe molto diverse?

La differenza più evidente è che Paola è una donna estroversa, leggera e divertente, nonostante i temi trattati nel suo film. Francesca è una donna più dura, una regista di poche parole che centra sempre il punto. Se guardi Paola in un momento di pausa sul set ha un viso disteso, se guardi Francesca ha un viso corrucciato. In comune hanno l’amore per gli attori: Paola perché lo è, Francesca perché ci è cresciuta in mezzo.

Entrambi i film mettono in luce quello che tu puoi fare all’interno di quattro mura, in una casa che è insieme gabbia e focolare.

Mi fa piacere che lo noti, perché invece io sono il tipo di attrice che si attacca a tutto quel che può. Ma su entrambi i set avevo difficoltà a muovere il mio corpo nello spazio, non avendo abbastanza oggetti da utilizzare. Credo che questo abbia ridotto all’essenziale il sentire e l’interpretare, e forse è la forza di entrambi i progetti: si potrebbe essere in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Io lavoro male da sola, cerco tanto la mano dell’altro. Quando ti guardi intorno e non hai nulla a cui aggrapparti, devi fidarti di te e del tuo compagno di scena, e per me la differenza, in questi due film, l’hanno fatta i miei colleghi, Paola e Fabrizio Gifuni.

Uno dei più grandi attori viventi e nessuno glielo riconosce mai abbastanza.

Lo è, davvero. E insieme ci siamo trovati e ci siamo liberati in questa storia. Ogni tanto giochiamo e ci diciamo: «Io sono te e tu sei me».

Sul tuo primo progetto in inglese, Those About to Die, è capitato l’opposto: la messa in scena di un kolossal feat. Anthony Hopkins.

Avere a che fare con quella messa in scena può ostacolare oppure arricchire l’interpretazione. Quei gioielli, le tre ore di acconciature e quel drappo pesantissimo mi davano la postura delle donne dell’epoca, sempre rette e maestose. E poi confesso che leggere il tuo nome accanto al camerino di Anthony Hopkins, un certo effetto lo fa.

La scena della barba allo specchio nel film di Comencini ci ricorda, con grande poesia, che la creatività nasce dall’emulazione. Tu hai osservato allo specchio interpreti fortissimi: facciamo il gioco della barba?

In Paola ho osservato un sorriso d’altri tempi, anche nei momenti di tensione più alta. Da Fabrizio ho imparato a respirare, perché lui è un attore che sa stare e sa dare senza muovere un muscolo. Hopkins con i suoi video su Instagram mi ricorda che questo lavoro è anche un gioco. Jasmine Trinca l’ho sfiorata sul set de La Storia e poi a teatro, ho amato il suo film da regista, ma sai cosa preferisco di lei? Ha fatto ruoli diversissimi senza snaturarsi mai. È in continua ricerca, è un’attrice che non si siede. E io vorrei diventare questo.

Cosa credi stia funzionando in Romana Maggiora Vergano?

Forse, a prescindere dalla recitazione, il modo in cui mi presento. Io non credo di saperne più di nessuno e sono un’abilissima ascoltatrice. Questo nel mio lavoro diventa tutto materiale, mi hanno detto che funziono quasi più nei piani d’ascolto. E poi lo dico chiaramente: la mia fortuna è stata farmi conoscere con un personaggio che mi somiglia molto. Marcella è davvero vicina a me, quindi il dialogo che è nato attorno al film è stato autentico.

Sei partita con due film che potrebbero già bastare. Oggi cosa sogni?

Una casa. Costruire uno spazio sicuro dove rigenerarmi. Continuare con dei grandissimi film. E poi mi piacerebbe la Francia, la mia regista preferita è Céline Sciamma. Spogliare un suo copione e provare a dare vita a un suo personaggio sarebbe già un sogno. Riusciamo a farle leggere questa cover di Fabrique?

Ci proviamo. Prendo in prestito le parole di Gifuni-Comencini ne Il tempo che ci vuole per chiudere con l’unica battuta possibile: «Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema».

Sai che mi sono riempita la casa di post-it dopo averla letta in sceneggiatura? Questa frase mi risolve tutto. Venivo dal periodo di Paola, tanto clamore e attenzione mediatica, avevo la testa sempre lì e all’improvviso ho pensato: “Se lo ha detto Comencini, che ha fatto del cinema la sua vita, allora me lo devo ricordare sempre anch’io”. Prima la vita e poi il cinema. Anche perché sennò cosa raccontiamo?

Fotografa: Roberta Krasnig; Assistente: Sara Pinsone

Stylist: Flavia Liberatori

Hair: Adriano Cocciarelli per @ADRIARE hairdesigner

Make-up: Ilaria di Lauro per @IDLMakeup

Location: The Cineclub

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Fabrique Awards 2024: the winners are… https://www.fabriqueducinema.it/festival/favrique-awards-2024-the-winners-are/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/favrique-awards-2024-the-winners-are/#respond Thu, 19 Dec 2024 09:55:59 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19474 Tutti i vincitori dei Fabrique du Cinéma Awards 2024:   MIGLIOR SCENEGGIATURA DI CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE  Just Jump In di Sue Faulkner MIGLIOR CONCEPT DI SERIE Deserto di ghiaccio di Andrea Cantafio MIGLIOR CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE 59 Degrees, di Matias De Sa Moreira & Cyril Piñero MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ITALIANO La fémmina di Nuanda Sheridan  MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE […]

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Tutti i vincitori dei Fabrique du Cinéma Awards 2024:

 

MIGLIOR SCENEGGIATURA DI CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE 

Just Jump In di Sue Faulkner

MIGLIOR CONCEPT DI SERIE

Deserto di ghiaccio di Andrea Cantafio

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE

59 Degrees, di Matias De Sa Moreira & Cyril Piñero

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ITALIANO

La fémmina di Nuanda Sheridan 

MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE

Broken Pieces di Justin Ho 

MIGLIOR DOCUMENTARIO INTERNAZIONALE

Dalla parte sbagliata di Luca Miniero 

MIGLIOR COLONNA SONORA ITALIANA

Il tempo che ci vuole di Fabio Massimo Capogrosso

MIGLIOR ATTORE

Zackari Delmas

MIGLIOR ATTRICE

Marianna Fontana

MIGLIOR SERIE TV ITALIANA

Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883 di Sydney Sibilia

MIGLIOR OPERA PRIMA ITALIANA

Tre regole infallibili di Marco Gianfreda

MIGLIOR OPERA ITALIANA INNOVATIVA

Gloria! di Margherita Vicario

 

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Fabrique Awards 2024: tutti i finalisti https://www.fabriqueducinema.it/festival/fabrique-awards-2024-tutti-i-finalisti/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/fabrique-awards-2024-tutti-i-finalisti/#respond Thu, 12 Dec 2024 17:36:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19471 Ecco tutti i finalisti nelle 12 categorie che si contenderanno il premio ai Fabrique du Cinéma Awards 10a edizione, il 17 dicembre al Cinema Nuovo Olimpia a Roma. MIGLIOR SCENEGGIATURA DI CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE  Free Martin di Scott Thompson e Hayes Hart-Thompson (USA)  Just jump in di Sue Faulkner (Irlanda)  Mr. Glitter di Luca Buzzi Reschini […]

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Ecco tutti i finalisti nelle 12 categorie che si contenderanno il premio ai Fabrique du Cinéma Awards 10a edizione, il 17 dicembre al Cinema Nuovo Olimpia a Roma.

MIGLIOR SCENEGGIATURA DI CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE 

Free Martin di Scott Thompson e Hayes Hart-Thompson (USA) 

Just jump in di Sue Faulkner (Irlanda) 

Mr. Glitter di Luca Buzzi Reschini (Italia) 

Voice di Rebecca Redini (Italia)

MIGLIOR CONCEPT DI SERIE

Deserto di ghiaccio di Andrea Cantafio 

Dodici è il nuovo tre di Andrea Martines 

Troll di Nicholas Di Valerio

Villa Merrick – La villa dell’americana di Martina Biscarini Baldi 

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO INTERNAZIONALE

59 Degrees di Matias De Sa Moreira & Cyril Piňero (Francia) 

Hafekasi di Annelise Hickey (Australia) 

Family Video di Niande Liu (Cina)

Grotto di Ariane Lippens (Belgio) 

MIGLIOR CORTOMETRAGGIO ITALIANO

L’anima della festa di Lorenzo Vitrone 

DAGON di Paolo Gaudio 

La fémmina di Nuanda Sheridan 

Laddove manchi di Mauro Lamanna 

MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE

Broken Pieces di Justin Ho (USA) 

Inpaintings di Ozan Yoleri (Turchia) 

Itu Ninu di Itandehui Jansen (Messico) 

El vaquero di Emma Rozanski (Colombia) 

MIGLIOR DOCUMENTARIO INTERNAZIONALE

Dalla parte sbagliata di Luca Miniero (Italia) 

Diary of a father di Paul-Claude Demers (Canada) 

The last game di Jon Alpert (USA) 

L’occhio della gallina di Antonietta De Lillo (Italia)

MIGLIOR COLONNA SONORA ITALIANA

Berlinguer – La grande ambizione di Iosonouncane 

Gloria! di Margherita Vicario e Davide Pavanello 

Il tempo che ci vuole di Fabio Massimo Capogrosso 

Troppo azzurro di Pop X 

MIGLIOR ATTORE

Zackari Delmas, Il mio compleanno 

Andrea Fuorto, Maschile plurale 

Gabriele Monti, La storia del Frank e della Nina 

Giorgio Quarzo Guarascio, Enea 

MIGLIOR ATTRICE

Galatéa Bellugi, Gloria! 

Marianna Fontana, La seconda vita 

Tecla Insolia, L’albero 

Yeva Sai, Taxi Monamour 

MIGLIOR SERIE TV ITALIANA

Brennero di Davide Marengo e Giuseppe Bonito 

Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio di Gianluca Neri 

Il clandestino di Rolando Ravello 

Hanno ucciso l’uomo ragno – La leggendaria storia degli 883 di Sydney Sibilia 

Miglior Opera Prima Italiana

L’anno dell’uovo di Claudio Casale 

Europa Centrale di Gianluca Minucci 

Il mio compleanno di Christian Filippi 

Tre regole infallibili di Marco Gianfreda 

Miglior Opera Italiana Innovativa

The complex forms di Fabio D’Orta 

Gloria! di Margherita Vicario 

N.E.E.T. di Andrea Biglione 

Squali di Alberto Rizzi 

 

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Simone Bozzelli e i D’Innocenzo: a proposito di Dostoevskij, amicizia e cinema https://www.fabriqueducinema.it/serie/simone-bozzelli-e-i-dinnocenzo-a-proposito-di-dostoevskij-amicizia-e-cinema/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/simone-bozzelli-e-i-dinnocenzo-a-proposito-di-dostoevskij-amicizia-e-cinema/#respond Wed, 27 Nov 2024 13:56:23 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19435 La mia storia con i fratelli D’Innocenzo inizia nel 2019, quando stavo cercando una location per il mio cortometraggio. Contattai Damiano su Facebook, e pur non potendo aiutarmi direttamente, rispose con una gentilezza tale che decisi di ringraziarlo nei titoli di coda del mio corto Amateur. Questo gesto di gratitudine non passò inosservato: non so […]

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La mia storia con i fratelli D’Innocenzo inizia nel 2019, quando stavo cercando una location per il mio cortometraggio. Contattai Damiano su Facebook, e pur non potendo aiutarmi direttamente, rispose con una gentilezza tale che decisi di ringraziarlo nei titoli di coda del mio corto Amateur. Questo gesto di gratitudine non passò inosservato: non so ancora bene come, ma vennero a sapere del ringraziamento sul roll dei titoli e vollero vedere a tutti i costi il corto, rimanendone affascinati al punto da invitarmi a cena per parlarne per tutta la sera, anche se a volerli riempire di domande, in realtà, ero io.

Da quel momento è nata una profonda amicizia, fatta di capodanni e set (ho girato per loro il backstage di America Latina, presente nei contenuti speciali del DVD in commercio). Sono tante le cose che ci accomunano, ma quella che ci accomuna di più è l’amore per il cinema e in particolare per il cinema che omaggia l’essere umano raccontandolo anche nella sua degna disgrazia. Amiamo il cinema e quindi abbiamo accettato volentieri la chiacchierata che segue.

Simone: Da quando ero al CSC e uscì La terra dell’abbastanza fino a oggi, mi sembra che ogni cosa che facciate sia una novità per l’Italia. È la prima volta che una serie viene distribuita al cinema in due atti, come evento speciale in un’unica settimana. Come mai questa scelta? È una decisione vostra?

Fabio: Non è stata una nostra scelta iniziale, anche se l’abbiamo adottata per necessità. La data che ci hanno proposto, ovvero luglio, era piuttosto infelice. Vision Distribution, che ha un’esperienza incredibile, ha suggerito di condensare tutto in una settimana per massimizzare l’impatto. Tuttavia, dal mio punto di vista, questa decisione ha complicato le cose, generando molta confusione e diversi errori. Mi sono assunto pubblicamente la responsabilità di questi errori, anche se non erano miei, perché credo fermamente che sia importante prendersi le proprie responsabilità. E mi piacerebbe che anche altri lo facessero, soprattutto chi è coinvolto in queste decisioni e processi.

Simone: In un’epoca in cui le piattaforme e i broadcaster arricchiscono le loro offerte con pacchetti Ultra HD, 4K, HDR, come avete convinto Sky a girare in 16mm?

Damiano: Abbiamo convinto Sky con la passione, con la nostra autentica passione. Ricordo una lunga riunione durante la quale abbiamo mostrato sia i provini in pellicola che quelli in digitale. Stavamo cercando di convincerli della bontà di una scelta che, a prima vista, poteva sembrare più rischiosa e più costosa. A posteriori, però, non era né l’una né l’altra. Non siamo degli esteti della pellicola, così come non siamo esteti del digitale. Non siamo esteti di nessuno strumento del cinema, perché rispettiamo il cinema e il cinema non può essere schiavo di nessuno strumento. Quello che posso dirti è che, tanto tempo fa, con Fabio ci siamo chiesti come raccontare questa storia, non solo in termini di pellicola ma anche per quanto riguarda i movimenti di camera. Abbiamo deciso di tenere tutto a mano, di far sparire tutti i cavalletti e di non usare carrelli, tranne uno che abbiamo ricavato da un carrello di un supermercato. E qual è, appunto, il corrispettivo della carta nel cinema? È la pellicola. L’unica materia artigianale, materica, che esiste. È l’unica cosa presente, concreta e che puoi toccare. Questo aspetto ci interessava moltissimo. In secondo luogo, parliamo di un personaggio che si sta estinguendo letteralmente, ed è proprio la prima scena. Quindi ci interessava che il mondo che lui vede non fosse particolarmente dettagliato e preciso, doveva essere inevitabilmente miope. E poi, in pellicola… Tu hai girato Patagonia! Quando abbiamo pensato a Dostoevskij, abbiamo anche analizzato il tuo film con il nostro direttore della fotografia, non avendo mai lavorato in pellicola 16 mm.

Simone Bozzelli sul set con uno dei fratelli d'Innocenzo
Simone Bozzelli sul set con uno dei fratelli d’Innocenzo.

Simone: Visto che i vostri primi tre film sono stati girati in digitale e Dostoevskij in pellicola, potete fare un bilancio soggettivo delle potenzialità di entrambi i formati?

Fabio: Certo, ogni formato ha i suoi limiti e le sue potenzialità. Sia io che Damiano abbiamo trovato un certo fascino in quella “cecità” di fronte a monitor bruciati, tipici di quando sul set giri in pellicola. Tutto appare bianco e dobbiamo sforzarci di cogliere le espressioni degli attori. In quei momenti, ho scoperto di apprezzare profondamente l’esperienza. La forma e il contenuto del film riuscivano così a trovare un equilibrio appagato. La pellicola ha una qualità materica che il digitale non può replicare, ma alla fine per noi è più importante la storia e come viene raccontata, piuttosto che il mezzo con cui viene realizzata.

Simone: La pellicola mi ricorda quella scarsa definizione dei file .avi con cui abbiamo visto mezzo cinema, su file di 700 megabyte.

Fabio: Esatto. E dei film (inediti in italia) che tu ci passi di contrabbando…

Simone: Dopo La terra dell’abbastanza si parlava di una vostra serie tv, addirittura di un western, e visto che apprezzo tantissimo la vostra abilità nella scrittura: è vero che la serialità è il grande territorio della scrittura? O avete scovato dell’altro?

Damiano: Territorio della scrittura, ma non direi in maniera sistematica. I nostri riferimenti per questa serie sono stati tantissimi romanzi. Mai come in questa serie abbiamo portato i romanzi che amiamo tantissimo, spesso molto ingombranti in termini di pagine. Per esempio Antonio Moresco, il mio scrittore italiano preferito, fa libri giganteschi. Anche I poveri di William T. Vollmann e Le perizie di William Gaddis ci hanno ispirato. Il formato lungo ci permette di avvicinarci molto di più al passo dello scrittore piuttosto che al passo del regista. In America Latina era esattamente il contrario: mentre scrivevamo le scene, dovevamo immaginarle già girate. Con Dostoevskij, invece, l’immaginazione andava messa su come venivano lette.

Simone: La cosa che più mi ha colpito di Dostoevskij è stato il reparto visivo. Come avete fatto a creare un dialogo così solido tra tutti questi reparti?

Fabio: Appena iniziamo a delineare la storia, vedo subito tutti gli elementi che comporranno il mondo che stiamo creando. Abbiamo la fortuna di collaborare con persone straordinarie, e i bravi registi sono quelli che sanno scegliere i migliori collaboratori. Lavoriamo in stretta sinergia con il direttore della fotografia, lo scenografo, il costumista e tutti gli altri reparti per assicurarci che ogni dettaglio sia coerente e contribuisca a raccontare la storia nel modo più efficace possibile. È un processo collaborativo in cui ognuno porta la propria visione e competenza, e il risultato finale è sempre un dialogo armonioso tra tutti questi elementi.

Simone: Voi mi avete raccontato che il montaggio può essere un momento di grande crisi. In particolare Damiano, una volta mi ha detto che, dopo i primi tentativi di montaggio, Favolacce gli sembrava «il film il più brutto che avesse mai visto». Come si fa a non perdere la testa di fronte a una quantità così vasta di materiale, come nel caso di una serie tv?

Simone Bozzelli
Simone Bozzelli.

Damiano: La risposta che sto per dare potrebbe sembrare un po’ cialtrona, tuttavia non ci ho mai creduto tanto come in questo momento: scegliere un posto che senti tuo per montare è fondamentale. Ad esempio per America Latina eravamo di fronte ai Fori Imperiali, il posto che meno ci rappresentava al mondo. Nel caso di Dostoevskij abbiamo fatto tutto in un appartamentino sottoscala a Piazza Vittorio, quindi a un minuto da casa di Fabio e a sei minuti da casa mia. Il fatto che il posto fosse così mesto mi faceva sentire incredibilmente a mio agio. Mi ha permesso di uscire tutti i giorni a piedi, invece di prendere una stupida macchina. Mi ha permesso di vivere il montaggio come fosse il campo scuola a cui non sono mai andato da ragazzo. Per me è importante trovare un posto che somigli a quello che stai raccontando e a quello che sei tu. Questo ha reso il montaggio di Dostoevskij il più bello che abbia mai fatto, non in termini tecnici, ma in termini di esperienza vissuta. Ho passato una stagione meravigliosa, forse una delle stagioni più belle della mia vita lì con Walter Fasano (montatore), con Alessio Franco e con Leonardo Balestrieri (assistenti al montaggio).

Simone: Com’è il rapporto con gli altri registi della vostra generazione?

Damiano: Credo che nella nostra generazione ci sia un rapporto di scambio umano e di unità maggiore rispetto ad altre generazioni di registi. Questo è un concetto che esprimo spesso e in cui credo fermamente. Tuttavia le cose stanno cambiando, e con la massima sincerità ti dico che comprenderemo appieno questa trasformazione solo tra alcuni anni. Oggi, nel breve termine, la situazione può sembrare un po’ più semplice. Sono certo che quando tu, Alain (Parroni), Trash Secco e molti altri registi avrete successo, saremo davvero messi alla prova. È relativamente facile sentirsi uniti quando si detiene poco potere. Non vedo l’ora di vedere tutti noi al posto che meritiamo, non per sfruttare questa posizione, ma per aprire porte agli altri. Non vogliamo essere degli equilibristi costretti a mantenere l’equilibrio mentre realizziamo film in modo stanco e ripetitivo. Sarà proprio in quel momento che si potrà comprendere chiaramente come sia cambiata la rotta.

La versione completa di questo articolo è apparsa sul n. 45 di Fabrique du Cinéma. Abbonati qui per restare sempre aggiornato sulle novità del cinema italiano. 

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I Fabrique Awards celebrano i 10 anni con i nuovi talenti del cinema https://www.fabriqueducinema.it/festival/i-fabrique-awards-celebrano-i-10-anni-con-i-nuovi-talenti-del-cinema/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/i-fabrique-awards-celebrano-i-10-anni-con-i-nuovi-talenti-del-cinema/#respond Wed, 20 Nov 2024 16:17:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19431 Il 17 dicembre i Fabrique du Cinéma Awards celebreranno al cinema Nuovo Olimpia la loro decima edizione, confermando ancora una volta la loro instancabile vocazione a scoprire e valorizzare il cinema giovane e innovativo. Per l’anniversario del Premio è stato infatti scelto uno dei luoghi più rappresentativi per gli amanti del cinema sia romani che […]

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Il 17 dicembre i Fabrique du Cinéma Awards celebreranno al cinema Nuovo Olimpia la loro decima edizione, confermando ancora una volta la loro instancabile vocazione a scoprire e valorizzare il cinema giovane e innovativo. Per l’anniversario del Premio è stato infatti scelto uno dei luoghi più rappresentativi per gli amanti del cinema sia romani che expat, essendo stato il Nuovo Olimpia una delle prime sale italiane a proiettare i film in lingua originale. E già negli anni Sessanta i cinefili romani e stranieri frequentavano la sala nel centro di Roma, impreziosita dai  coloratissimi portali di ceramica dell’artista Giosetta Fioroni.

Dalla nona edizione (2023) nel Premio è stata introdotta una grande novità: per dare il segnale di quanto i Fabrique du Cinéma Awards credono nei suoi autori, il regista vincitore nella categoria Miglior Film Internazionale diventa il Presidente di Giuria del concorso successivo. Perciò, dopo il regista messicano José Luis Solís Olivares (2023), il Presidente di Giuria degli Awards 2024 è il cinese Zhengchao Xu, regista, sceneggiatore e scrittore. Il suo film A Woman, A Gun, And a Noodle Shop è stato in concorso al 60° Festival Internazionale del Cinema di Berlino e Sad Fairy Tale è stato in gara nella competizione principale al 36° Festival Internazionale del Cinema del Cairo. Il suo ultimo lungometraggio The Dry Fable ha vinto i Fabrique du Cinéma Awards 2023.

Al Presidente si affiancheranno gli altri membri della giuria: Salvatore De Mola, sceneggiatore premio David di Donatello (fra i suoi titoli Il commissario Montalbano, Vincenzo Malinconico, Makari),  Marco Pontecorvo regista (Per Elisa – Il caso Claps, Sempre al tuo fianco) e direttore della fotografia (Il trono di spade, Gigolò per caso), Lidia Vitale, attrice (Esterno notte, Ti mangio il cuore, Il primo giorno della mia vita), Roberto Giacobbo, conduttore e autore televisivo (Voyager, Freedom – Oltre il confine) e Renato Marengo, conduttore radiofonico, giornalista e produttore discografico (ideatore e promotore negli anni ’70 del movimento musicale Napule’s Power ha prodotto fra gli altri Edoardo Bennato, Teresa De Sio e Roberto De Simone).

La mission dei Fabrique du Cinéma Awards rimane quella che ha contraddistinto il Premio sin dalla nascita: promuovere la cinematografia italiana indipendente all’interno di una cornice internazionale. E di edizione in edizione i numeri crescono significativamente, un chiaro segnale dell’attrattiva generata da un concorso sempre più incisivo nel panorama audiovisivo italiano e mondiale. Quest’anno le opere iscritte sono state oltre 1300, a concorrere nelle 12 categorie del Premio.

CATEGORIE

Miglior Film Internazionale

Miglior Opera Prima Italiana

Miglior Opera Italiana Innovativa

Miglior Cortometraggio Italiano

Miglior Cortometraggio Internazionale

Miglior Attore

Miglior Attrice

Miglior Documentario Internazionale

Miglior Colonna Sonora Italiana

Miglior Serie Tv Italiana

Miglior Concept Di Serie

Miglior Sceneggiatura Di Cortometraggio

 

In collaborazione con: Rai Fiction

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100% Remotti: una mostra in occasione dei cento anni dalla nascita https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/100-remotti-una-mostra-in-occasione-dei-cento-anni-dalla-nascita/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/100-remotti-una-mostra-in-occasione-dei-cento-anni-dalla-nascita/#respond Fri, 15 Nov 2024 17:22:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19425 Remo Remotti: artista poliedrico, versatile pittore, scultore, attore, poeta. Il 16 Novembre 2024 avrebbe compiuto 100 anni. Sua figlia Federica Remotti e sua moglie Luisa Pistoia, lo festeggeranno ricordandolo con un evento privato dal titolo 100% REMOTTI presso Spazio Sette in Roma il 16 novembre dalle ore 18.30 con la partecipazione di tanti amici di […]

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Remo Remotti: artista poliedrico, versatile pittore, scultore, attore, poeta. Il 16 Novembre 2024 avrebbe compiuto 100 anni.

Sua figlia Federica Remotti e sua moglie Luisa Pistoia, lo festeggeranno ricordandolo con un evento privato dal titolo 100% REMOTTI presso Spazio Sette in Roma il 16 novembre dalle ore 18.30 con la partecipazione di tanti amici di Remo e della sua famiglia.

La mostra sarà aperta al pubblico con ingresso libero dal 17 Novembre al 1º Dicembre 2024 presso Spazio Sette a Roma (Via dei Barberi, 7).

 Dal 14 novembre è disponibile Me ne andavo da quella Roma…(reloaded), la nuova versione rimusicata della storica poesia di Remotti, con la Direzione Artistica di Tommaso “Piotta” Zanello, che è anche produttore e compositore insieme a Francesco Santalucia.

Molte le immagini di repertorio di Remotti nel videoclip, da Carlo Verdone – che a Remo Remotti, ha voluto rendere omaggio nella scena iniziale di “Vita da Carlo Terza Stagione” – a Carl Brave, Alessandro Mannarino, Valerio Mastandrea, Ditonellapiaga, Daniele Silvestri, Tommaso “Piotta” Zanello, Luca Barbarossa, Emanuela Fanelli.

Per questa occasione Einaudi Stile Libero ripubblicherà il libro Diario Segreto di un Sopravvissuto da cui verrà tratto l’Audiolibro letto da Vinicio Marchioni per Emons e verranno letti brani dal libro durante la serata evento 100% REMOTTI del 16 Novembre.

Sky Arte manderà in onda il 16 novembre alle 21 il documentario Ho Rubato la Marmellata-Vita di un artista politicamente scorretto di Gioia Magrini e Roberto Meddi (Vincitore del premio del pubblico all’Extra Doc Festival del Festival del Cinema di Roma 2018 e Menzione Speciale Documentari ai Nastri D’Argento 2019).

Saranno esposte inoltre alcune opere d’arte storiche dell’artista e una sezione di opere inedite a cura di Gianluca Marziani, critico di arti visive che ha curato anche le precedenti mostre al Macro e alla Galleria De Crescenzo & Viesti di Roma nonché a Berlino e a Lima.

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