L’eroe: l’impotenza del giornalismo secondo Cristiano Anania

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Un uomo esce di casa e attraversa le vie del suo paese, seguendo il percorso tracciato su dei post-it disseminati lungo il cammino. Compra del pane. Al ritorno, uno dei post-it vola via e l’uomo si ritrova a vagare senza ricordare più la via di casa. Stiamo parlando del protagonista di Pollicino, il bellissimo corto di Cristiano Anania che nel 2012 veniva candidato nella terzina finalista del Globo d’oro 2012. Sette anni dopo, ritroviamo nel suo esordio al lungometraggio, L’eroe, la stessa, desolante immobilità di un paese in cui sembrano essere scomparsi gli abitanti. È il paese (volutamente indefinito) in cui viene trasferito Giorgio, giornalista senza talento né più storie da raccontare.

In questo paese gli abitanti escono dalle case solo al momento dell’evento scatenante, evento che dà al grigio protagonista il pretesto per riscattare la sua carriera che sembra ormai agli sgoccioli: il sequestro di un bambino, nipote della ricca imprenditrice interpretata da Cristina Donadio. Ma ancor prima che un giallo, L’eroe vuole essere il racconto della crisi umana e professionale di un uomo, giornalista “in aspettativa”, scrittore di un romanzo che nessuno vuole pubblicare, differito dalla città in un non luogo in cui sembra non accadere niente e in cui il capo del giornale locale aspetta il suo arrivo addormentato sulla scrivania.

Timido e ingessato da cardigan e occhiali da secchione, il Giorgio di Salvatore Esposito è a prima vista la sottrazione di tutto ciò che dell’immagine del giornalista ci aveva proposto la narrazione d’inchiesta americana (pensiamo a classici come Tutti gli uomini del presidente o al recente The Post). Qui il giornalismo sembra impotente e arreso. Mediocre, perché incapace di interpretare una realtà inaridita dalla monotonia. Un paese (sia il piccolo che il grande) che non sa più proporre un racconto di sé e nel quale sono semmai i narratori a dover fornire trame avvincenti per il popolino. Ma a quale prezzo?

Anania, autore unico della sceneggiatura, prende a pretesto una piccola comunità per raccontare un Paese irrigidito da schemi e a stereotipi di cui non può più liberarsi. Il direttore del giornale (Paolo Sassanelli) è cinico e affamato di scandali da prima pagina – “Hai quarantotto ore per cagarmi i diamanti”, intima a Giorgio –, il matto del paese (Vincenzo Nemolato) è fragile, infantile e per questo facile oggetto della manipolazione dentro a schemi che non può comprendere, l’imprenditrice della Donadio è avara d’affetto e disposta a tutto per risollevare la sua azienda vinicola sull’orlo del fallimento.

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Il più grande difetto di un racconto che comunque riesce a delineare i suoi personaggi con grande nitidezza e a concentrare nel minimalismo della messinscena la metafora di un discorso politico sull’aridità degli organi d’informazione (che sono o famelici oppure sonnacchiosi), è che finisce per ridurre ogni sua componente ai minimi termini, senza mai prendersi dei sani rischi. Il film non abbandona mai il suo tentativo di voler essere metaforico ad ogni costo e questo svilisce la tensione di un bel plot. Osare un po’, soprattutto nella scrittura, avrebbe certo dato più spessore a un film in cui, dice Anania, la verità è diventata mera “induzione mediatica” per attirare audience e garantire così la sopravvivenza del protagonista.

Abbandonati le estremità dei loro personaggi in Gomorra (dove erano rispettivamente Genny Savastano e Scianel), Salvatore Esposito e Cristina Donadio si liberano ne L’eroe dai loro panni di tenebra (ma solo in parte) con una recitazione a briglia corta, mettendosi professionalmente al servizio di una sceneggiatura che offre loro poche sfumature caratteriali. Gli sviluppi di quello che resta un buon giallo vengono quindi irrigiditi nel corso del film da cliché che Anania poteva divertirsi a scardinare, pur restando all’interno di quel bel minimalismo di cui aveva già dato prova col suo muto e smemorato (anti)eroe che non sa ritrovare la via di casa.