Ladri di biciclette di Vittorio De Sica ha contribuito forse più di qualunque altra opera a mostrare l’Italia del dopoguerra, facendo innamorare il mondo del cinema italiano e influenzando intere generazioni di cineasti: secondo Billy Wilder il film era un capolavoro «da vedere in piedi con il cappello in mano», mentre Alfonso Cuarón lo cita come l’origine del suo amore per la settima arte, e come lui molti altri. Il film del 1948 è considerato tutt’ora una delle opere cinematografiche più importanti della storia del cinema e dal 4 febbraio torna in sala in versione restaurata, grazie alla Cineteca di Bologna.
Vittorio De Sica, Ladri di biciclette, lo produce, lo gira e in parte lo scrive anche, prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini, adattato con Cesare Zavattini. Del romanzo resta solo il titolo e la vicenda del furto di una bicicletta, ma la sceneggiatura regala al film quel pezzo fondamentale che nel libro manca: il bambino, la figura del figlio, il filtro puro sul mondo ingiusto, la bocca da sfamare ma anche qualcuno a cui dare il buon esempio (un forte richiamo a Il Monello di Charlie Chaplin). Questo rende intollerabile il doppio fallimento del protagonista e ne rende ancora più ingiusta la vicenda, chi ha rubato la bicicletta all’operaio gli ha tolto tutto: lavoro, dignità e mezzi.
Ladri di biciclette è una delle pietre miliari del neorealismo italiano, una parabola e allo stesso tempo una favola malinconica, in cui il plurale che sottende il titolo è cruciale: infatti si scopre che ci sono due ladri, uno all’inizio e un altro alla fine del film. Cosa sarà mai il furto di una bicicletta? Ma cosa diventa se quel mezzo è essenziale per il sostentamento di un’intera famiglia?
Ladri di biciclette racconta la disavventura di Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), un attacchino di manifesti cinematografici. Mentre l’uomo incolla il manifesto di Gilda, qualcuno gli ruba la bicicletta e se non la trova rischia il licenziamento, così inizia la ricerca insieme al figlio Bruno (Enzo Staiola). Antonio le tenta tutte, compresa la visita a una medium e, alla fine del film, ormai disperato tenta di rubarne una, ma viene fermato e rischia l’arresto. Lo salva l’intervento del piccolo Bruno che riesce a commuovere la folla. Il lungometraggio si conclude con l’immagine dell’operaio e del figlio che si tengono la mano per le strade di Roma.
De Sica e Zavattini, per cogliere al meglio la quotidianità romana, fecero lunghi vagabondaggi che li portarono poi attraverso quelle che sarebbero diventate le scene del film. Era l’unico modo per cogliere la realtà in modo che fosse poi replicabile nell’opera, per questo Vittorio De Sica non gira nessuna scena in teatro di posa e recluta soprattutto attori non professionisti. Se trovare delle location meno note non si rivela complicato, reclutare gli attori adatti è tutt’altro che semplice: durante i casting per i bambini, trova per caso l’uomo perfetto per interpretare Antonio, Lamberto Maggiorani, un operaio. Enzo Staiola, invece, compare per caso a riprese iniziate, ed è perfetto per interpretare Bruno, mentre gli altri bambini risultavano troppo «bellini, romantici, lisciati o incapaci». Dopotutto De Sica cerca l’autenticità, non un bambino ricco coperto di stracci ma uno venuto dalla strada, che portasse addosso non un costume di scena ma la vita.
Il film, girato tra il giugno e l’agosto del 1948 esce il 24 novembre dello stesso anno e si rivela un disastro commerciale: In Italia resta pochissimo in sala e il pubblico, abituato al cinema dei telefoni bianchi e alle opere leggere hollywoodiane, lo detesta. Le persone non erano ancora pronte a osservare in maniera critica la propria miseria. Al contrario, all’estero la pellicola viene riconosciuta all’istante come un capolavoro e Ladri di biciclette vince nel 1950 l’Oscar Onorario come miglior film straniero.
Le scene indimenticabili del film sono davvero tante: da quella in cui Sergio Leone fa una piccola apparizione come seminarista straniero, mentre Antonio e Bruno vengono sorpresi da un temporale a Porta Portese, a quella tra padre e figlio quando i due vanno a mangiare insieme una pizza (ma poi gli portano la mozzarella in carrozza) – che per noi è normalissimo mentre per loro era un momento eccezionale e rarissimo – e Antonio dice a Bruno «mangia va, che a tutto si rimedia… a tutto, tranne che alla morte».
Il capolavoro di Vittorio De Sica è un film sull’isolamento, sulla solitudine di un piccolo uomo su cui pesa il destino familiare in un mondo in rovina, ma è anche la storia del legame tra un padre e un figlio. La commedia e la tragedia della vita quotidiana si incontrano. «Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso nella piccola cronaca, considerata dai più come materia consunta» dichiara Vittorio De Sica. Proprio da questa idea, porta sul grande schermo la vita vera, l’umiliazione e un’umanità fragile e disincantata ma non priva di magia o di bellezza. Quindi, parafrasando Antonio: andate al cinema va, che a tutto si rimedia…