Carlo Verdone sta cambiando. È inevitabile ravvisare sin dai primi minuti di L’abbiamo fatta grossa una maggiore attenzione alla messa in scena se confrontata con quella degli ultimi lavori del regista romano. Il film comincia, infatti, con un interessante stratagemma tecnico, sicuramente già visto, ma pur sempre efficace: ci sembra di star vivendo una scena domestica ma poi, con una carrellata all’indietro, la macchina da presa ci svela che in realtà siamo su un palcoscenico teatrale.
È l’intelligente soluzione adottata per introdurci il personaggio di Yuri Pelagatti (Albanese), attore con problemi di memoria che si rivolgerà all’investigatore Arturo Merlino (Verdone) per far seguire la moglie che lo ha appena lasciato. Le cose ovviamente non andranno come previsto, perché si innescherà una serie di equivoci che porteranno i due protagonisti a venire in possesso di una valigetta dal preziosissimo contenuto, con tutte le possibili conseguenze che questo comporta.
Il film, così, procede seguendo due binari. Il primo, più evidente, si appoggia a un meccanismo da buddy comedy, basato sul contrasto tra i due componenti di questa “strana coppia” e attraversa situazioni in parte già trovate in altri film di Verdone. Tutte le scene, ad esempio, che riguardano l’anziana zia dell’investigatore, tra le più divertenti del film, e anche un altro paio che hanno protagonista una simpatica vecchietta, ricordano una sequenza di Posti in piedi in paradiso. Va detto però che il contrasto caratteriale che dovrebbe essere alla base del funzionamento del duo comico in alcuni momenti è riuscito, in altri meno, anche a causa della forte somiglianza fisica tra Verdone e Albanese.
Passiamo al secondo binario seguito dal film, quello più nascosto. La comicità di Verdone ha sempre avuto un interessante sostrato malinconico, che Sorrentino ha saputo cogliere e usare proficuamente ne La grande bellezza: non è un caso che più di una volta nelle sue ultime produzioni il nostro Carlo si riservi l’epilogo del film per aprirsi a una parte di se stesso che ci piacerebbe esplorasse di più. È come se per i tre quarti del racconto si sentisse obbligato ad adattarsi all’icona che è diventato, dando al pubblico quello che si aspetta, cioè una commedia che faccia ridere, per poi permettersi soltanto alla fine di cedere completamente alla sua malinconia. In questo film, però, la vena pensosa di cui abbiamo parlato, sottolineata in certe situazioni da una dolce partitura musicale, è così presente e ribelle che contamina anche tutto il resto del film.
Si avverte, insomma, il desiderio sempre più intenso di Verdone, dovuto anche all’avanzare dell’età, e probabilmente incoraggiato dall’incontro impegnato con Sorrentino, di realizzare finalmente un film più maturo, sempre più vicino alla commedia sofisticata.
I due binari però rischiano di stridere tra loro e l’equilibrio può rompersi da un momento all’altro.
L’abbiamo fatta grossa raggiunge il suo punto più alto quando, alla fine, Verdone si libera dall’esigenza di riproporre se stesso, e ci regala un finale da vera commedia all’italiana, all’insegna della strafottente rivincita degli ultimi sui corrotti e gli arraffoni, lasciandoci con la convinzione che se tutto il film avesse seguito quest’unica linea tragicomica ne sarebbe venuto fuori qualcosa di sorprendente.
È molto probabile che dopo quest’ultimo lungometraggio l’attore-regista romano si lascerà andare per costruire un’opera diversissima dalle precedenti, e non dovremo stupirci se nel giro di qualche anno ci troveremo di fronte alla prima commedia non pura di Carlo Verdone, condita da quel riso amaro, più amaro che mai, che ha fatto davvero la differenza nel nostro grande cinema.