In Italia è arrivato il momento di sperimentare, o meglio, è arrivato il momento in cui le produzioni e le distribuzioni italiane hanno deciso di legittimare e far accedere al circuito mainstream i film di genere, film di registi che, evidentemente, si sono formati guardando altrove, guardando videoclip, film d’azione, film americani, film della Hollywood degli anni ’80: Spielberg, Lucas, Cameron, Howard. I capolavori del nuovo cinema. Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e prima di Monolith c’è Veloce come il vento.
L’avvento di tre film davvero poco italiani, direbbe Stanis La Rochelle. Eppure questo «in realtà è un film italianissimo, dialettale! Le macchine da corsa, poi, sono il racconto di un’eccellenza nostrana. Anche culturalmente questo è un film molto nostro… è che fino ad ora c’è stata una reticenza, quasi una paura, dei produttori nel fare un action movie», per dirlo con le parole del regista. Matteo Rovere (Un gioco da ragazze, 2008 e Gli Sfiorati, 2011) sceglie infatti un mondo tutto italiano che però, in Italia non si è quasi mai esplorato: le corse automobilistiche.
Liberamente ispirato a una vita vera, quella di Carlo Capone, pilota di rally, il film ci racconta la storia di Giulia De Martino, figlia di una tradizione di meccanici e piloti con la passione per l’alta velocità, alle prese con una famiglia che cade a pezzi e con il ritorno del fratello maggiore, tossico, ex astro nascente del rally, che sarà per lei la crisi definitiva. Sarà Loris infatti (un tormentato Stefano Accorsi che finalmente dimette i panni dell’attore impegnato e à la page per rispolverare la sincerità dei suoi primi ruoli, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, 1996, Radiofreccia, 1998) a farle capire che le curve non si possono fare tonde, vanno “tagliate”, in pista come nella vita, che “se hai tutto sotto controllo vuol dire che non vai abbastanza veloce”, che se non si è disposti a correre dei rischi non vale neanche la pena di mettersi in gioco.Veloce come il vento è, infatti, un film che va molto al di là del suo genere che, in questo caso, «è solo un vestito per raccontare altre cose»; si va al di là della pista da corsa, in una storia che affronta individui a confronto con la responsabilità, la redenzione, il rispetto e le rivincite, sia personali che familiari.
Il film di Matteo Rovere è un salto in avanti per quella produzione italiana che aspira a inserirsi in un discorso internazionale, non solo per il buon livello tecnico del lavoro e per la sua estetica, ma anche nell’affrontare in maniera (finalmente!) sinceramente onesta una questione molto importante e di moda nelle discussioni degli ultimi tempi, accademiche e non: la parità di genere. Giulia è una pilota, senza che nessuno le dica che “questo è un lavoro da uomini”, è una meccanica, senza per questo essere meno donna. Giulia ha i capelli rasati di lato e tinti di blu ma va alle feste indossando vestito, tacchi e rossetto. Non affronta le cose a testa alta, da maschio, né porta orgogliosamente i tacchi e i capelli corti, Giulia è naturalmente e sinceramente umana.
Questo grazie a una scrittura notevole (merito dello stesso regista in collaborazione con Filippo Gravino e Francesca Manieri) che costruisce un personaggio femminile in un mondo esclusivamente maschile senza per questo problematizzarne la femminilità e tantomeno metterla in discussione. Non perché non sia interessante riconoscere la polarizzazione di maschile e femminile ma perché, forse, è giunto il momento di accettare serenamente che si può rimanere se stessi senza sentirsi in dovere di adeguarsi al mondo di riferimento. «Calo gli individui nelle storie e nei mondi senza chiedermi se siano uomini o donne, in questo senso credo di aver fatto un film gender fluid» sintetizza efficacemente il regista. Tra i molti pregi del film va riconosciuto un lavoro di produzione non consueto per il cinema italiano che generalmente, se si ingegna così tanto è per grandiose ricostruzioni storiche (Baarìa, 2009).
Le scene d’azione sono reali, nel senso che sono girate davvero, tra circuiti di Monza, Vallelunga e Imola, e nel senso che sono intense, trascinando lo spettatore dritto nel circuito, col fiato sospeso e il battito accelerato. Questo perché l’ispirazione viene, racconta Rovere, «da quegli action movie europei tipo Ronin, che fin da piccolo mi hanno fatto vedere scene d’azione reali, con poca finzione, pochi effetti digitali, in questo il film è quasi analogico», costruite «ragionando tra noi con la troupe, organizzandoci per divertirci un po’ e cercare di fare qualcosa di nuovo», cosa che effettivamente hanno fatto. Per realizzare le scene di corsa, sia quelle su pista che quelle nel centro urbano, hanno ideato e costruito un mezzo ad hoc: la fast car. Veloce come il vento è un film che, speriamo, sia il segnale che un altro cinema è veramente possibile, senza fare sempre rima con trafile produttive infinite o, peggio, autoproduzione.