“Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto l’arduo compito di chiudere fuori concorso la rassegna di pellicole tricolore che tra la Selezione Ufficiale, le Giornate degli Autori, Orizzonti e la Settimana Internazionale della Critica hanno riccamente popolato gli schermi del Lido veneziano.
Orchestrato come un gioco di scatole cinesi, la nuova fatica di Roberto Andò è un’opera meta-filmica, che racconta senza prendersi sul serio il mondo che si nasconde dietro l’industria cinematografica italiana. La protagonista Valeria è la segretaria di un produttore e arrotonda il misero stipendio scrivendo segretamente per Alessandro, celebre sceneggiatore nonché suo grande amore. La vita della giovane è totalmente sconvolta quando un misterioso uomo la contatta, invitandola a vedersi per discutere di una storia che lui vorrebbe che scrivesse. Impaurita ma anche incuriosita, Valeria decide dare appuntamento all’interlocutore, senza sapere che quello sarà solo l’inizio di un’avventura ai limiti del possibile.
Prodotto leggero e pensato per il grande pubblico, Una storia senza nome (qui il trailer ufficiale) è un film sicuramente azzardato e rischioso, che tenta di divertire sia nella storia raccontata, sia nei toni della messa in scena. La narrazione non è anzitutto prettamente lineare, dato che alterna momenti al presente, flashback in bianco e nero e sequenze meta-cinematografiche. Sebbene questo ibridismo non provochi confusione, le parti realistiche non possono sempre essere definite tali, perché elementi involontariamente inverosimili puntellano il succedersi degli eventi, lasciando trasparire l’assenza di una struttura narrativa forte. I caratteri tipici della commedia non bastano per salvare le sequenze più illogiche, che spesso si concludono con risoluzioni sbrigative o inconsistenti.
Anche la caratterizzazione dei protagonisti è volutamente limitata: preferendo ragionare sui personaggi in quanto maschere (come ad esempio l’ingenua, la sgualdrina, l’egocentrico, ecc.), Andò non desidera dipingere figure a tutto tondo. Ciò riecheggia la bidimensionalità tipica della tradizione teatrale italiana, che oggi però appare innegabilmente anacronistica. In questo micro-cosmo quasi parodistico, si muovono Micaela Ramazzotti, ormai legata al ruolo dell’eroina un po’ naif, e Alessandro Gassmann, inguaribile playboy propenso alla truffa. A rubare la scena sono tuttavia altri due bravi interpreti del cinema italiano, che qui vestono i panni rispettivamente dell’enigmatico detective e della madre impicciona: il primo è Renato Carpentieri, premiato agli ultimi David di Donatello grazie a La tenerezza di Gianni Amelio, mentre la seconda è Laura Morante, vista al Lido anche con La profezia dell’Armadillo.
Tornando a quanto detto all’inizio, la messa in scena e il conseguente montaggio possono invece essere considerati il secondo azzardo del progetto. Proprio a causa del già citato intreccio tra sogno e realtà, la linea narrativa si caratterizza infatti di toni differenti a seconda del momento, che spesso però appaiono eccessivamente artificiosi. Anche le sequenze del quotidiano non si caricano di uno sguardo autoriale realmente preciso, provocando un senso di anonimia rappresentativa. Da contro, Andò riesce a orchestrare il ritmo in modo estremamente coinvolgente, permettono allo spettatore di seguire con interesse la storia. L’intrattenimento del pubblico sembra dunque essere lo scopo principale di quest’ultima fatica firmata dal regista palermitano che, nonostante gli innegabili problemi, riesce a divertire e a coinvolgere chiunque la guardi.