Dopo il successo ottenuto su YouTube con le loro pillole di saggezza post adolescenziali, Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi Di Capua adattano il format al grande schermo perdendo, però, in efficacia.
In una realtà cinematografica italiana, che lamenta l’assenza di produttori coraggiosi e visionari, Pietro Valsecchi rappresenta la classica eccezione che conferma la regola. Il suo stile personale, infatti, è quello di scommettere in modo particolare sui giovani talenti e su dei linguaggi nati in luoghi diversi dal sancta sanctorum della sala cinematografica. Stiamo parlando, in particolare, di canali televisivi giovani, come MTV, trasmissioni comiche e il web. Da qui il doppio esperimento de I soliti idioti, il successo al box office di Zalone con Quo vado e l’ultima scoperta di Valsecchi, ossia i tre ragazzi di The Pills, fenomeno di YouTube pronto ad esordire al cinema dal 21 gennaio con il lungometraggio The Pills – Sempre meglio che lavorare, diretto da Luca Vecchi e distribuito da Medusa (in cui compare fra l’altro anche Margherita Vicario, cover del numero 2 di Fabrique).
Ma chi sono esattamente questi The Pills? Al secolo rispondono al nome di Luca Vecchi, Matteo Corradini e Luigi Di Capua, ossia tre ragazzi con il merito di aver raccontato in pillole di comicità romana, il “fancazzismo” consapevole e orgoglioso di una generazione di trentenni saldamente ancorata all’immobilismo post adolescenziale. Così, con un format dalla scenografia essenziale, in cui la fa da padrone esclusivamente un tavolo da cucina, e la scelta stilistica del bianco e nero, i tre sono diventati il nuovo caso del web, conquistando con la loro comicità “neorealista” il pubblico di YouTube e quello televisivo di Italia 1 nel late night show Non ce la faremo mai.
A questo punto il passaggio da Internet al grande schermo è inevitabile, ma i rischi di snaturare il prodotto iniziale sono dietro l’angolo. Infatti, come successo per I soliti idioti, le cui pillole non hanno retto alla lunghezza narrativa di un film, anche The Pills soffre dello stesso problema, vedendo ridimensionato l’effetto innovativo del progetto da un linguaggio più tradizionale che, molto semplicemente, non si adatta alla loro natura. Il fatto è che di Capotonda e Pif, in grado di fare il salto di qualità o di adattarsi a più realtà narrative, non ce ne sono poi molti.
Così, nonostante il modo creativo con cui Vecchi utilizza la macchina da presa e alcune idee vincenti, come l’ironia sui trentenni e gli adolescenti nevrotici di Muccino, Gabriele e Silvio, e il lavoro concepito come unica sostanza proibita con cui sballare, l’avventura cinematografica di questi tre bambinoni si chiude fin troppo prevedibilmente con la consapevolezza di dover cercare ognuno la “propria cicorietta”, ossia quel piatto detestato da piccoli e, poi, improvvisamente apprezzato da adulti.
Tanto per dire che crescere, in fondo, è una questione di gusto.