Comincia come una puntata di “Gomorra” e finisce come “Il cavaliere oscuro”. Un connubio impossibile? No, se si ha il coraggio di osare e offrire al pubblico una storia avvincente, vecchia e nuova allo stesso tempo, capace di far dimenticare e perdonare un po’ di quella artigianalità che inevitabilmente sostituisce i budget a otto zeri dei film di Hollywood.
Con una premessa del genere stiamo parlando ovviamente di Lo chiamavano Jeeg Robot, sorprendente opera prima di Gabriele Mainetti da oggi nelle sale, che vede Claudio Santamaria nei panni di un supereroe con tutti i crismi. Un piccolo criminale della periferia romana che entra per caso in possesso di doti sovraumane e all’inizio non sa cosa farsene, se non rapinare banche per continuare a vivere nella sua topaia. Questo almeno finché sul suo cammino non incontra Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza instabile e naïve, convinta che lui sia realmente un supereroe come quello del suo cartone animato preferito, Jeeg Robot d’Acciaio, e che il suo dono possa fare del bene a tanti, a partire proprio dal suo cuore irrigidito da anni di miseria e degrado.
Su Fabrique non potevamo perdere l’occasione di parlare di un esordio così insolito, tanto che al regista abbiamo dedicato una lunga intervista in uscita sul prossimo numero di marzo. Ma una scommessa di tale portata merita qualche parola anche in occasione del suo arrivo sul grande schermo, trattandosi di un esperimento che il nostro cinema non faceva da tempo immemorabile, o almeno non in modo convincente. Mainetti ha è riuscito infatti a rimescolare tutti i generi di cui i nostri occhi si sono nutriti negli ultimi anni, ma allo stesso tempo con la capacità di personalizzare ogni dettaglio con un’impronta nuova e profondamente radicata nella realtà.
Jeeg ricorda i primi cinecomic americani, quelli più genuini, da Batman Begins allo Spiderman di Sam Raimi, e grazie a una scrittura oculata accompagna lo spettatore alla scoperta della storia del supereroe per caso Enzo Ceccotti, riesce a farci immaginare il suo pesante background senza bisogno di psicologismi e grandi spiegoni. Lo stesso vale per il personaggio di Alessia e del cattivo, perfettamente impersonato da un grande Luca Marinelli (che fosse un ottimo attore lo sapevamo da La solitudine dei numeri primi, ma qui nessun dubbio è ormai possibile): tutti i profili sono caratterizzati non solo attraverso l’esposizione del loro passato ma da piccoli particolari che ce li fanno comprendere in modo istintivo e li rendono vivi, palpabili e coinvolgenti. I DVD porno nella casa del supereroe, gli acquisti infantili, la passione per la musica nazionalpopolare trash dell’antagonista (ma dov’è che lo avevamo già visto? Ah sì… Inizia con la B…). Nonostante la lunga durata, quasi nessun elemento del film è inessenziale; appare solo poco efficace il tentativo in sottofondo di parlare di uno Stato ostaggio delle mafie e di una cittadinanza in preda al terrore, ma visto l’epoca storica forse anche questo piccolo excursus non è poi così fuori luogo.
Quando abbiamo incontrato Claudio Santamaria, in occasione della presentazione del film alla stampa, ci ha descritto il personaggio come: «Un uomo chiuso in se stesso, lontano dagli altri, che si considera una nullità, un perdente, e che vede il mondo come una massa indistinta di corpi che gli ruotano intorno, di persone tutte uguali che per lui non hanno nessun valore. Solo il personaggio di Alessia, nonostante l’immensa ferita interna che porta con sé, gli fa vedere che il mondo non è un unico blocco di persone tutte grigie, che ci sono dei colori e che tutti hanno una storia personale che vale la pena di conoscere e probabilmente anche di aiutare. Lo riapre alla vita, gli fa toccare qualcosa di intimo, di profondo, capace di fargli riscoprire la bellezza di stare con gli altri».
In poche parole un viaggio di rinascita dalla rassegnazione verso la speranza di un futuro possibile, non solo e non tanto per se stessi ma per tutto il mondo circostante. Un tema vecchio come il mondo ma sempre attuale, al centro di tanti film più “grandi” che hanno tentato di incarnare questo spirito del nostro tempo, come Kingsmen o Interstellar o appunto i Batman di Nolan. E come direbbe il buon Wayne, insomma, Jeeg Robot non è forse l’eroe che il nostro cinema si merita, ma quello di cui il nostro cinema aveva bisogno.