Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs.
Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da diversi anni a Bobbio, era dai tempi di Vincere (2009) che Marco Bellocchio non dirigeva un film davvero convincente e al livello della sua produzione dei primi anni duemila (L’ora di religione, 2002; Buongiorno, notte; 2003; Il regista di matrimoni; 2006).
Gli ultimi due suoi lavori Bella addormentata (2012) e il recente Sangue del mio sangue (2015) infatti, entrambi presentati in concorso al Festival di Venezia, per motivi e in misure differenti non erano risultati riusciti. Se il primo, pur potendo contare su dei buoni momenti, si caratterizzava per uno squilibrio tra le diverse linee narrative, il secondo era stato addirittura una vera e propria delusione, dividendosi in due macro-parti troppo lontane tra loro e in particolare con una seconda metà esplicitamente farsesca ben poco ispirata, forzata e troppo sopra le righe.
Con Fai bei sogni però, a sette anni di distanza dal potente e stilisticamente assai affascinante Vincere, Marco Bellocchio si è ritrovato. E piuttosto sorprendentemente lo ha fatto adattando l’omonimo best-seller autobiografico del 2012 di Massimo Gramellini, in cui il noto giornalista ha raccontato la propria vita e il lungo percorso che lo ha condotto ad affrontare il passato, la perdita della madre avvenuta quando era bambino e la verità su quel traumatico accadimento, scoperta solo in età adulta.
Pur rimanendo fedele al romanzo, il settantaseienne autore bobbiese ha modificato la struttura temporale del racconto originale (il cui cuore è rappresentato da un unico lungo flashback), affidandosi a numerosi salti in avanti e indietro nel tempo al fine di mostrare sul grande schermo i traumi infantili del protagonista e le difficoltà da adulto ad essi connessi con notevole pathos.
La forza di Fai bei sogni sta in primis nel riuscire a mettere in campo, ad ogni istante, uno sguardo sincero e vivo. Tra i momenti del passato in cui Massimo è bambino colpiscono ad esempio alcune immagini attraverso le quali viene restituito con tatto e semplicità il mondo della fanciullezza: il gioco con le dita della mani che simulano il movimento delle gambe a scuola, la raccolta delle molliche con un coltello mentre è a tavola con il padre, i salti sul divano per imitare i tuffi dal trampolino che sta vedendo in tv. Molto intensi sono poi alcuni momenti della vita da adulto, come quelli che lo vedono protagonista insieme alla dottoressa di cui si innamora (si pensi al bizzarro incontro in ospedale dopo l’attacco di panico e alla bella scena in piscina) o nel caso dell’incontro notturno rivelatore con la zia anziana.
In questo contesto, Bellocchio è anche molto abile ad evitare il ricorso a ogni tipo di retorica. Persino uno dei momenti da questo punto di vista più a rischio, in cui Piera Degli Esposti appare in un cameo, viene infine stemperato da una efficace battuta in grado di conferire alla scena un tono ironico e completamente diverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare.
Nonostante alcuni passaggi narrativi possano risultare un po’ troppo veloci e non particolarmente approfonditi, dunque, Fai bei sogni non ha mai cali di ritmo per le oltre due ore di durata, si avvale di un ottimo cast (dal giovanissimo Nicolò Cabras a Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, passando per Guido Caprino e Barbara Ronchi) e rappresenta un convincente ritorno dietro la macchina da presa per uno dei registi più importanti del panorama cinematografico italiano.