Lorenzo Tardella, classe 1992, è un giovane regista di Narni, Umbria, studente presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Il suo ultimo lavoro è Edo, presentato a Visioni Italiane (Cineteca di Bologna) e vincitore nell’ultima edizione dell’Umbria Film Festival. Una storia sulla fine dell’estate e sulla fine dell’infanzia, interrotta dalla scoperta accidentale di un “segreto da grandi”, con il quale il protagonista deve confrontarsi da solo, nel buio di una proiezione di diapositive. Il percorso di Lorenzo ci restituisce una testa pensante, un pensiero vivace e, soprattutto, una poetica personale già riconoscibile, sebbene in continua evoluzione.
Partendo da qui ti chiedo: a che punto siamo? Verso dove si è mosso il tuo lavoro?
Si è mosso verso Edo, la semplicità e l’essenzialità. Verso la volontà di raccontare l’inizio della fine, la caduta del primo petalo di rosa, la fine dell’estate, il crinale che porta alla fine dell’infanzia. E di farlo tramite un “corto fatto in casa”, girato dalle mie parti, in una casa che conosco molto bene e con un gruppo di lavoro composto da amici più che collaboratori.
Com’è nato e da dove è nato Edo?
E’ nato da un intenso autobombardamento estivo di cose a me care (film, libri, canzoni e fotografie). Sapevo di starmi muovendo verso un territorio che aveva a che fare con l’infanzia e con il passaggio che porta al mondo dell’adolescenza e lo volevo raccontare con un qualcosa di “piccolo” e che fosse in tempo reale.
Come hai trovato il tuo protagonista e cosa il suo personaggio rappresenta per te?
Ho trovato Luca facendo un casting in una scuola media umbra. Ho scelto lui perché l’ho trovato nella posizione perfetta: ancora profondamente bambino, ma con addosso dei segni che mi davano l’impressione potesse capire quello di cui il corto parla. Per quanto riguarda invece il suo personaggio, è stato un modo per rivivere, da un altro punto di vista, il passaggio che avevo già vissuto. Una finestra per riscoprire il bambino che ho dentro di me e che disperatamente ricerco quando racconto qualcosa. Quando si racconta qualcosa si racconta sempre se stessi.
Nella scelta dell’uso delle diapositive l’elemento del cinema nel cinema, me ne puoi parlare?
Mi piaceva l’idea di proporre un metaracconto. La questione delle diapositive è stata chiara dall’inizio, sono state loro a portarsi dietro tutto il resto. Ma è soprattutto l’evento della proiezione che trovavo interessante: ti obbliga a chiuderti in camera e a prestare attenzione a quello che vedi. Un rito che volevo raccontare.
I tuoi punti di riferimento sono più nella parte visiva o nel tema dei tuoi lavori?
Prima di iniziare ad immaginare come voler raccontare una storia, devi conoscerla a fondo e, per quanto mi riguarda, non credo ci siano molti modi per raccontare una storia, la sfida semmai è trovare quello più giusto. La verità è che quando è nata questa storia non è stato mai un mio cruccio l’elaborazione della parte visiva. Non sono ossessionato dalle geometrie o dai movimenti di macchina. Ho curato invece molto l’atmosfera: mi interessava trovare il posto giusto, il mood giusto, i torni, i colori, gli arredi e così via. Volevo restituire al pubblico le sensazioni che la casa mi aveva fatto percepire ogni volta che mi sono mosso al suo interno.
Ti trovi a tuo agio con il formato del corto o senti la necessità di cambiare?
Dipende dalle storie, ce ne sono alcune che hanno respiri da corto, mentre altre esigono un minutaggio maggiore. Il prossimo corto sarà anch’esso in tempo reale, ma mi sarebbe molto piaciuto avere un respiro più lungo per potermi soffermare sulle backstories di tutti i personaggi, importanti ai fini del risultato finale. Comunque il corto per ora mi rimane una culla comoda, anche perché la sintesi fa un po’ parte del mio modo di pensare, anche se prima o poi bisognerà emanciparsi e pensare un po’ più “in lungo”.