La famiglia è cosa sacra, ma guai a cambiarne gli equilibri
Questo è ciò che sembrano dirci in diversi modi tre dei film al loro primo weekend di sala. Charlize Theron interpreta una donna incinta già madre di due bambini, di cui uno problematico. Il neonato appena arrivato, il marito assente, il fratello ricco e strafottente più i problemi scolastici verranno magicamente arginati da una babysitter notturna quasi fatata. Ma con gli sterzi improvvisi della vita non si sa mai. Con Tully viene disegnata una donna comune alle prese con gli impercettibili e insuperabili problemi di ogni madre. Come un felice marchio di fabbrica, le battute infiorettate di Diablo Cody donano fragranza e valore aggiunto a una sceneggiatura ricca di risvolti umani.
Quest’ottimo melò estivo con il DNA da indie movie ma nato sotto l’aura di Universal nella regia di Jason Raitman ambisce a qualcosa di più del box office, ma a rimanere a lungo nel cuore degli spettatori come un condensato di emozioni di vita vera esaltato dall’immersione totale della Theron nel suo personaggio. I suoi duetti con la babysitter angelica Mackenzie Davis mettono dinnanzi due generazioni di donne molto vicine ma profondamente diverse, e la vivacità di questa coppia sgrullerà sicuramente l’estate dal torpore artistico dovuto a tanto cinema di esclusivo intrattenimento. Insomma, finalmente grande qualità anche nella bella stagione.
Dopo il satirico e destabilizzante The Lobster, il regista greco Yorgos Lanthimos prende a tiro un altro animale, ironia della sorte, ottimo a tavola. Il sacrificio del cervo sacro però è soltanto un titolo metaforico che nasconde il succo acido di questo affresco morale su fallibilità, vendetta e sul prezzo da pagare per le proprie colpe. Un famoso cardiologo interpretato dal Colin Farrell meno sex symbol di sempre viene irretito tra la malattia improvvisa e inconoscibile dei due figli e la frequentazione con un adolescente enigmatico. Ci mette lo zampino la madre vogliosa del ragazzo, interpretata dall’ex starlette anni ’90 Alicia Silverstone (con anni ed esperienza ha assunto figura e ventaglio emotivo interessanti), ma ogni decisione del protagonista peserà anche sulle spalle nobili di Nicole Kidman, in questo caso moglie di Farrell.
Sarà che Lanthimos guarda spesso la Kidman come faceva Kubrick in Eyes Wide Shut, saranno certe inquadrature, come quelle del ricevimento, à la Shining e tante altre piccole citazioni disseminate qua e là, ma l’impianto visivo, seppur estremamente dinamico e giocoso con gli spazi e le distanze a rendere più voluminosa la drammatizzazione famigliare, non ci distoglie da una storia con alcuni punti irrisolti e personaggi abbandonati. In più, diluita in un minutaggio sovrabbondante. Eppure, ha vinto a Cannes per la migliore sceneggiatura. Un Cervo magari bello da guardare, ma un po’ vuoto per amarlo.
Quando si dice Islanda ormai si pensa a nazionali di calcio fracassone, fiordi, grandi spazi verdi e ghiacci. Invece L’albero del vicino ci fa entrare in un quartiere residenziale di una città placida che potrebbe essere anche in molti altri posti nell’emisfero boreale. È un’estate tiepida, nordica e dalla solarità che non spacca le pietre. Filtrata solo dalle foglie verdi di quest’albero della discordia che mette una contro l’altra due coppie di vicini. Intanto la famiglia del figlio si frantuma per un tradimento poco edificante. Piccoli dispetti irritanti lievitano in ripicche e faide tra mogli e mariti mentre un padre donnaiolo viene messo alla porta.
Il tutto sembra proprio un’operetta morale sulla borghesia occidentale contemporanea. L’istituzione famiglia non esce bene da questo racconto satirico e di cattiveria pungente sui lati umani più oscuri: invidia, sospetto e sadismo. Era il titolo selezionato dall’Islanda per competere alla candidatura come miglior film straniero per gli Oscar di quest’anno. Scartato come il nostro A Ciambra, è un piccolo almanacco di malvagità domestiche l’ultimo lavoro di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, regista carico di attenzione narrativa quanto formale. E il suo cast gira come un orologio rendendo ogni scena appassionante.
Veniamo al remake che di familiare ha molto con il grande cinema del passato, ma ne è figlio con più aspirazioni che pregi. Si tratta di Papillon, la nuova versione del cult carcerario di Franklin Shaffner. Correva l’anno 1974, ma le cose son cambiate. Michael Noer e la sua regia ammodernata regalano più action e scazzottate, alcune aperture a punti di vista scenici, ma non inventa nulla di nuovo che valga la pena di confrontare col passato o lanciare felicemente nel futuro. Dal passato ci guardano quei giganti di Steve McQueen e Dustin Hoffman, icone di ieri e di oggi. I loro omologhi Charlie Hunnam e Rami Malek s’industriano. Bravi e incolpevoli cambiano fisicamente, dimostrano il loro valore ma soffrono per una regia anonima e un progetto debole di nuove idee, se non quella di trattare il film come un biopic, con tanto di foto reali alla fine. Che non sveleremo.
Senza il confronto con un passato così altisonante sarebbe stato un filmotto estivo come tanti (due ore suonate di durata, ma nulla contro i 148 minuti epocali dell’originale). Dalla claustrofobia ansiogena del primo film si passa alla noia costante per un remake scialbo che sequestra lo spettatore in una sala che potrebbe diventare, nel peggiore dei casi, la vostra Isola del Diavolo. Pensarlo come un musical alla Luhrmann, o, vista la presenza di Hunnam ex-King Arthur, come rielaborazione ipercinetica per un certo Guy Ritchie sarebbero state scommesse, rivoluzioni, ma anche tentativo di uscire da un passato così severo. Si è optato invece per il prodotto lineare e pedissequo. Chissà quanto i giovani si accorgeranno di questo polpettone carcerario evitandone il flop. E chissà cosa ne penserà Hoffman.