«Questa è la storia di un virus». È così che inizia State a casa, il nuovo film di Roan Johnson in uscita nelle sale a partire dal 1° luglio. Ed è immediatamente chiaro dove il nuovo lavoro del regista vuole andarsi a collocare, nel solco di un cinema da pandemia che negli scorsi mesi ha goduto già di una nutrita schiera di esponenti per tutti i gusti e palati. Da Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina al Locked Down di Doug Liman, passando nel mezzo per confezioni più ricercate e chiacchierate come quella, ad esempio, di Malcolm & Marie a firma Sam Levinson. C’è chi dalla sciagura della quarantena forzata ha tratto un impulso creativo scollegato dal discorso pandemico e finalizzato solamente a esplorare le possibilità espressive di un momento così particolare, mentre chi come Johnson invece decide di porlo a sottotesto narrativo del proprio film.
State a casa (qui il trailer) parte infatti dalla costrizione del dover rimanere chiusi nella propria abitazione durante il primo, terribile periodo di lockdown che ha investito l’Italia nella prima parte del 2020. Siamo in un appartamento assieme a Paolo (Dario Aita), Benedetta (Giordana Faggiano), Nicola (Lorenzo Frediani) e Sabra (Martina Sammarco), quattro giovani coinquilini di una città senza nome che si ritrovano a condividere aspirazioni, ipocrisie e disagi di un’entrata nell’età adulta piena di incertezze e precarietà. Il problema di fondo è sempre quello, la mancanza di denaro e l’affitto da pagare allo sgradevole proprietario Spatola (Tommaso Ragno), mentre all’interno del gruppo ribollono anche tensioni emotive e sentimentali.
Johnson lavora per lunghi piani sequenza e lascia ai suoi giovani attori ampio spazio di manovra all’interno di primi quaranta minuti di film che prendono dalla commedia situazionale e che tratteggiano dinamiche e intrecci per i corridoi e le stanze dell’appartamento, dove il film è quasi interamente ambientato. A un certo punto però State a casa muta forma e cambia pelle, così come fa il serpente di Sabra che è un punto di raccordo tra il prima e il dopo della pellicola. Lo ammette lo stesso regista che il suo film parte in un modo e finisce in un altro, a cavallo tra la commedia che diventa dark e finisce per sfiorare i domini del grottesco e del surreale. Uno spettatore messo di fronte solamente all’inizio e alla conclusione dichiarerebbe di aver assistito a due lavori completamente differenti. Il cambio è netto, ma non sempre graduale e lascia ben percepire un cambio di tono che non mantiene in tutte le sue parti l’intensità che alcune sfumature hanno di più rispetto ad altre.
Avviene qualcosa di clamoroso nel racconto ed è chiaro come Johnson voglia andare a ragionare sulle storpiature degli esseri umani quando sono messi davanti a qualcosa di inaspettato e in un contesto di straordinarietà. Lo fa cercando di premere l’acceleratore sulle derive più grette e inconfessabili degli individui e del loro individualismo, tentando di far risaltare gli accenti personali appunto con una progressiva discesa nei meandri di atti e riti che fondono l’incoscienza all’esoterismo. Ma la sezione di State a casa dedicata alla pura commedia è quella che funziona maggiormente e che ragiona su alcuni crack del singolo e della società grazie all’ottima alchimia di un cast energico e in perfetta sintonia.
Il film cede e traballa andando avanti, quando si allontana dai lidi sui quali inizialmente ben si pianta e si sporge a sondare l’abbrutimento passando per snodi didascalici e derivativi. L’esponenziale incupirsi non rende giustizia alla possibilità di esplorazione di alcune tematiche che per una prima porzione di girato sembrava potessero essere affrontate di petto e con una graffiante frizzantezza. Una frizzantezza in realtà poi soffocata da un avvicinamento al finale che come abbiamo detto rovescia il punto di partenza, ma lo fa più con demeriti che riconoscimenti e afflosciando inesorabilmente una verve che avrebbe potuto offrire molto di più.