Dimenticati i fumi di sconfitte girotondine, abbassata la guardia di un partito che non dice più nulla di sinistra da troppo, chiusi i dolorosi conti materni, e previste in stile Nostradamus le inimmaginabili vicissitudini di un caimano da una parte, e di un pontefice dall’altra, Nanni Moretti ha scelto il Cile. Getta sempre nella curiosità più vibrante l’alba di un suo nuovo lavoro. Così, dopo la presentazione al Festival di Torino e il riconoscimento come Film della Critica da parte del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI, dal 6 dicembre il suo film è al cinema. S’intitola Santiago, Italia questo documentario che sulla carta poteva prospettarsi tra il momentaneo buen retiro cinematografico e la fuga antropologica di un intellettuale che deluso dal suo paese se ne va a pensare per un po’ fuori dai confini. Un po’ come quei mariti che fumano in balcone, al freddo, escogitando silenziosamente, tra scottanti interrogativi, una soluzione ai problemi di casa.
Non è un politico Moretti, ma il suo cinema è politico eccome, e stavolta più che mai. A Santiago incontra uomini e donne che vissero il colpo di stato cileno nel 1973. Dopo il rovesciamento di Allende per mano dei militari guidati da Pinochet molti cileni fuggirono scavalcando il muro dell’ambasciata italiana. Fu lì che centinaia di richiedenti asilo vennero accolti. Molti furono poi ospitati dall’Italia, difesi e sostenuti dai governi dell’epoca s’integrarono nel nostro paese. Qualcuno è tornato a casa, altri sono rimasti, cileni diventati anche un po’ italiani. Con figli naturalmente italiani seppur di radici cilene, ma i ricordi di quelle settimane ancora indelebili nella memoria.
Scava nei passati Moretti. Fa parlare muratori, registi, artigiani, giornalisti, medici, operai. Uomini e donne che sopravvissero alla rivoluzione grazie all’ambasciata. Uomini e donne che furono torturati durante la detenzione ad opera del nascente regime. Poche ed essenziali immagini di repertorio, un lavoro asciutto basato sulla parola e sulle facce spreme il succo di ogni esperienza in un puzzle che si compone ordinatamente intorno a un momento storico cruciale per la Guerra Fredda e per il sentire di sinistra nel nostro paese. Molte furono infatti le manifestazioni italiane a sostegno dei cileni attaccati da Pinochet.
Parzialità e imparzialità dell’autore, i giorni della prigionia e gli inattesi apostrofi d’autoironia su alcuni racconti di tortura. Elementi come questi rendono prezioso il documento girato da Moretti: l’umanità lacerata si rialza, torna a vivere, guarisce, ricorda, soffre il passato ma lo tampona con l’ironia che il futuro, anzi il presente le ha regalato. Sono brevi momenti di magia cinematografica il naturale mescolarsi di lacrime e sorrisi. Soprattutto trattandosi di un documentario. Ma a parte la formalità dell’opera qui è il contenuto che fa la differenza. Attraverso il racconto di un evento lontano 45 anni in un paese dall’altra parte del mondo, più attuali e calzanti che mai, spuntano come due garofani in autostrada accoglienza e integrazione. Uno schiaffo tanto forte quanto silenzioso a quanti chiudono alla diversità e al sostegno di una società multietnica in nome di una precedenza italica che sa giusto di social, patria e paccottiglia.