Il concetto di “grassofobia” è una nozione che negli ultimi anni si sta pian piano dilagando nei social, con numerose modelle o attrici o figure di spicco che si oppongono al “body shaming”. Ultime fra queste Kate Winslet che ha accusato l’HBO di “fat shaming” per aver photoshoppato la sua pancia in occasione del poster pubblicitario di Mare of Eastown. La lotta contro l’idea che sia necessario avere un corpo sempre perfetto e impeccabile naviga sul web a una velocità impressionante, spesso però perdendo “corporeità” ed è proprio per questo che un film come Mi chiedo quando ti mancherò, uscito in sala il primo luglio, assume ancora più importanza.
Tratto dal romanzo di Amanda Davis, Wonder When You’ll Miss me, e coprodotto con la Slovenia, il secondo lungometraggio di Francesco Fei (che nel frattempo ha dedicato la sua carriera a numerosi videoclip e documentari) vede come protagonista Amanda, una liceale che si ritrova a lottare contro lo stigma di non avere un corpo “magro”. Stigma che non solo la isola (aspetto in effetti già trattato in diversi film statunitensi), ma che la catapulta dentro violenze sempre più gravi, che se per chi si è trovato in una situazione simile a quella della protagonista non hanno nulla di scioccante, allo stesso tempo permettono ai restanti spettatori di comprendere la gravità di un dramma del genere.
Seguiamo così la giovane protagonista in una fuga, raccontata con numerosi flashback che disvelano a mano a mano cosa le è successo, ma soprattutto come si sente. Amanda, infatti, in seguito a una “sfida” che la vede coinvolta in un episodio molto simile al revenge porn, si spezza, scindendosi in due. Improvvisamente mostra la sua voglia di non stare in silenzio e subire, di non essere semplicemente gentile, ma di essere irriverente, audace e forte. Giunta in un circo, incomincia pian piano a capire cosa voglia davvero e, di conseguenza, cosa debba fare per riunire i pezzi della sua vita e poter andare avanti, sebbene ciò la porti a un necessario addio a una parte di sé (da qui il titolo), ponendo fine a quella scissione tra ciò che si è davvero e ciò che si è secondo il pensiero stereotipato degli altri.
La penna di Chiara Barzini, Luca Infascelli e dello stesso Francesco Fei non si limita semplicemente a tracciare la vicenda di Amanda, ma ci porta visivamente dentro questa scissione, senza mai fare ricorso all’uso di una spiegazione verbosa. Ed è proprio per questo, infatti, che il concetto di “body shaming” assume nuovamente tutta la sua forza. Sia a livello di sceneggiatura che di regia, infatti il racconto trova un modo elegante e profondo di entrare nei pensieri di Amanda, nelle sue gestualità, in ogni sua piccola piega, a partire dal battito cardiaco iniziale, fino al modo in cui la macchina da presa si sofferma a presentare la propria protagonista non nella sua totalità, ma attraverso piccoli dettagli.
Dettagli sia visivi, che narrativi, come per esempio il camion dove appare la scritta “Thelma” (in riferimento proprio a Thelma e Louise, ma, non a caso, senza Louise), la cover del cellulare, o il fatto che decida di chiamarsi “Annabella”, sottolineando come voglia con tutte le sue forze ricominciare una nuova vita per essere semplicemente “bella”. Concetto, quello della bellezza, come quello della diversità, che con sottigliezza e dolcezza percorre tutto il film, ricordando a tratti le famose parole di De Gregori e della sua Donna cannone.
La bellezza di Mi chiedo quando ti mancherò risiede proprio nella semplicità in cui mostra tutto questo, ricorrendo, appunto, a piccole sfumature di stile che giocano più sul visivo che sul parlato (d’altronde “Show, don’t tell” diceva un grande maestro del cinema come Hitchcock). Questo aspetto, che si manifesta armoniosamente dalla scrittura, alla regia, alla fotografia (che abilmente gioca con le ombre e le luci sul volto e intorno alla protagonista), insieme alla recitazione intensa di Beatrice Grannò, ma soprattutto di Claudia Marsicano, rende l’opera di Francesco Fei un film che supera le barriere di genere (del classico teen movie). Così, nelle note dolci e amare del finale, voliamo via anche noi, non più solo pensando, ma capendo realmente che cosa significhino la grassofobia, il body shaming e il bullismo, nell’ipocrisia generale e nella forza di chi, rialzandosi a testa alta, si chiede se alla fine le mancherà quella parte vulnerabile di sé che, canticchiando, saltella sotto un ombrello arcobaleno.