Domenico Scandella era un mugnaio friulano che a fine cinquecento per supposte eresie verso il Papa e il cattolicesimo fu travolto dall’Inquisizione. Il suo soprannome, ma anche il titolo del film che ne racconta la prigionia è Menocchio. S’immerge in un mondo antico, con la sua quarta regia, Alberto Fasulo. Ha sempre curato la fotografia dei suoi film e in questo salto nel tempo inizia visivamente col regalare pennellate di luce quasi caravaggesca squarciando il buio delle inquadrature.
La scena bucolica di un parto bovino, i cunicoli di tufo che avvolgono la prigionia del protagonista, poi la luce nordica che si dipana sulle pietre, i legni e i tessuti ruvidi segnano un cinema carnale, materico, che sospinge visivamente lo spettatore verso alti quesiti morali e di fede. Si parla di «Dio della ricchezza e Dio della povertà», di un contestato sfarzo della Chiesa. Temi francescani già caldi un secolo prima per il clero, ma in quel periodo di tardo rinascimento, l’Italia del contado viveva ancora in un medioevo culturale. La nuova forma di controllo per proteggere il Cattolicesimo dal Luteranesimo era il sacramento della confessione, che Fasulo sintetizza con inquadrature frontali di rivelazioni e soffiate intorno al povero Menocchio.
Splendore pasoliniano e imperfezione estetica di quest’opera si celano nell’utilizzo di un cast di non-attori presi da un lungo street casting del regista tra Friuli e Trentino, dalla Val Pesarina alla Val Cimolana. Scelte basate sulla pura fisiognomica e non su fama e curriculum. Da qui viene fuori una partecipazione calorosa dai neo-attori locali come fosse la natività di un presepe vivente, ma emerge soprattutto un protagonista straordinario: Marcello Martini.
Rughe d’espressione e segni del tempo ne rendono il volto impresso nella memoria come un quadro senza età. Allora dai suoi occhi celesti e sfuggenti, l’espressione di chi la sa lunga ma sceglie di tacere e il profilo acuto ricordano facce contemporanee ma antiche come quelle degli ultimi Carlo Monni e Sergio Fiorentini, e pure la modernità di certi tratti di Marco Giallini.
La colonna sonora con giri di fisarmonica è quasi impercettibile, se non assente in quasi tutto il film, ma segue esattamente alcune importanti linee emotive, mentre ha lavorato di più sul set, dietro la macchina da presa, dove un vero fisarmonicista aiutava il regista a portare gli attori di strada al mood per raggiungere il giusto livello d’interpretazione. Poi il montaggio respira in maniera cadenzata tra piani sequenza naturalistici su vari scenari e lunghe pause silenziose, ieratiche, in piani fissi concentrati sui volti.
Fasulo ha basato il suo film sugli atti del processo a Menocchio, una documentazione notarile dell’epoca conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Udine, mentre i passi sul libro Domenico Scandella detto Menocchio, i processi dell’Inquisizione (1583 – 1599) di Andrea Del Col sono serviti molto all’ambientazione e alla ricostruzione dell’epoca, come anche una fitta ricerca artistico estetica dell’autore sui pittori del tempo.
Il film è una co-produzione tra Rai Cinema, la Nefertiti Film di Fasulo e Nadia Trevisan e la rumena Hai-Hui Entertainment. Presentato al Festival di Locarno e in Francia, ha vinto il Grand Prix de la Jury all’Annecy Cinéma Italien. Nelle sale dall’8 novembre seguirà un lungo tour nelle città italiane accompagnato dal regista e introdotto negli incontri col pubblico da storici e critici.