Esce il 9 giugno in sala L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, sesto lungometraggio del regista friulano, prodotto e distribuito da Tucker Film in collaborazione con Rai Cinema e MyMovies e presentato per la prima volta nel 2021 alla 39esima edizione del Torino Film Festival.
Interamente girato a Trieste con pochissimi cambi di scenografia, L’angelo dei muri segue le vicende dell’anziano protagonista Pietro (Pierre Richard), il quale, sottoposto a sfratto dalla casa dove ha abitato tutta la vita, decide di nascondersi tra i muri e il buio silenzio dell’abitazione piuttosto che doversene separare. Presto, però, l’entrata di due nuove inquiline, madre e figlia (Zala, interpretata da Iva Krajnc, e Sanja, interpretata da Gioia Heinz) mette a repentaglio la ritrovata tranquillità di Pietro, che, nascosto come un “angelo” tra le pareti, si troverà ad affezionarsi lentamente alla piccola Sanja, quasi completamente cieca e alla ricerca di un amico con cui dividere il tempo nella grande casa vuota. Ma l’amicizia tra Pietro e Sanja porta alla luce le tenebre interiori del protagonista.
L’angelo dei muri è tutto ambientato in una casa, eppure il contesto cittadino e triestino è ben presente, dalle vie alla lingua dei protagonisti. Anche le tue opere precedenti sono fortemente legate alla tua terra d’origine, il Friuli Venezia-Giulia. Spesso hai detto che non è tanto la terra a ispirarti una storia, ma la storia stessa che si mette in dialogo con la terra. È stato così anche per questo film?
Per me il racconto di una storia parte sempre dal legame con quello che hai vissuto nella tua terra, nei luoghi che hai abitato. E questo avviene sia culturalmente che spazialmente, e in modo molto naturale, come un lascito. Nel caso de L’angelo dei muri ho voluto inserire sia elementi di contesto cittadino e triestino, come gli scorci dei palazzi austro-ungarici e l’atmosfera plumbea che gravita su tutto, ma anche particolari più intimi, rielaborando sui ricordi della mia infanzia. Quindi abbiamo ombre, suoni, grandi stanze e le paure che si generano a contatto con questi ambienti… tutti dettagli che ho assorbito passando molta della mia infanzia in montagna, nella grande casa che avevano i miei nonni.
La storia comunque non risulta mai localistica, anzi, si fa portatrice di un messaggio valido in qualsiasi luogo e tempo.
Questo per me è un paradosso felice, perché sono convinto che sia la potenza di una storia a darle portata e rilevanza. Se una storia raggiunge la completezza traendo la propria forza dall’humus in cui è cresciuta, allora toccherà corde che suonano simili, se non uguali, in tutte le anime. Questa è la grande potenza della narrazione: sapersi rendere universale, essere come una forma adattabile al contesto di provenienza di ognuno. E in questa dinamica c’è una dimensione che mi è particolarmente cara: quella della solitudine, dell’introspezione che ne consegue e dei suoi corredi e correlativi emotivi. Spesso si parla di questo quando si parla di paure, e nei miei film sono spesso le paure a catalizzare le indagini interiori dei protagonisti. Perché ognuno si porta dietro paure diverse e parole diverse per descriverle. L’essenza, però, è una, e valida per tutti gli esseri umani.
Tra l’altro di solitudine tu hai sempre parlato, e in modo, mi sembra di percepire, affezionato. Come una vecchia amica che porti con te e che fornisce combustibile alla voglia di narrare. Ragionamento che imbocchi decisamente nel film, dove, oltre a Pietro, protagonista sembra essere la rarefazione…
Con la solitudine ho iniziato a ragionare più approfonditamente da Occhi, verso il 2007, e poi dopo con Oltre il guado (2013). L’angelo dei muri è però sicuramente, a oggi, il mio punto più alto di espressione della solitudine. E tutto parte in effetti da lì, dalla rarefazione, sia dal punto di vista scenografico che di quello che è la resa visiva finale. Regnano i silenzi, le parole pronunciate dagli attori sono pochissime e il vero dialogo che s’instaura è quello tra il rumore e l’assenza di rumore. Quindi si crea un enorme spazio vuoto, vuoto sotto ogni punto di vista, ed è attraverso questo vuoto che si può descrivere la solitudine sotto la forma dell’introspezione e della genesi delle paure. Paure che a me piace chiamare “neorealiste”, cioè comuni, con cui chiunque può entrare in empatia e fare i conti.
Una cosa che colpisce molto, all’inizio del film, e che sembra porsi come manifesto di questo approccio alla solitudine, è il piano sequenza di apertura: minuti interi dove domina la tecnica cinematografica nella sua versione più genuina, dove la camera non fa altro che muoversi nel silenzio, contravvenendo all’abitudine che vuole questo tipo di ripresa supportata da grandi musiche e ritmi.
Assolutamente sì. Io sono molto affezionato al piano sequenza, che considero la ripresa a maggior portata narrativa del cinema. Il piano sequenza è l’unico momento di un film in cui puoi esperire il tempo, in cui il tempo non è manipolato dal montaggio ma, semplicemente, scorre, è presente. E, percependo il tempo, ci si immedesima, ci si cala nel pathos del momento, si ritorna a una specie di battito cardiaco primitivo, un bioritmo del tutto nostro che, però, stiamo perdendo nei tempi sempre più frenetici che viviamo. Quindi questo battito, così come il piano sequenza, per me significa fermarsi, rallentare, indulgere nella dilatazione temporale, così che si creino “finestre” per l’introspezione. Inoltre, per L’angelo dei muri il percorso del piano sequenza di apertura traccia un vero e proprio risveglio per il protagonista. Il passato bussa alle porte della mente, il sogno muore e bisogna fare i conti con la propria realtà interiore.
Torniamo un attimo all’elemento della paura di cui parlavamo prima. L’angelo dei muri può essere letto come una “favola nera”, per quanto risulti però diverso dai tuoi film precedenti, che virano decisamente all’horror. Puoi parlarci meglio di questa diversità?
Naturalmente non si può parlare de L’angelo dei muri come di un horror, perché è piuttosto un dramma psicologico. L’elemento della favola, e della favola nera, deriva molto dalla fisicità dell’attore protagonista, Pierre Richard, perfetto per qualsiasi adattamento dell’opera dei fratelli Grimm. Sul concetto dell’horror però mi piace sempre dire che, per me, ha soprattutto a che vedere con l’orrorifico, per tornare al punto delle paure che ci portiamo dentro. Mi piacerebbe che i confini della nozione di horror si allargassero, che uscissero dal senso comune che lo avvicina più a una sequenza di jumpscare o agli slasher movie. Se l’idea del film di genere contemplasse anche la dimensione emotiva e non solo puramente visiva di ciò che si porta sullo schermo, probabilmente l’etichetta di “horror” potrebbe descrivere molte più cose di quelle che ci immaginiamo canonicamente. Ed è qui che torniamo a quello che mi piace chiamare neorealismo delle paure, un dare corpo, e volto, a quello che ci portiamo dentro.
Pierre Richard ha quindi avuto un ruolo fondamentale nel dare al film la sua veste finale?
La mimica e il modo di portarsi sul set di Pierre sono stati elementi fondamentali. E la sua prova attoriale è stata, a mio modesto parere, da manuale, perché la sfida principe de L’angelo dei muri era sorreggerne l’impianto narrativo, e si parla di un’ora e tre quarti, usando solo la fisicità e l’espressività di un uomo anziano, fragile, schiacciato dal suo passato. Appena ho visto Pierre, mi sono subito convinto su di lui.
Parliamo della produzione de L’angelo dei muri, perché la tua carriera registica inizia nell’autoproduzione per poi transitare da piccole produzioni e, ora, arrivare a una produzione più strutturata. Com’è avvenuto questo salto?
Lavorare con una produzione più grande è stato un grandissimo piacere, e poter avere il supporto di una squadra più articolata è stato fondamentale per portare a termine la realizzazione del film com’era nell’idea originaria. Paradossalmente, però, ci siamo fermati a tre/quattro attori e praticamente una sola location di ripresa. Ovviamente, la maggior disponibilità anche in senso economico ha permesso, per esempio, di scritturare un attore del calibro di Pierre Richard. Allo stesso tempo, però, avere avuto esperienze di autoproduzione si rivela secondo me sempre utile quando si tratta di coordinare le operazioni sul set: hai conoscenza di prima mano del lavoro delle altre figure e questo ti fornisce una visuale molto più chiara delle tempistiche e dei passaggi da mettere in campo.
Quindi questa sarà la strada dei prossimi progetti? Puoi già darci qualche anticipazione?
Di sicuro voglio portare avanti entrambi questi filoni di produzione, quello in solitaria e quello di una produzione esterna e strutturata. Questo per un motivo molto semplice: le produzioni tradizionali hanno tempi di lavorazione per loro stessa natura più lunghi, e ti obbligano a una selezione a monte delle idee. Non a caso abbiamo già fatto qualcosa l’estate scorsa sul versante dell’autoproduzione, con letteralmente altre cinque persone più le comparse. Questo, per me, è lo spazio in cui sperimentare, e sperimentare è estremamente utile e appagante.