Io sono Vera, in uscita al cinema il 17 febbraio, è il primo lungometraggio di finzione prodotto da Macaia Film, con le musiche dei Marlene Kuntz. Una pellicola di fantascienza ambientata in parte in Cile, che racconta una storia di vite che inspiegabilmente si intrecciano, «in grado di utilizzare il genere per trattare una questione esistenziale». Abbiamo intervistato Simone Gandolfo, uno dei produttori, che in quest’occasione ci ha parlato dei retroscena del film e di cosa significhi occuparsi di cinema di genere in Italia. Per leggere di più sul suo lavoro abbonati a Fabrique: l’intervista continua nel prossimo numero!
Di che progetti si occupa Macaia Film e qual è il tuo ruolo all’interno della casa di produzione?
Macaia (di cui io e Manuel Stefanolo siamo fondatori e soci al 50%) si occupa principalmente di quattro grandi branche: i contenuti originali, di cui Io sono Vera finora è il più importante, insieme a un altro progetto sempre di fantascienza in sviluppo che si chiama Aspettando i naufraghi, tratto da un romanzo di Orso Tosco. Ci occupiamo di comunicazione per enti pubblici, di produzione esecutiva sia per società italiane che per società estere che devono girare in Italia. C’è poi anche una parte legata alla formazione: organizziamo infatti corsi professionalizzanti per varie figure del cinema. Io sono il fondatore, il produttore esecutivo e diciamo il frontman, vado sui mercati internazionali a cercare clienti, sto sul set, ma se non falliamo è merito di Manuel.
Come è nato Io sono Vera?
È nato quando il regista Beniamino Catena, che conosco da molti anni, è venuto da me con la sceneggiatura, dicendomi di voler realizzare un film indipendente, girato tra la Liguria e il Cile. Mi è parsa da subito una bella sfida, una storia delicata che valeva la pena di raccontare, in grado di utilizzare il genere per trattare una questione esistenziale, ancestrale quasi. Prima di partire per Berlino alla ricerca di coproduttori mi sono rivolto a un amico regista per sapere se conoscesse qualcuno che potesse fare al caso nostro: produttori non ne conosceva, ma mi ha presentato Maura Morales Bergman, che sarebbe diventata la direttrice della fotografia del film. L’ultimo giorno di Berlino ho incontrato invece Karina Jury, una produttrice cilena che da subito si è dimostrata interessata. La partenza di Io sono Vera è stata travagliata, ci sono stati momenti in cui abbiamo pensato di abbandonare il progetto. Il budget non faceva che diminuire, ma nel momento più buio il regista mi ha trasmesso un entusiasmo tale da permettermi di andare avanti. Tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto lo hanno fatto per amore ed è questo l’atteggiamento che mi piace e che cerco di mantenere anche nel momento in cui lavoro a produzioni più grandi.
Si tratta di una coproduzione con il Cile, cosa ha comportato?
L’aspetto più positivo delle coproduzioni è che hai già due mercati a disposizione. Da un punto di vista burocratico non è stato complicato, perché con il Cile l’Italia ha dei contratti bilaterali di coproduzione, ci sono quindi delle regole molto chiare da rispettare. La coproduzione è ovviamente artistica e non finanziaria, ciò significa che ci devono essere dei capo reparti di ambo i paesi. Questo permette di creare un ponte tra le due realtà, il che rende tutto sia più interessante che più difficile. Ma la cosa più complicata, soprattutto in un paese come il Cile dove la moneta non è stabile, è gestire il flusso finanziario. Quando firmi il contratto lo fai in base al cambio di quel giorno, a quel punto inizia l’avventura, perché magari una settimana hai il 10% in più e quella dopo il 10% in meno, in base all’oscillazione.
Io sono Vera è un film di fantascienza. Sembra essere un buon momento per i film di genere in Italia. Cosa implica produrne uno?
Ho delle riserve sul fatto che sia un buon momento per il cinema di genere. Per fortuna finalmente ci sono delle società ben più grosse della nostra che hanno cominciato a produrlo: Groenlandia su tutte, Propaganda Italia, Mainetti. Però l’Italia da un punto di vista istituzionale è ancora molto legata a un certo cinema d’autore, guardando le graduatorie dei finanziamenti è evidente. Il pubblico italiano inoltre fa fatica, perché il cinema di genere, come la fantascienza, è abituato a vederlo arrivare dall’estero e noi siamo almeno dieci anni in ritardo rispetto al resto d’Europa, però abbiamo cominciato a muoverci. Produrre un film di genere implica quindi confrontarsi con un mercato quantomeno europeo, cosa ovviamente più complicata che restare entro i confini nazionali.