Il ritorno di Gianni Amelio a Venezia è un film emozionante, potentissimo, attraversato da una rabbia sotterranea sotto il manto di una scrittura ispiratissima e intrisa sempre di tenerezza. È questo Il signore delle formiche, la storia del processo al poeta, drammaturgo ma innanzitutto mirmecologo Aldo Braibanti, accusato di plagio nei confronti di un suo giovane studente. Il reato di plagio, che di per sé significa ben poco, era un modo per condannare un tipo di influenza psicologica e quindi fisica esercitata su un altro essere umano. Arma giudiziaria impugnata spesso contro la diversità, contro l’anticonformismo, e difatti, pochi anni dopo, cancellata dal codice penale.
Il film di Amelio ha un pregio che salta subito all’occhio e cioè le ambientazioni: il casale, soprannominato “la torre”, dove Braibanti ha la sua comune, nella quale le arti performative e figurative convivono con la biblioteca a cui attinge per regalare libri ai propri allievi, libri di poesia, storia dell’arte, i romanzi italiani oggetto del dibattito culturale e politico (come per esempio Il disprezzo di Moravia, al quale si fa riferimento successivamente, nel film, con una battuta geniale: sono assolutamente sconsigliabili, ai giovani, i libri scritti meno di cento anni fa…), e infine le teche con le colonie di formiche, oggetto dello studio di Braibanti e strumento per una importante lezione, che attraversa tutto il film, sul bene comune da preferire al successo individuale, “lo stomaco privato e lo stomaco sociale”; e poi c’è Roma, città ostile e notturna, la città delle feste in terrazza, stravaganti per il giovane Ettore ma da cui pure apprende qualcosa di Braibanti (e quindi di se stesso), ma anche la città del Palazzaccio, la città del processo, di un’assurda inquisizione condotta con, alla mano, un codice primitivo e uno sconcertante bigottismo.
Aldo Braibanti è tratteggiato da Amelio con aspetti pasoliniani che vanno dalla montatura degli occhiali, al nome dato alla madre (Susanna), al ragazzo in tenuta da calcio rossa e blu con cui si incontra all’inizio del film, ed è interpretato da Luigi Lo Cascio con una prova perfetta, misurata, cesellata nella voce e nei gesti, di una intensità che sugli schermi veneziani quest’anno ha pochissimi rivali. E tutti gli altri personaggi che ruotano intorno a Braibanti sono all’altezza del confronto: non c’erano dubbi su Elio Germano e Sara Serraiocco, la soprano Anna Caterina Antonacci nel ruolo della madre del giovane Ettore, ma è straordinaria la scoperta di Leonardo Maltese. Ha potuto beneficiare di un grande direttore di attori quale è sempre stato Gianni Amelio, ma il modo in cui ha reso la sofferenza del proprio personaggio, soprattutto al processo, ormai consumato dalla scellerata “cura” all’elettroshock, ha del prodigioso.
Basterebbe anche il prolungato primo piano che Amelio gli dedica durante la sua deposizione per poterne avere un’idea, e per avere idea anche della strada registica che percorre tutto il film: laddove si può non montare, laddove l’inquadratura può restare lunga e raccontare una evoluzione, un divenire, laddove la mancanza di stacchi genera una estenuante empatia, lì c’è la mano di un maestro.
Che poi, in realtà, c’è in nuce, nella scrittura. Un film su una vicenda così vergognosa, sulla quale si espressero all’epoca anche Pasolini, Moravia, Morante, Bellocchio, che tuttavia Amelio conduce con mano più poetica che indignata, prediligendo sempre la riflessione alla sterile denuncia.