A luci spente, ci fa chinare subito il capo su una roccia porosa Matteo Rovere, permettendoci di ascoltare giusto la litania di Alessio Lapice, Romolo, che con mani sporche e cariche di fede prega la “triplice Dea”. Le dita sfiorano quella pietra tabernacolo supplicando un futuro, una sicurezza che per il momento soltanto il fratello Remo, Alessandro Borghi, può impegnarsi a procacciare insieme a lui. Gli occhi blu dell’ex Stefano Cucchi costituiscono l’unica pennellata di colore brillante in un mondo plumbeo, boschivo e inospitale. Siamo nel periodo che culminerà con il cruciale 753 a.C., anno della fondazione di Roma. Siamo davanti al nuovo film prodotto da Groenlandia di Rovere e Sydney Sibilia con RAI Cinema, Il primo re. Siamo dentro un’avventura leggendaria di rara potenza cinematografica che cattura i sensi dello spettatore trascinandoci in un mondo antico totalmente italiano mai portato sul grande schermo con tale sensorialità e fedeltà al passato.
Nelle sale con più di 300 copie dal 31 gennaio, l’ultima fatica del regista di Veloce come il vento maneggia la leggenda di Romolo e Remo stringendone i tiranti storiografici grazie a una ricostruzione archeologica e antropologica basata sulle usanze religiose, le capanne di fango e paglia e le armi in ferro che determinavano la vita e la morte delle tribù protolatine. A questo si unisce il latino arcaico, unica lingua parlata nel film, che adeguatamente sottotitolata ci scaraventa in un mondo sconosciuto e impervio, seppur nell’Italia centrale, nei dintorni della capitale che quasi 2800 anni fa non esisteva. Al suo posto foreste impenetrabili, cave di roccia, paludi, radure e soprattutto il Tevere. Fiume ricurvo e ostile con le sue correnti che segna spesso le scenografie come una meridiana, o la lancetta di una bussola amara e contorta per questi uomini preistorici che vivono allo stato barbarico. Come location sono stati scelti dintorni della capitale come il Parco Regionale dei Monti Simbruini, il Parco dei Monti Lucretili, la Riserva dell’Aniene, quelle di Decima Malafede e del Circeo con il lago dei Monaci e la selva di Circe, e infine la riserva di Tor Caldara ad Anzio.
Per ottenere l’idioma latino arcaico un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza di Roma ha messo insieme le vestigia di una lingua in parte perduta completandone le basi mancanti con antichi ceppi indoeuropei. Ne viene fuori un’atmosfera orale molto vicina agli Apocalypto e The Passion di Mel Gibson. Rovere insudicia i suoi attori. Li abbrutisce ma li lega indissolubilmente in una fratellanza fortissima resa ancora più reale da questa lingua inedita. Romolo e Remo si completano, sono indispensabili l’uno all’altro, si identificano come uno solo. Ma sarà la storia a separarli, come noto. Non dev’esserlo il come, visto che Rovere, firmando la sceneggiatura insieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, tesse una narrazione che intreccia sapientemente storia, legenda e drammatizzazione cinematografica senza però concedersi licenze spettacolarizzanti. Anzi, spiazza l’essenzialità di questo film pur venendo attraversato da una moltitudine di elementi e letture possibili.
Si mescolano sacro e profano quando il fuoco tenuto acceso dalla vestale, Tania Garribba, viene protetto come prezioso talismano, auspicio di sopravvivenza ancor prima che d’abbondanza. Si toccano i temi della fede e della profanazione, il confine tra regno e dittatura, la ribellione e la guerra per la sopravvivenza, la conquista e la fuga. Il personaggio di Remo esplode con il suo carisma sugli schiavi, suoi primi alleati e sudditi guerrieri, ma il fratello Romolo ha dalla sua parte un potere più spirituale, profondo, che agisce sui cuori anche senza la necessità della spada. In questo Primo re, forse più vicino ai nostri tempi di quanto non sembri, si parla già di una Roma e di un’Italia prosaiche, da una parte rappresentate da Remo, offuscate dal potere del possesso, guerresche e per estensione filosofica imperiali, monarchiche e di coercizione ottenuta con la forza e la paura, quindi protofasciste. Dall’altra invece le prime tracce della nostra civiltà, intorno alla figura di Romolo, risultano pre-cardinalizie, religiose, legate al cerimoniale e alla coesione sociale per la fede intorno alle vergini detentrici del fuoco sacro della dea Vesta. Si nutrono di libertà e fierezza e collaboratività tra villaggi.
La produzione ha compiuto un miracolo nel mettere su un piccolo kolossal interamente italiano, inedito nel suo narrare, gonfio di effetti speciali sempre credibili e mai invasivi, scene di combattimento corpo a corpo esemplari e finalmente credibilissime, di cui il cinema italiano spesso risulta carente. Se la regia di Veloce come il vento trovava la sua dirompenza del montaggio convulso e straordinariamente dinamico intorno all’automobile in corsa, nel Primo re tutto ruota intorno a corpi quasi nudi, sporchi nella loro essenza e raccontati un po’ come il DiCaprio in The Revenant di Iñárritu. Non più macchine ma uomini, non più asfalto nero ma natura inconoscibile, la nuova dimensione selvaggiamente bucolica di Rovere non risparmia al pubblico scene spietate, però mai asservite a una vuota spettacolarità d’intrattenimento. Tutti gli attori, dai protagonisti sino a ogni singola comparsa, forgiati ognuno nella propria parte, risultano in stato di grazia. In due ore tonde il film sgomenta come pochi italiani hanno fatto negli ultimi anni.
Predire il futuro come fa lei non ci compete, ma da una prima visione s’intuiscono chiaramente le potenzialità di un lavoro che potrebbe andare molto lontano. Ma il qui e ora di questo piccolo grande passo per il cinema italiano adesso si trova nelle mani della 01 Distribution. Oltre all’attenzione del pubblico nostrano, fondamentale primo passo per l’esportazione, sarà la giusta comunicazione di un film europeo che guarda alla pari alcuni colossi hollywoodiani che lo precedono a far entrare il film nei giusti circuiti internazionali di sala per farlo apprezzare da un pubblico trasversale di cinephile, appassionati di storia e spettatori di action.