Non bisogna essere dei patiti del calcio per ricordare il nome di Roberto Baggio, uno dei miglior attaccanti a livello mondiale. A parlar di lui, anche la canzone dei Pinguini Tattici Nucleari (Scrivile scemo), che proprio tra le prime strofe recita: “Ci vuole coraggio nel ’94 a essere Baggio”. Ed è da qui che parte Il Divin Codino (prodotto da Fabula Pictures e disponibile su Netflix dal 26 maggio), dal quel 1994 e dal portato di essere Roberto Baggio esattamente in quel fatidico anno in cui, a causa di un rigore (di Baggio stesso), l’Italia perse i mondiali per un soffio contro il Brasile.
Con una struttura a cornice, che parte dalla famosa partita contro il Brasile, la mano di Letizia Lamartire decide fin da subito di relegare le prime inquadrature a una prospettiva raso terra. A queste alterna i pensieri dell’infanzia del “Divin Codino” in un momento specifico: quando nell’officina del padre s’immaginava già come uno dei più importanti calciatori. L’intento tanto della regia della Lamartire, quanto della sceneggiatura di Ludovica Rampoldi e di Stefano Sardo (coautori anche de Il ragazzo invisibile), è quindi subito lampante. Non si vuole raccontare della leggenda, ma dell’umanità di questo immenso giocatore.
Si va, allora, in rewind e, tra immagini in hd e immagini che riprendono abilmente i formati televisivi e telecronistici dell’epoca, s’inizia non tanto una biografia che possa racchiudere la carriera dell’attaccante, ma un vero e proprio racconto di formazione, che parte dalla necessità di accettare di non essere sempre i migliori per poter essere riconosciuti. Didascalicamente, si procede dentro le pieghe del rapporto che Baggio ha con il proprio padre, dal quale si sente trascurato perché non ancora abbastanza maturo da capirne i ragionamenti e gli insegnamenti. Il Divin Codino decide di non fermarsi, perciò, sulle tappe della carriera del calciatore, ma su quelle del rapporto padre-figlio e uomo-maturità.
Nel delineare questo percorso, il film viene diviso in due grandi blocchi: prima del “fallimento” del 1994 e dopo quel giorno. Se, in questa costruzione, la regia sperimenta e riesce ben ad agganciare lo spettatore prima a una visione quasi cronistica/osservazionale e poi a un punto di vista più intimo, sono tuttavia le basi a mancare affinché si venga totalmente catturati dal racconto. La sceneggiatura, infatti, non gioca di stile come fa, invece, l’occhio della Lamartire (e come faceva in campo Roberto Baggio, proprio per questo soprannominato “Raffaello”), ma di forza. L’umanità del messaggio si perde, così, tra le pieghe di una verbosità fin troppo esplicativa, che produce un immenso calderone di concetti ridondanti e paradossalmente superficiali.
Insomma, Il Divin Codino è un film incapace di cogliere l’assist. È, infatti, un prodotto che presenta un attento gioco di raffinatezza della regia e anche della recitazione (in primis di quella di Andrea Arcangeli, proprio nel ruolo di Baggio, di cui coglie ogni sfumatura e tensione), che però non riesce a superare i difetti di contenuto e di penna. La Fabula Pictures si ritrova, allora, come Roberto Baggio in quel famoso ’94: in un campionato con diversi goal decisivi, ma incapace di mettere in porta il rigore decisivo.