In arrivo nelle sale una nuova infornata di film italiani. Il 12 aprile come titoli italiani abbiamo una commedia, un docufiction e un thriller. Marco Giallini in Io sono Tempesta veste i completi costosi di Numa Tempesta, ricco affarista senza scrupoli e impenitente evasore condannato a un anno di servizi sociali in un centro di sostegno per chi non ha niente. Lo scontro ricchezza/povertà forse lo porterà a rivedere il suo modo di essere, ma anche il manipolo di poveri intorno a lui, capeggiato da Elio Germano, si lascerà contagiare. La generosità di un attore blasonato nel mescolarsi a un gruppo di attori e non attori dividendo con ognuno di loro il ruolo di co-protagonista sta tutta nella dicotomia io-noi suggerita in due dei tre atti. Così in questa salace commedia di Daniele Luchetti l’io è il ricco e il noi sono i poveri.
Ad arbitrare lo scontro tra i due mondi è un’integerrima operatrice sociale, Eleonora Danco, animata da rigore morale quanto da tutte le moderne insicurezze femminili proprie della mezza età. Giallini restituisce un personaggio tronfio, cinico e di una cattiveria comica irresistibile, come il padre in disgrazia interpretato da Germano, diviso tra un drappello di giovani prostitute dell’est che studiano psicologia e il suo manipolo di senzatetto. Si ride molto e bene con Io sono Tempesta. Sembra di stare di fronte a un nuovo, allungato e sviluppato episodio de I mostri di Dino Risi.
Da una comicità dirompente passiamo a un realismo più ruvido. Il cratere aveva esordito alla Settimana della Critica di Venezia lo scorso anno e vinto il Premio della Giuria al Tokyo Film Festival. Firmato da Silvia Luzi e Luca Bellino, ci porta in un anonimo hinterland napoletano per seguire un padre alla smodata ricerca del successo di sua figlia. Il sogno neomelodico d’incidere un disco, vincere un concorso o presenziare a eventi col suo canto palpitante traina una vita di stenti. La famigliola per sopravvivere vende pupazzetti in peluche tra feste di paese e giostrai. Ma soldi e fama musicali sono un incerto Godot.
La visione dei registi venuti dal documentario non tradisce le origini: Sharon Caroccia e il vero padre Rosario Caroccia interpretano una storia che dondola come un’altalena tra finzione e realtà. Però s’intersecano sensazioni di cose già viste in Reality di Garrone e Indivisibili di De Angelis, che pesano sull’originalità. Mentre il climax a metà film ne spezza l’arco narrativo. Finanziato anche da RAI Cinema, spinge sul rapporto drammaticamente grottesco tra padre e figlia puntando su psicodramma e primi piani, ma resta carente di ellissi temporali. Forse un minutaggio ridotto a mediometraggio e un montaggio avrebbero dato risultati migliori.
Da un dramma partenopeo ci spostiamo a Catania per lo psicothriller Transfert, opera prima di Massimiliano Russo. Un giovane psicanalista accetta in cura alcuni nuovi pazienti: due sorelle molto competitive e un giovane uomo apparentemente depresso. Da qui s’intrecceranno dei fili invisibili tessuti dai tre pazienti che destabilizzeranno completamente il loro analista. Il plot alla base del soggetto ha buona architettura narrativa ricca di colpi di scena, però viene sviluppata alla bell’e meglio con dialoghi discutibili e una recitazione generale non eccelsa. Invece se la cava Russo, che interpreta il misterioso depresso. La sua aria da uomo sospeso in una bolla è funzionale al personaggio.
La regia scandaglia con ogni inquadratura possibile sia Catania con totali interessanti, che gli interni, ricordando atmosfere polanskiane. Esempio di piccolo cinema italiano fai da te, Transfert inizia il suo percorso nelle sale siciliane dal 12 aprile, con l’ambizione di scalare a maggio quelle dello Stivale.