Gabriele Muccino ha realizzato il suo C’eravamo tanto amati. Con la sua sensibilità, la sua visione cinematografica, il suo senso del melò che non sempre convince giornalisti e critica, ma conquista il pubblico e riesce ancora a riempire le sale. Con Gli anni più belli (qui il trailer) non è la ripresa atto per atto quella che il regista adopera nei confronti del capolavoro del maestro Scola, ma è l’atmosfera che si alimenta nello scorrere del tempo e nel cambiamento in costante divenire, un delinearsi dei percorsi dei protagonisti che Muccino affida al caso, al destino, agli errori che siamo tutti condotti a fare, definendoci e plasmandoci in quanto persone reali.
Una moltitudine di personaggi che torna a popolare il cinema sempre straboccante del regista Muccino, che sceneggiando assieme a Paolo Costella su impronta del trittico Manfredi-Sandrelli-Gassman, sembra intraprendere un viaggio posizionando la bandierina di partenza sul “Dove eravamo rimasti?” e da lì riprendendo per esplorare, soffermandosi per tappe intermedie, la storia italiana di quella generazione a venire. Ed è partendo da quel 1982 e dai sedici anni dei suoi personaggi principali che Gli anni più belli mostra, nel proprio avanzare, tutta la differenza con il classico del 1974, le distanze che un racconto impostato sulla visione sociale e civile di un’altra epoca può riservare, se analizzato e inserito negli eventi della storia nostrana.
Sebbene il tono di C’eravamo tanto amati, nonché la propria finezza di scrittura, pongano già per propria natura una distanza con qualsiasi altro corrispettivo cinematografico che voglia andandosi componendo attraverso l’inebriarsi della sua essenza, è il periodo storico che costringe il film di Muccino ad allontanarsi da quelle ideologie così pregnanti nel lavoro di Ettore Scola. Lo svuotarsi di una poeticità che era intrinseca nelle complesse dinamiche culturali che hanno segnato gli accadimenti del Belpaese, prive delle lotte interne in cui la generazione successiva sembra non essere potuta entrare, e che ha portato ad affilare molto l’aspetto emozionale della pellicola di Gabriele Muccino e potendosi, oltretutto, avvicinare di più alle affinità del regista.
Gli anni più belli diventa, così, la fotografia di un’esistenza scandita dai momenti più intensi del crescere dei suoi personaggi, un film di cuore ben più che di attinenza con gli stravolgimenti (inter)nazionali che hanno punteggiato il corso della storia, rimanendo saldamente concentrato sullo scorrere vitale dei quattro amici di sempre, e del loro relazionarsi alle diverse scelte che ne hanno tratteggiato mano a mano le vie percorse. Un’opera talmente ambiziosa – nel suo circoscrivere nella cornice di un film un lasso tanto tirato di tempo, nel numero elevato di personaggi, nella portata delle emozioni che smuovono gli animi dei protagonisti -, che finisce, però, a trovare se stessa nelle dinamiche relazionali, nella semplicità degli istinti più comuni, umani. Un film che definisce il proprio spirito focalizzandosi ed ampliando la conoscenza di un’amicizia che affronta le decadi e gli abbattimenti, ma che sostiene modestamente la pellicola, facendosi portavoce più efficace per la storia de Gli anni più belli.
E, in questo suo attingere dall’universalità di un affetto tanto accessibile e sincero, è lì che il film trova la sua qualità ultima. Quel lato che potrà certo allontanarsi dall’impegno tematico e significativo di C’eravamo tanto amati, ma che si riallaccia alla filmografia del proprio regista e ne assicura il ritorno al cinema del suo pubblico più affezionato. Film che insieme alla nostalgia dell’adolescenza, alla voglia di spaccare il mondo, fino a ridursi alle disillusioni dell’età adulta, ne fanno un’opera grondante di impulso sentimentale. Un brindare alle cose che ci fanno stare bene, mentre continuiamo a leccarci, ancora provati, le nostre ferite.
Con una buona alchimia da parte del trio maschile, formato da Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria e Kim Rossi Stuart, che insieme al resto del cast riesce a mitigare, questa volta, lo stile incontrastabile della recitazione troppe volte esasperata e esasperante dei film di Muccino, Gli anni più belli non si priva di una parte ben cedevole che non può esaltare nella propria totalità il film, ma non per questo ne affossa la capacità di potersi esprimere a macchia d’olio e poter perciò arrivare al più grande numero di pubblico. Un film che si porta agli estremi, per poi da quelli rientrare, dove non manca un cuore gigante che è centro nevralgico della pellicola e che, come accade nella vita, può a volte rimediare a ben altri problemi.