È arrivato nelle sale Ride, nuova fatica di Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, che dopo il successo di Mine si reinventano direttori artistici mettendo al timone della regia Jacopo Rondinelli. Due mountain bike sfrecciano dalla cima di una montagna innevata per una gara di downhill tutta rischio, mistero e adrenalina. 20 telecamerine GoPro intorno ai protagonisti e un effetto su grande schermo che picchia duro sull’emozione della velocità. Sembra quasi che la poltrona del cinema si trasformi in sellino. Lorenzo Richelmy sfodera tutta la sua fisicità per una parte scanzonata che monterà in sfaccettature con gli imprevedibili sviluppi della corsa.
Per l’attore l’avventura in mountain bike è stata soltanto emozionale. “Mi ritengo un attore fisico e mi diverto molto a girare film che mi mettono alla prova. L’idea delle GoPro è una cosa che mi ha entusiasmato fin dall’inizio perché essere attore vuol dire rendersi conto del contesto in cui lavori”. Ha affermato durante l’incontro stampa tenutosi a Roma in agosto, poco prima dell’inizio della Mostra del Cinema di Venezia. “Durante il film il mio occhio è incuriosito dal vedere dove lo sguardo del regista racconterà la storia. Molto velocemente, per me almeno, in questo film avviene la sospensione del giudizio. È un qualcosa di diverso rispetto a ciò a cui siamo abituati, così non abbiamo aspettative sul finale o sulla storia. Io mi sono trovato molto bene e cercherò sempre di lavorare con quei gruppi di persone che cercano di allargare, di stratchare in avanti il cinema italiano”.
Poi ha continuato sulle sue origini artistiche e l’impostazione a spazi aperti offerta da Ride. “Avevamo 20 camere intorno, loro che si nascondevano, l’attore che sta in mezzo e tutta la libertà del mondo. Stavamo in un bosco che per me era teatro. Io vengo da lì, e godevo a ogni ciak perché potevo fare cose diverse. Non c’era la segretaria di edizione a correggerti. C’era una miriade di camere, si sarebbero presi i take migliori. Nel cinema il contesto è la camera, sul palco è il teatro, qui è il mondo. Eravamo sulle Dolomiti. Potevo correre per 2 chilometri e mezzo perché le macchine ce le avevo addosso io”.
È un cinema italiano affamato di nuovo quello di Fabio&Fabio. Pedala forte e senza preavvisi morde il pubblico. Ci ruzzola giù da monti sconosciuti, perché gara e luogo sono segreti nel film, e c’impone una serie di sospesi narrativi producendo una sorta di groviera che fa pensare a tante soluzioni continuative, come sequel, prequel, spin-off e perché no, pure serie tv. L’intenzione dei due showrunner di primo pelo sarebbe quella di iniziare un franchise incrociando grande schermo e fumetto. Ce la faranno? Intanto Fabrique du Cinema ce la farà a presentare al pubblico romano il cast insieme al regista. Si terrà infatti venerdì 14 settembre a India Estate a Roma la grande festa per il nuovo numero cartaceo di Fabrique. All’interno, oltre al live di Motta e all’incontro con cast e attori della Profezia dell’Armadillo, saranno sul palco Fabio&Fabio, Jacopo Rondinelli e gli attori del film più veloce di questa fine estate.
In sala da questo weekend anche altre tre pellicole. In Revenge, promettente cult diretto dall’esordiente Coralie Fargeat, Jen, viso d’angelo e corpo da modella s’innamora dell’uomo sbagliato, così dovrà vedersela con lui e i suoi sgherri dopo essere stata violentata e quasi uccisa. La macchina da presa della regista è capace di raccontare più d’una cosa con la stessa inquadratura, sdoppiando i piani narrativi nello stesso quadro, cosa non da tutti. Magari a volte Revenge esagera con la finzione filmica rispetto al reale, ma lo sballo testosteronico è anche ciò che esige il genere action, anzi, nello specifico il sottogenere rape&revenge. L’attrice che si schiude da vittima a killer stampandosi nella memoria si chiama Matilda Lutz. Padre americano, madre italiana, potrebbe ascendere come una delle prossime superstar negli anni a venire. In versione grintosa e spietata, o ingenua e sexy, buca lo schermo in maniera definitiva. E ha pure un partner non da poco, che in campo di bad boys ne ha già combinate di cotte e di crude. Si parla di Kevin Janssens, già protagonista nel belga selezionato nel 2015 per l’Oscar al Miglior film straniero Le Ardenne).
A 10 anni dal successo che esplose al box office quanto nei teatri di mezzo mondo, torna in sella, anzi in barca a ritmo di Abba l’allegra combriccola di Mamma mia, ci risiamo! Cominciamo col dire che Donna è passata a miglior vita. Quindi Meryl Streep non è più la protagonista. Gira tutto intorno alla figlia Sam, Amanda Seyfreid, che torna sull’isola greca dov’è cresciuta per rimettere a posto l’hotel che gestiva con sua madre. La novità è il parallelo tra la Sam di oggi e Donna da giovane negli stessi luoghi mediterranei. Così dai meandri del passato di Sam, arriva la sua versione seventy con viso, voce e danza di Lily James. È lei la Sam che partì per la Grecia trovandoci l’amore dei tre giovani che diventeranno Colin Firth, Pierce Brosnan e Stellan Skarsgard. L’equivalente di una Streep ragazza ci riporta alla memoria quella giovane donna e animale da set vista in Manhattan e Kramer contro Kramer. Entrambi del 1979, esattamente l’anno in cui è ambientata parte del film. Esempi giganteschi di cinema e recitazione come questi sono ostacoli grossi da rimuovere e inevitabilmente inficiano la pur discreta interpretazione della James.
Qualche rivisitazione, sì, pure gli inserimenti nel cast di Andy Garcia e Cher, tra il gustoso e il patetico tra l’altro, ma il film in sé trasuda debolezza e colleziona punti deboli. La regia caramellosa di Ol Parker ci regala il peggio nelle coreografie e tanta scrittura risulta ammiccante verso un pubblico intontito da marketing furbesco e passione sincera per il primo capitolo. A volte si ride pure, ma per meccanismi e forzature che a volte suonano demenziali. Mamma mia, ce n’era proprio bisogno?
Da comico è un’icona indiscussa, ma miracolosamente riesce ad essere credibile anche come attore drammatico Jim Carrey. Torna al thriller con un film polacco, Dark Crimes. Un trasandato agente di polizia trova troppe similitudini tra un omicidio e le pagine cruente di un romanzo. Così l’eccentrico autore viene messo sotto accusa e la sua donna dai costumi ambigui diventa ago della bilancia per le investigazioni.
Carrey fa i conti con un’ambientazione dell’est europeo, che guarda ad atmosfere visive alla Wajda e Zanussi. L’umore però non migliora nello scorrimento della storia, con personaggi depressi, perversi, o al meglio dalla doppia vita. Il plot inoltre non è dei più esplosivi. Nulla di visivamente pregiato o nuovo, se non fosse l’ennesima, serissima mutazione di Jim Carrey. Senza di lui come sbirro all’ultima spiaggia, o Charlotte Gainsbourg nella una parte viscida, sarebbe rimasto nel Limbo dell’anonimato.