Hanno vinto l’ultima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, la kermesse capitanata per il secondo anno consecutivo dal giornalista e critico cinematografico Pedro Armocida. Con The First Shot, coproduzione italo-cinese, i giovanissimi Federico Francioni e Yan Cheng confermano il loro talento.
Già presenti a Pesaro lo scorso anno con il doc Tomba del tuffatore (di cui avevamo parlato qui), i due registi, diplomatisi al Centro Sperimentale di Cinematografia dell’Aquila, tornano ad indagare l’uomo attraverso la macchina da presa: se nel primo lavoro ci si chiedeva cosa rimanesse di un passato importante nel nostro presente, la domanda adesso riguarda quale presente e soprattutto quale futuro aspettarsi, se il passato è sepolto e dimenticato.
Il film segue tre ragazzi cinesi, tre esistenze distanti e differenti colte nella stessa tensione: la ricerca della propria identità e del senso dello stare in un presente di continua trasformazione. Ognuno di loro è nato dopo il 1989, la fine di tutte le rivoluzioni. Alle loro spalle si intravede una storia contraddittoria, di sofferenze e continue trasformazioni, dalla caduta dell’Impero all’era moderna, che ha inizio col primo sparo rivoluzionario, il 10 ottobre 1911.
Abbiamo raggiunto al telefono uno dei due registi, Federico Francioni, al quale abbiamo chiesto di più su un film che per la giuria «mostra che il cinema è ancora possibile».
[questionIcon]Come nasce l’idea del film?
[answerIcon]Io e Yan Cheng avevamo già lavorato insieme su Tomba del tuffatore, e ci piaceva l’idea di continuare su quella strada – la possibilità di avere uno sguardo in movimento, per cogliere segni, frammenti, sulla base di un’idea più ampia, a volte mitica (e da qui nasce anche il logo “Cinevoyage” che abbiamo creato per i nostri lavori insieme).
In occasione del capodanno cinese Yan Cheng ha passato qualche settimana in Cina, e quando è tornato abbiamo passato molto tempo a parlare della situazione lì; aveva incontrato alcuni suoi amici, e mi parlava del senso di angoscia che aveva avvertito stando con loro. Da lì abbiamo iniziato a ragionare su questo momento di passaggio, gli anni ’90, e sulla generazione nata in quel momento storico, cresciuta perdendo la propria coscienza storica – il 1989 di Tienanmen, era stato giusto qualche anno prima, ma le tracce andavano già perdute: da lì si è passati a una fase di trasformazione e cambiamento radicali, con lo sguardo unicamente teso verso il futuro.
[questionIcon]La Storia, il passato: già nel vostro primo lavoro era presente una riflessione sul passato (il manufatto funerario, la villa di Ravello) rispetto al presente (il turismo passivo, gli ecomostri abbandonati). In The First Shot sembra quasi vogliate rispondere alla domanda lasciata in sospeso nel primo film, dimostrando quanto la mancanza della memoria del passato si traduca in una difficoltà di vivere il presente e forse nell’impossibilità di immaginare un futuro.
[answerIcon]Non abbiamo mai affrontato il passato in modo diretto se non nelle prime immagini, ma è qualcosa che permea il presente, e la vita stessa, di questi ragazzi: è da quella Storia rimossa che nasce l’angoscia, la difficoltà di dare un senso a quello che gli accade intorno, perso in un continuo cambiamento. Il futuro per loro è una dimensione che ha perso di idealismo, perché non hanno alcuna capacità di incidere sulle trasformazioni in atto – in Cina è un sensazione evidente, ma è un processo universale, che colpisce anche l’Italia per esempio, in misura ridotta. Quando abbiamo conosciuto Yiyi, lei viveva a Londra, studiava moda e non si era mai posta nessuna domanda sulla propria famiglia – e infatti per lei è stato molto doloroso tornare nel villaggio dei nonni, quando le abbiamo chiesto di affrontare insieme questo viaggio. Lì c’era stata solo un paio di volte in vita sua, accompagnata dai genitori.
La sua parte si conclude con un’affermazione netta: “Non ho messo alcun passato nel mio futuro”. Adesso a distanza di quasi due anni da quando abbiamo girato il film, quando ci ripensa dice di vergognarsi di quelle parole. In qualche modo questo viaggio che abbiamo affrontato è stato anche un riscoprire certi aspetti finora trascurati, insieme.
[questionIcon]«All’improvviso una tempesta spazza via il sangue di Tiananmen. La metafora è tanto grande che diventa metonimia e la metonimia è il cinema. Una cosa E l’altra. La E è fondamentale. La E è il cinema. Non c’è commento né finzione. Una via di mezzo, tutto è cinema. Noi che facciamo film ringraziamo due giovanissimi cineasti che ci mostrano che il cinema è ancora possibile. Grazie». Con questa motivazione la giuria del Festival di Pesaro ha premiato il vostro film. Una motivazione che è non solo un riconoscimento per il percorso che avete fatto, per il vostro talento, ma anche uno sprone: come ci si sente all’indomani di un premio così prestigioso? Cosa cambia – se cambia – adesso?
[answerIcon]La motivazione della giuria, presieduta da un Maestro come Joao Bõtelho, ci ha profondamente commossi. È stato già un miracolo riuscire a presentare il film in pubblico. Non è stato un percorso facile, abbiamo scontato alcuni problemi burocratici in passato, e non solo, che per fortuna con questo premio ci siamo messi alle spalle. Con Yan Cheng abbiamo intenzione di proseguire insieme, anche se ci siamo temporaneamente separati. Lui, dopo molti anni, ha deciso di tornare per qualche tempo in Cina; io ho fatto un’esperienza in Francia, e ho avviato un lavoro documentario lì che mi piacerebbe molto continuare; prima o poi mi piacerebbe anche approcciare la finzione. Per noi il Nuovo Cinema di Pesaro è un cinema che propone delle idee, un’interpretazione, uno sguardo in movimento sulle cose – la nostra società ha un vitale bisogno di questi stimoli.
[questionIcon]«Circa il 50% di questo film è stato girato con l’iPhone», recita un cartello sui titoli di coda. Come a ribadire a livello stilistico quanto emerge a livello contenutistico (lo spaesamento di una generazione che ha perso la memoria): perché questa scelta?
[answerIcon]Il mezzo in sé, in questo caso l’iPhone, non ha valore di significato se non si inserisce in un discorso di stile, di linguaggio. Poteva essere qualunque altra camera con una risoluzione decente. In questo caso, in alcuni momenti, è stato fondamentale girare con il cellulare – ed è sicuramente uno strumento strettamente connesso alla generazione che andavamo raccontando. Con l’iPhone potevamo avvicinarci ai soggetti, senza essere invasivi; è un modo di girare che può essere molto intimo, spontaneo, a volte anche leggero. Ci sono poi alcune sequenze di rallenty, oppure dettagli che emergono nel caos: col telefono queste “emergenze” della realtà vengono catturare esattamente come un “frammento”, per quello che sono al nostro sguardo. In questo senso l’iPhone è uno strumento prezioso, permette un’immediatezza che sarebbe difficile ottenere altrimenti. Ha anche una qualità particolare, a volte ci siamo trovati con delle immagini molto belle, che mancavano di profondità: come se ci fosse una piattezza costitutiva. Ed effettivamente si tratta di uno schermo molto sottile, attraverso cui oggi passa, e vive, gran parte del mondo sociale.