“Onyricon” del 22enne Andrea Gatopoulos è un corto che tenta di oltrepassare i confini del narrativo alla scoperta del linguaggio: «non ha la pretesa di concludere, ma soltanto di accadere» (parole dell’autore). Abbiamo parlato con Andrea, tentando di venire a capo delle sue influenze culturali e riflettendo sulle sorti del cinema d’autore, italiano e non.
Il film si apre con una citazione di Godard, subito dopo compare una bibliografia, un’anomalia che non passa inosservata, e che rimanda all’ambiente accademico. Qual è la tua formazione?
Io vengo dalla letteratura e dalla pittura. Il mio film si comporta come un romanzo d’avanguardia, è una forma in divenire, che vede la sua stessa genesi. C’è la statuaria classica, c’è Vermeer, Michelangelo, David, i cromatismi di Lynch, il suono di Antonioni, Sorrentino, Bela Tàrr, Godard. È un momento della mia vita di intenso studio, cerco le somiglianze tra le varie espressioni dell’uomo, per tentare di capirlo: mi passerà e ci saranno delle storie, allora.
Ecco, Godard. Aprire un film con una citazione vuol dire preparare lo spettatore offrendogli un certo bagaglio di attese. Non penso a Godard come a un costruttore di sogni attraverso il cinema (semmai li demolisce), mentre il tuo film mette in scena proprio un sogno (forse un incubo), più in linea con registi interessati alla costruzione di atmosfere, come Fellini, ad esempio, o Lynch che hai citato.
Godard reputava morto il cinema, perché aveva smesso di interagire con la realtà. È stato il più brechtiano di tutti i registi, assieme a Pasolini (ho rubato da lui l’idea di una bibliografia): pretendeva che lo spettatore diventasse parte attiva di una riflessione. Fellini diceva che “il vero realista è il visionario”, e ha messo in scena la spettacolarizzazione del quotidiano: è stato un anticipatore di un certo modo americano di fare cinema. Riguardo a Lynch: interrogarsi su Eraserhead o Inland Empire significa snaturare film che si muovono sotto pelle, che non pretendono di “parlare”, che ci educano all’irrazionale (come voleva Huxley!). Il mio film ha provato a mettere insieme alcune di queste cose.
Il regista, l’attrice, il pittore, la macchina da scrivere, il giocoliere, il teatro, le statue: tutto rimanda all’arte, allo spettacolo, allo sguardo. È il sogno/incubo di chi? Dell’artista ossessionato dalla perfezione?
Non solo l’artista è ossessionato dalla perfezione, ma anche l’uomo qualunque. È questo che ci fa sembrare dolorosa l’imperfetta normalità. Il mio film comincia con un tasto di pianoforte, suggestione da David Foster Wallace, che rimanda all’uomo contemporaneo di Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo: l’uomo è un tasto di pianoforte costretto a suonare una musica scelta per lui da un destino/dio/natura. Quando sul tasto irrompe il dito, comincia una volontà di potenza, il film, una ricerca della verità nella sfera della comunicazione tra i personaggi, che fallisce. È il normale iter del pensiero umano, con il quale ci separiamo, ci uniamo, tentiamo il contatto, diventiamo cosa nuova, muoriamo…
Negli ultimi anni ci sono stati due rilevanti casi di registi considerati “autori” che, vuoi o non vuoi, di fronte a impegni produttivi più grossi hanno cambiato rotta stilistica. Mi riferisco a Garrone e Iñárritu. Un compromesso necessario? Quale futuro vedi per il cinema d’autore, in particolare in Italia?
Di Iñárritu ho apprezzato Birdman e The revenant, ma non conosco la sua filmografia precedente. Reality e Il racconto dei racconti, assieme a La grande bellezza e a Sangue del mio sangue, segnano un ritorno della cultura italiana nel cinema. Il cinema d’autore fa sempre un passo in avanti verso il futuro e uno all’indietro verso le origini. Non vedo queste operazioni come un compromesso, ma come una riaffermazione della propria identità. Il cinema d’autore, in Italia, difficilmente sarà un cinema italiano: italiani saranno quei film che guarderanno indietro, alla ricostruzione. Tutti gli altri apparterranno a una nuova cultura: oggi è l’americo-italiano, forse tra vent’anni sarà contaminato anche dalla cultura islamica. Nemmeno il mio film può dirsi “italiano”, ma d’altronde non lo sono completamente nemmeno io.