Dall’underground alla moda, fino alle più varie forme di comunicazione audiovisiva: Omar Rashid non smette di sperimentare i linguaggi del mondo dei media in continua espansione. Co-fondatore del progetto multimediale Gold, è uno dei referenti più autorevoli per la realtà virtuale in Italia. Ha realizzato lavori in VR che si relazionano con il teatro, con il cinema e con il documentario; in questa conversazione ci ha parlato dello stato attuale di questa tecnologia, delle sue caratteristiche, nonché dell’obiettivo di definire un linguaggio ancora tutto da scrivere.
Qual è stato il percorso professionale che ti ha portato alla VR?
Mio padre lavorava nel settore della moda e mi ha indirizzato verso quegli studi. Avevo inoltre una grande passione per il cinema e la comunicazione underground: facevo i graffiti quando ero più giovane. Finiti gli studi ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’abbigliamento streetwear, prima a New York e poi in Italia. È così che mi sono avvicinato all’audiovisivo, impiegando tecnologie sempre nuove, come la realtà aumentata nel 2013 e poi la realtà virtuale nel 2015. Da lì è iniziato un percorso di ricerca su questo linguaggio.
Quali stimoli e opportunità in più offre la VR a un regista rispetto all’audiovisivo a due dimensioni?
Premesso che il mio punto di riferimento principale rimane il cinema, nella realtà virtuale ci vedevo uno spazio in comune, perché per me quello in realtà virtuale resta un cortometraggio, semplicemente è girato con un linguaggio rivoluzionario. Ad esempio, lo sguardo in macchina nel cinema è qualcosa che porta fuori dalla narrazione, nella VR è invece qualcosa che porta dentro. Il dover scrivere la grammatica di un nuovo linguaggio mi è sembrata una sfida stimolante, sicuramente ambiziosa, ma che valeva la pena percorrere.
In che modo, secondo te, possono interagire VR e cinema?
Possono interagire nello stesso modo in cui il cinema interagisce con il teatro: sono due linguaggi diversi, ma si può parlare sempre di narrazione, di recitazione, di coordinare una serie di talenti per ottenere un risultato. Il cinema ci porta a vivere le storie come spettatori esterni, il teatro ce le fa vivere in tempo reale, fornendo occasioni di interagire con esse. La VR è una via di mezzo: ti dà la sensazione di essere lì, mentre le cose succedono, ma ti mette comunque nella posizione di spettatore. Oggi la VR va in due direzioni: quella del 6DOF, che permette di muoversi in uno spazio e interagirvi, con sei gradi di movimento; e poi quella del 3DOF, quella che faccio io, con tre gradi di movimento e molto più vicina al cinema, perché ci permette di vivere un’esperienza voyeuristica, però dall’interno del contenuto.
Per la fruizione dei video in VR ci sono già piattaforme come YouTube e Facebook. Credi che siano adeguate?
Youtube e Facebook consentono di vedere su un monitor dei video a 360°, ma è importante distinguerli a livello produttivo da quelli realizzati per il visore, in cui ci si possono permettere altri tipi di movimenti di camera. Il problema principale della tecnologia VR è la distribuzione: non c’è una così grande disponibilità di visori, né una piattaforma definitiva. Facebook e Youtube nascono per altro e si sono affacciate in seguito alla VR, poi ce ne sono altre frammentate: Oculus ha la sua piattaforma, così come HTC e PlayStation, ognuna con dei propri contenuti; oppure ci sono Netflix e Prime che hanno una piattaforma VR ma senza contenuti originali. Noi ci proponiamo di portare i visori alle persone e per farlo abbiamo sviluppato un’app per promuovere il nostro modello di distribuzione: da una parte giriamo con dei nostri visori in delle città d’Italia dove proviamo a presentare i nostri lavori; dall’altra lavoriamo al progetto “Saletta VR”, in modo da avere una mappatura di luoghi in cui rimanere permanentemente. Una volta che si sarà venuta a creare una massa critica, per cui la gente è stimolata a comprare un visore, allora si potrà veramente pensare a un mercato funzionante, insieme alla scelta della piattaforma più adeguata.
Rimanendo su Facebook: qual è il tuo parere sul metaverso?
All’inizio il metaverso può sembrare una cosa distopica, ma in fondo è solo un mezzo con delle potenzialità comunicative interessanti. Quello che non mi convince di Facebook è che sta raccontando un metaverso già vecchio, già esplorato da Fortnite ad esempio. Secondo me Zuckerberg sta sbagliando approccio, perché sta spingendo troppo sul fatto che ognuno abbia un visore in casa, quando è difficile se non si è un addetto ai lavori o un gamer. Prima bisogna abituare la gente a indossare il visore, spostare subito l’universo social sul virtuale in questo modo significa un po’ bruciare le tappe, oltre che cercare di monopolizzare il mercato.
Che tipo di strumentazione occorre per realizzare le riprese in VR? Usate più telecamere contemporaneamente oppure degli obiettivi particolari?
Il concetto alla base è quello di riprendere tutti i punti di vista dal centro. Esistono delle camere fatte di due obiettivi e due sensori, altre con sei obiettivi e sei sensori, oppure possono essere assemblate. In alternativa, si possono riprendere dal centro con la stessa camera tutti i punti di vista, ma in momenti separati. In ogni caso, con il passaggio successivo, che si chiama “stitching”, si vanno a ricucire tutte queste riprese.
Per simulare il movimento in prima persona usate un casco sull’operatore?
Sì, però il movimento in prima persona è qualcosa di più adatto alla fruizione con un monitor. C’è chi lo fa con dei contenuti per il visore, ma in questo modo si genera il motion sickness, provocando un effetto straniante. I movimenti di macchina sono molto delicati quando si crea qualcosa per il visore.
Come funziona l’illuminazione nei set per delle riprese in VR?
Nella VR non esiste il set come è inteso nel cinema, perché tutto quello che è in scena deve essere ripreso, quindi non c’è né regista né operatore. L’illuminazione è molto impegnativa sotto questo punto di vista, la luce non deve cambiare mai, altrimenti quando si vanno a ricucire le riprese si notano le differenze. Una volta, per fare un video di un minuto e mezzo siamo stati otto ore a sistemare le luci in modo da nascondere tutte le ombre per iniziare a girare.
Per la postproduzione si usano i software classici? Oppure esistono dei software dedicati?
Per quanto riguarda lo stitching esistono dei software dedicati, come Mistika, che è quello che usiamo di più. Quando si va al montaggio si impiegano i software classici, perché i video “ricuciti” si possono trattare come video per il cinema.
In termini di produzione e diffusione, quali prospettive vedi per l’impiego del VR in Italia?
Girando per festival cinematografici ci si accorge che iniziano a comparire sezioni dedicate alla VR. Io credo che abbia un grande potenziale, perché offre un’esperienza collettiva da provare fuori casa, in alternativa al cinema. Io ho avuto la possibilità di lavorare con attori di cinema perché anche loro la vedono come un’opportunità nuova per il proprio mestiere. Sono convinto che la VR partirà, noi stiamo facendo il possibile per accelerare i tempi, ma richiede contenuti all’altezza che convincano le persone. Noi abbiamo fatto lavori che hanno riscosso un buon successo, anche con Elio Germano, il cui nome è già un traino importante per portare persone di tutte le età a provare il visore.
Su cosa state lavorando ora?
In ambito produttivo stiamo lavorando a progetti che guardano al teatro, perché si prestano più facilmente a trasposizioni VR con uno spazio circoscritto e in tempo reale. Così come si presta bene all’ambito documentaristico: ad esempio abbiamo ripreso un vulcano in eruzione in Islanda con un drone. Ci piace portare le persone in luoghi per loro inaccessibili, come fecero i fratelli Lumière all’inizio della storia del cinema.