Al suo terzo film dopo “Circuito chiuso” (in cui si rifaceva al filone found footage) e il thriller “The Stalker”, Giorgio Amato cambia registro proponendo una caustica e disincantata black comedy.
Nel suo nuovo lavoro il regista milanese narra con tragica ironia e buon senso del ritmo la storia di un imprenditore in crisi che, per evitare la bancarotta della propria società, invita un ministro a cena in casa propria per corromperlo e ottenere un ricco appalto.
Quello che emerge da Il ministro è un microcosmo popolato da personaggi infimi e cinici il cui unico orizzonte è rappresentato dal proprio tornaconto. Persino i rapporti familiari si rivelano un coacervo di indicibili bassezze e non c’è davvero nessuno che si riesca a salvare. In un simile contesto, va da sé che non possa essere contemplato alcun tipo di redenzione. O meglio, come ha affermato Giorgio Amato durante la nostra intervista «la sola possibile redenzione non è legata a un’evoluzione dei personaggi, bensì alla fine che fanno».
Ma andiamo con ordine e, attraverso le parole dell’autore, scopriamo qualcosa in più su questo audace piccolo film indipendente e a bassissimo budget.
Qual è stato lo spunto dal quale sei partito?
La scintilla iniziale è stata la ballata di Fabrizio De André Il re fa rullare i tamburi, un brano non molto conosciuto della sua discografia in cui si riprende un testo medioevale per raccontare il dramma di un marchese che cede la moglie al sovrano per obbedienza e opportunismo. Una canzone molto triste che mi ha fatto riflettere su come oggi le cose non siano cambiate granché. Certo, magari non si è disposti a tutto per un titolo nobiliare, ma per qualcosa come un appalto che ti può risolvere la vita sì. Quando pensavo ai miei personaggi avevo sempre in mente l’intercettazione di quei due imprenditori che ridevano dopo il terremoto dell’Aquila. Persone prive di coscienza che non si fermano davanti a niente e che sono disposte a tramutare qualsiasi tragedia in oro.
Il film ha un ritmo incalzante e stimola in maniera costante l’interesse dello spettatore, nonostante sia quasi esclusivamente girato all’interno di un appartamento e nell’arco di una sola notte. Come hai lavorato sulla scrittura per ottenere questo risultato?
Fin dall’inizio ho pensato a tutta una serie di elementi narrativi che mi portassero a creare una tensione che potesse poi condurre i vari personaggi a un punto di rottura. A questo scopo ho cercato di lavorare molto sulle contrapposizioni e così ho delineato ad esempio l’imprenditore e la moglie come due figure agli antipodi, il conflitto tra lui e il cognato o la ballerina di burlesque. Quest’ultima in particolare, ambigua e imprevedibile, poneva sul piano narrativo le condizioni affinché la serata potesse andare diversamente dai piani dell’imprenditore.
In tutto questo contesto l’apporto degli attori è stato senz’altro fondamentale…
Assolutamente. Questo è un film in primis di sceneggiatura e di interpretazioni, tant’è che dal punto di vista registico mi sono voluto ridurre al minimo lasciando spazio agli attori. Gianmarco Tognazzi è stato per me una grande scoperta e credo sia uno degli attori più sottovalutati del panorama cinematografico italiano. Con lui abbiamo lavorato insieme su ogni minimo dettaglio. Alessia Barela invece è arrivata sul set all’ultimo momento per sostituire un’altra attrice ed è stata estremamente disponibile e ricettiva rispetto alla mie indicazioni, così come Edoardo Pesce e Jun Ichikawa, la quale si è dimostrata bravissima ad adottare diversi registri recitativi in base al personaggio con cui doveva interagire. Con Fortunato Cerlino infine abbiamo lavorato molto a livello di preparazione ed è stato molto propositivo, chiedendomi di apportare delle modifiche al personaggio.
Determinati temi e approcci rimandano chiaramente a un certo tipo di commedia all’italiana. Ti sei ispirato a qualche film in particolare?
Mentre scrivevo ho cercato di tenere bene a mente la lezione di registi come Mario Monicelli e Dino Risi, che riuscivano a raccontare uno spaccato della nostra società attraverso personaggi che ben la rappresentavano. Sono partito nello specifico da I mostri di Risi, di cui mi è sempre rimasto impresso il primo episodio in cui Ugo Tognazzi offre al figlio quella celebre lezione di diseducazione civica. Mi piaceva l’idea che quel bambino, allora interpretato da Ricky Tognazzi, potesse essere nel frattempo cresciuto diventando l’imprenditore interpretato nel mio film da Gianmarco Tognazzi.
Quanto è difficile fare un film indipendente in Italia? Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato?
La cosa più complicata è legata all’organizzazione, perché non puoi permetterti di pensare soltanto alle riprese, a come posizionare la macchina da presa o al rapporto con gli attori, ma devi tenere un po’ tutto sotto controllo. In questo film tra le altre cose mi sono dovuto occupare anche del carico dei materiali come degli accordi con il catering, oltre che della gestione del budget in quanto produttore esecutivo. Alla fine però quello che conta davvero è avere le idee chiare quando si arriva sul set. Chissà, magari avere più budget non mi avrebbe consentito di essere così concentrato e fare le cose nel modo in cui le ho fatte.