Dopo essersi formata negli USA, Manuela Cacciamani è tornata in Italia per dimostrare che anche qui è possibile produrre il giovane cinema di genere. A dimostrarlo il thriller In fondo al bosco, co prodotto con Sky e in questi giorni nelle sale.
La produttrice Manuela Cacciamani si è prefissata un obiettivo ambizioso, ossia dimostrare che la qualità cinematografica non dipende solo dal budget e che la cosiddetta digital disruption, ossia la ricerca di novità digitali per anticipare i bisogni e facilitare la vita, può essere applicata anche al cinema. Con questo scopo nel 2006 è nata la One More Pictures, casa di produzione incentrata sulla realizzazione di film di genere, che è riuscita a ottenere grande interesse internazionale, soprattutto negli Stati Uniti, con Fairytale aka Haunting of Helena e Neverlake.
In occasione della presentazione di In fondo al bosco, secondo lungometraggio di Stefano Lodovichi prodotto dalla One More Pictures insieme a Sky e in sala con Notorious con 110 copie, Manuela ci ha spiegato come è possibile realizzare quello che a volte può sembrare impossibile. Ossia lanciarsi nella produzione di horror, thriller, sci-fi e family movie e vivere artisticamente felici. Merito, probabilmente, anche di una lunga preparazione e di una versatilità professionale che la vede impegnata anche in campagne pubblicitarie e video musicali.
Quali caratteristiche deve avere oggi un produttore in Italia, coraggio, incoscienza o passione?
Io volevo fare questo lavoro fin da ragazzina e non ricordo nemmeno il perché. Ho studiato per farlo e si tratta di un fattore importante che non deve essere assolutamente sottovalutato. Penso che per rivestire questo ruolo bisogna seguire l’istinto, saper individuare una storia che abbia sani elementi di marketing, intercettare i talenti giusti per quella storia e infine convincere altri finanziatori a investire insieme a te su di loro. Sono caratteristiche da cui non si può prescindere se si rischia in prima persona. E poi c’è soprattutto la passione e la mia è una passione vera e, in venticinque anni che sono in questo settore, non ho mai desiderato fare altro.
L’elemento fondamentale, dunque, sembra essere l’accettazione del rischio.
Per iniziare ho scelto di sostenere molti rischi producendo con budget molto bassi storie assolutamente visionarie e sempre di genere. I miei primi due film sono nati grazie alla volontà di RAI Cinema di produrre dei prodotti per il web in Italia, ma poi sono stati venduti in molti paesi e sono usciti in sale internazionali, in USA, Turchia e Messico per citarne alcuni. Neverlake, ad esempio, è per due anni in esclusiva negli Stati Uniti su Netflix. Il tutto ottenuto anche grazie alla forza di volontà degli autori e delle maestranze, che volevano a tutti i costi fare un certo tipo di film seppur con micro budget. Un risultato che devo anche al mio lavoro con le produzioni internazionali. Io sono nata e cresciuta negli stabilimenti di Cinecittà, dove mio padre ha lavorato per cinquant’anni come responsabile della vigilanza: grazie a lui ho avuto la fortuna di conoscere professionisti come Laura Fattori. A 21 anni ero già a New York, ma quando sono tornata in Italia ho pensato che si potesse applicare lo stesso modello produttivo, anche se tutti dicevano esattamente il contrario. A quel punto ho continuato a seguire la mia visione e mi sono rimessa a studiare immergendomi nel mondo dei VFX e dell’animazione. Oggi sono azionista e CEO della Direct2Brain.
La tua attenzione va soprattutto verso il cinema di genere. Gioie e dolori di questa scelta produttiva?
È pericoloso perché basta pochissimo per sbagliare quando molto si basa sulle atmosfere: i rischi della produzione sono sempre dietro l’angolo, ma quello vale indipendentemente dal genere. Io continuo a lavorare nei video musicali, come ad esempio il prossimo di Fedez e Mika, Beautiful Disaster, e negli spot pubblicitari televisivi perché mi permettono di sperimentare: qui si deve investire in poco tempo su dei risultati dal forte impatto visivo. Questo mi dà la possibilità di non implodere nella mia visione e avere un confronto costante con l’esterno, di osservare i nuovi talenti e seguirne la tendenza. Il dover dialogare anche con la post produzione di una pubblicità, di un video o di un film (ad esempio abbiamo appena finito di occuparci del prossimo film di Natale di De Laurentiis Natale con il boss), obbliga me e i miei ragazzi al confronto con sguardi diversi dal proprio.
Lo chiamavano Jeeg Robot, presentato all’ultima edizione della Festa di Roma, sembra dimostrare come il cinema di genere italiano stia guadagnando in spazio e qualità. Qual è la tua opinione?
Si tratta di un’evoluzione naturale. I giovani autori vengono e ti propongono cose di questo genere. Sono cresciuti tutti tra gli anni Ottanta e Novanta, quindi i loro progetti nascono sotto l’influenza di queste spinte culturali. Le nuove piattaforme digitali, inoltre, aiutano i film di genere rendendoli accessibili al pubblico giusto. In questo modo a una diversificazione del mezzo di distribuzione risponde anche quella del prodotto che deve essere offerto. E in questo movimento il genere può trovare lo spazio adatto.
Ma è possibile produrre un buon fantasy europeo?
Assolutamente sì. Sul fantasy c’è la convinzione che per fare un buon film ci vogliono molti soldi. Ed è anche vero, molto però dipende con chi ti metti in competizione. Se il tuo scopo è concorrere con le majors perdi in partenza. Bisogna mettere in campo la tradizione italiana e il nostro genio artistico. Il che vuol dire ingegnarci a trovare le storie, dove è possibile coniugare la natura fantasy con un budget europeo. In Italia siamo pieni di leggende e potremmo partire proprio da queste. Ad esempio, il prossimo film che stiamo portando avanti con RAI Cinema e BLS, sarà basato sulla storia di una mummia per dar vita a un family movie. Ovviamente si dovrà fare un gran lavoro in CGI, ma troveremo un modo per farlo. C’è sempre una soluzione per tutto. È la costanza nel volerla trovare che fa la differenza.