Definirlo un giovane attore sarebbe riduttivo, perché Guglielmo Poggi è sì un attore emergente di talento ma è anche musicista, narratore di storie e regista. Classe 1990, dopo tanti ruoli in cui si è egregiamente cimentato – come in alcune piccole ma interessanti parti come “avviatore di storie” (Smetto quando voglio, L’estate addosso, Beata ignoranza) – o altre in cui ha avuto ruoli più importanti – come ne Il nostro ultimo di Ludovico Di Martino – arriva il suo primo ruolo da protagonista, nel lungometraggio d’esordio di Valerio Attanasio, Il tuttofare (Vision Distribution, al cinema dal 19 aprile) che racconta una vicenda tutta italiana e molto attuale: quella di Antonio Bonocore, praticante in legge, che sogna un contratto nel prestigioso studio del suo mentore, il principe del foro Salvatore “Toti” Bellastella (Sergio Castellitto) ma, disposto a tutto pur di lavorare, si troverà in guai seri.
Guglielmo, com’è nata la tua passione per il cinema e la recitazione?
I miei genitori sono due bravissimi attori, ma inizialmente non erano favorevoli che intraprendessi questa carriera anche io, così all’inizio ho cominciato col doppiaggio. Quella è stata la scintilla, perché alla fine dovendo dare la voce a un personaggio, finisci col recitare insieme a lui.
Ed ora finalmente è arrivato per te un ruolo da protagonista in un’opera prima. Come sei stato scelto?
Per un attore come me, che fino ai 26 anni aveva fatto film belli ma sempre con parti piccole, quando è arrivato Il tuttofare è stato pazzesco perché mi sono visto proiettato in qualcosa a cui pensavo di arrivare fra anni. Io non sono uno facilissimo per i casting, perché sono a metà fra il caratterista e il primo attore, ma per questo film cercavano un interprete con una grande esperienza teatrale – ci sono scene molto lunghe, bisognava interagire con Castellitto – che sembrasse un ragazzino ma che non lo fosse veramente, e con una certa attitudine ai tempi comici. Dopo il disgraziato, il coatto, il fattone, ora interpreto uno studioso perfettino che non sa niente della vita. Questo è fare l’attore: viaggiare e allontanarsi da sé.
Lo sceneggiatore Valerio Attanasio con Il tuttofare firma la sua opera prima. Com’è stato lavorare con lui?
Con Valerio siamo praticamente cresciuti insieme, la vita ci ha fatto ricontrare (dopo Smetto quando voglio, dove lui era sceneggiatore) e già dal provino sentivo che quella parte io la avrei fatta meglio di chiunque altro, ma non per presunzione, perché ci sono degli artisti con cui ti capisci al volo. Tutto qui. E lui ha un modo di trattare temi seri con una leggerezza e ironia molto intelligente. Mette gli attori nelle condizioni di fare bene il loro lavoro. Non sentirai mai Valerio dire “dilla come la dici al supermercato”, mai, sul set non c’era nessuno che non recitasse, e questo secondo me è un modo alto di fare cinema.
Il film infatti è una commedia, nonostante la vicenda che racconta sia tremendamente drammatica e attuale.
Se questa storia non fosse raccontata come commedia sarebbe fin troppo inquietante, invece con un tono grottesco puoi dire le cose così come sono. Finalmente ecco una commedia su una generazione, quella dei millennials, il cui mondo del lavoro non era ancora stato raccontato. Antonio Bonocore – il mio personaggio – è in linea con un’idea di compromesso non solo professionale ma anche esistenziale. Non esiste un limite di dignità, di etica. Eppure l’etica dovrebbe garantirla la giustizia, e pur essendo lui un portento del diritto, sembra non sapere neanche che cosa sia. Conosco più di una persona che si è trovata ad affrontare una situazione non dignitosa o che ha dovuto accettarla perché era nella condizione di essere “sostituibile”. L’idea dell’insostituibilità non esiste più.
Il tuo boss, capo, datore di lavoro, che è interpretato da Sergio Castellitto, qui è un personaggio molto ambiguo. Com’è stato recitare a fianco di un grande attore come lui?
Sergio è stato straordinario perché ha avuto l’intuizione di interpretare il suo personaggio non come despota autoritario, ma anzi sempre sorridente, capace di lusingare le capacità di Antonio, esattamente come fa il potere: esalta una generazione di ragazzi capaci ma non dà loro i mezzi, e questa è esattamente la chiave del film.
Negli ultimi anni hai diretto alcuni cortometraggi che hanno avuto un grande successo. Quali sono i temi di cui vorresti parlare da regista?
Con Un po’ prima di sparire (2016) ho parlato di bulimia e in Siamo la fine del mondo (2017) ho raccontato un suicidio “in diretta”. Quello che ora vorrei raccontare è l’alienazione provocata dalle nuove tecnologie: temo che la mancanza di luoghi di aggregazione possa portare gli esseri umani a un futuro molto arido.
Cosa consiglieresti a un giovane attore che volesse intraprendere la tua carriera?
Gli consiglierei di tenere sempre i piedi per terra, ma prima ancora di dedicarsi a ciò che lo incuriosisce, andare a vedere una mostra o leggere un libro: il materiale per essere un bravo attore è ovunque. Siamo gli eredi naturali di Gassman, Manfredi, e non stiamo parlando di gente fotogenica che andava sul set e diceva due battute, stiamo parlando di grandissimi intellettuali, di artigiani del loro lavoro, persone incantevoli capaci di stupire sempre.