Ogni nuovo progetto di Giada Colagrande ha il sapore dell’ignoto. Giunta al sesto lungometraggio, il quarto di finzione, la regista abruzzese conserva quello spirito pionieristico da neofita del medium cinematografico che la guida nel realizzare solo opere che sente necessarie.
La sua visione, svincolata dalla logica industriale, abbraccia mondi altri e dimensioni invisibili, frutto del suo avvicinamento alla meditazione e alle discipline orientali, innestandovi uno stile ondivago che sembra occhieggiare più alla videoarte che al cinema narrativo. Non fa eccezione Padre, presentato in anteprima al Lucca Film Festival, che nasce dal vissuto della regista sublimando in un lutto fictional la recente perdita del genitore. «Fino a Padre ho sempre sostenuto che i miei film non fossero autobiografici» ci confessa Giada Colagrande «anche se sono infarciti di dettagli molto personali. Cinema intimo, ma non autobiografico. Stavolta, però, ho sentito il bisogno di usare l’arte per elaborare la perdita di mio padre, morto pochi mesi prima che iniziassi a scrivere il film».
Classe ʼ75, il corpo minuto avvolto in una tunica che ricorda nella foggia quegli stessi mondi lontani incrociati nella sua ricerca spirituale, Giada Colagrande è schietta e appassionata, ma i suoi occhi, profondi e neri come i lunghi capelli, suggeriscono un sottofondo esotico e misterioso. Sarà il calore tutto italiano unito al fascino enigmatico ad aver fatto breccia nel cuore di Willem Dafoe, che Giada ha sposato nel 2005, e che è presente anche in Padre. «Il film è nato su suggerimento della mia produttrice, Gaia Furrer. Eravamo a una proiezione del mio primo film, Aprimi il cuore, girato quindici anni fa a bassissimo costo con una troupe di amici e senza una vera produzione. Gaia mi ha spiegato che secondo lei era importante fare film più strutturati, per prendere confidenza con un sistema più professionale, ma al tempo stesso ha aggiunto che se non avessi fatto un’altra opera in totale libertà come Aprimi il cuore certi sentimenti sarebbero rimasti inespressi. Questa cosa mi ha colpito e dopo quella conversazione ho iniziato a fare dei sogni in cui vedevo frammenti di quello che poi sarebbe diventato il film. Ho continuato ad avere queste visioni nel sonno o durante la meditazione, così ho iniziato a trascriverle e quando ho raccolto un bel po’ di note ho capito che avevo in mano il film».
A interpretare i genitori di Giulia, alter ego di Giada in Padre, è una coppia che farebbe la gioia di ogni artista concettuale. Il padre, che compare in forma fantasmatica, ha il volto di Franco Battiato, mentre la madre, presente solo in un paio di Skype call, è la performer Marina Abramovich: «Non è stata una scelta razionale. Quando ho visto per la prima volta il padre fantasma in sogno era Franco Battiato. È un amico, lo considero il mio maestro, soprattutto per quanto riguarda il mio percorso spirituale, così l’ho chiamato raccontandogli che l’avevo sognato. Lui mi ha incitato a fare il film e si è reso disponibile per il ruolo. Tutto ciò che vedete nel film riguarda il vero Battiato. Sua è l’ossessione per i dervisci, i quadri che vedete nel film li ha dipinti lui. Questi temi sono suoi prima che miei». Per un Battiato padre defunto, ma sempre presente, Marina Abramovich interpreta una madre assente, lontana. «Mia mamma se l’è un po’ presa. Mi ha chiesto ‘Ma tu mi vedi davvero così?ʼ» ricorda la regista. «In realtà tutto questo l’ho visto in sogno. Ho sognato una videochiamata con Marina in cui la chiamavo mamma e la rimproveravo perché non era venuta al funerale di mio padre».
L’elaborazione del lutto, in Padre, passa attraverso un percorso iniziatico che permette a Giulia di entrare progressivamente in contatto con un’altra dimensione. Il film apre squarci metafisici che dirigono la riflessione su temi che fanno parte del percorso spirituale di Giada. «Ho scritto il film totalmente di getto, mai come in questo caso mi sono sentita guidata. Non è qualcosa che ho scelto di fare a tavolino, ma in fase del montaggio mi sono posta delle domande. Una cosa mi era chiara fin dal principio: volevo che le diverse dimensioni apparissero visivamente sullo stesso piano. È la protagonista che all’inizio non vede e poi vede. L’invisibile c’è sempre e per sempre, siamo noi che dobbiamo imparare a connetterci con esso. Cerco di vivere la morte delle persone care come un’occasione di risveglio. Franco Battiato è stato il primo ad avviarmi alla meditazione, lui è un sincretista, si abbevera a tutte le fonti e mi ha insegnato che ogni cultura possiede una tradizione esoterica comune legata alla morte. È ovvio che a livello personale è difficile farsi una ragione del dolore, ma cogliere queste connessioni mi sembra lo scopo più importante della vita».
Oltre ad aiutarla a superare un dramma personale, Padre ha permesso a Giada Colagrande di tornare a lavorare nella modalità che le permette di esprimersi al meglio: «Per il mio secondo film, Before It Had A Name, ho avuto un budget che per me era stratosferico, un milione di dollari. Il primo film lo avevo fatto a casa mia, a Roma, con sette amici e dieci milioni di lire. Il secondo lo abbiamo girato a New York con una troupe di trenta persone… per me è stato un incubo. Non ho avuto il final cut, il film è stato rimontato e i produttori hanno perfino cambiato il titolo. Alla fine non era più il mio film». Con l’esperienza, Giada ha capito cosa le è necessario per lavorare bene e cosa le risulta, invece, dannoso. «Non mi identifico con il regista che siede sulla sedia e dice agli altri cosa fare. Mi piace la collaborazione, ascolto i consigli. Sul set siamo tutti alla pari. Ci sono artisti straordinari che riescono a fare film d’autore all’interno di sistemi mastodontici come Hollywood. Io sposo la filosofia di Marina Abramovich, il suo mantra è Less is more. Con i soldi perdi la libertà. Meno mezzi significa più lavoro, ma per me l’ingrediente fondamentale sul set è l’intimità. Se manca, si fa fatica. Io sono fortunata a essere circondata da persone speciali, a partire da mio marito. Molti si aspettano che Willem sia una star e non si sporchi le mani. Invece se c’è da montare una mensola prende il cacciavite e lo fa. Viene dal teatro d’avanguardia, trentacinque anni fa ha fondato la sua compagnia dove faceva di tutto. Oggi so di cosa ho bisogno, la prima cosa sono le persone di cui ti circondi. Quando c’è la collaborazione, il resto passa in secondo piano».