Approdata su Netflix lo scorso 30 novembre, Baby è sicuramente la serie italiana più chiacchierata del momento. Nata con lo scopo di raccontare lo scandalo che nel 2014 ha visto protagoniste due baby squillo dei Parioli romani, la serie ideata dal collettivo GRAMS* si discosta fin dalla prima puntata dalla cronaca, preferendo mettere in scena un affresco corale.
Il regista Andrea De Sica, dopo I figli della notte, torna dunque dietro la macchina da presa per raccontare un’altra storia pensata, almeno all’apparenza, per gli adolescenti: «Il progetto nasce con un target definito, gli adolescenti appunto. Netflix voleva realizzare una serie young adults che fosse più graffiante rispetto alle canoniche produzioni nazionali. In Italia siamo abituati a prodotti teen popolati da simpatici cazzoni che vivono problematiche facilmente risolvibili, mentre con Baby abbiamo voluto raccontare una realtà differente, più drammatica ma anche maggiormente reale.»
Nonostante il pubblico di riferimento sia quello adolescenziale, credi che Baby possa piacere anche agli adulti?
Certo! In questi giorni alcune mamme mi hanno raccontato di essersi identificate con gli eventi della serie, soprattutto ricordando la preoccupazione che provavano quando i loro figli uscivano la sera. Secondo me questo è stato possibile perché le vicende sono raccontate con una tale serietà che anche una persona matura può facilmente rispecchiarcisi. Ad ogni modo, sono molto felice dell’ottimo riscontro nazionale e internazionale ottenuto dalla serie perché, nonostante il target di riferimento, abbiamo avuto commenti positivi tanto dai giovani, quanto dagli adulti.
In quanto serie young adult, Baby si confronta con archetipi narrativi abbastanza sfruttati nel cinema americano: c’è la brava ragazza che diventa cattiva, la festaiola fragile, il ragazzo omosessuale, il bello e dannato ecc. Come hai dato a queste figure bidimensionali uno spessore più definito?
Innegabilmente la serie adotta alcuni archetipi tradizionali delle produzioni teen ad ampio spettro, ma ho tentato di rifuggire qualsiasi stereotipo mantenendomi saldo ad una realtà tangibile e contemporaneamente universale. Non volevo realizzare una serie di denuncia o di cronaca, ma volevo raccontare con empatia la nuova generazione, mostrando l’umanità dei giovani e tentando di rendere universali le loro storie. Proprio per questo un espediente fondamentale è la coralità: al contrario de I figli della notte dove ho lavorato sull’astrazione, per Baby mi sono immerso nella quotidianità di diversi adolescenti, anche parlando direttamente con alcuni di loro, e ho cercato di restituirla sullo schermo. Significativo poi è stato l’apporto dei GRAMS*, ovvero il collettivo che ha sceneggiato la serie, i quali, essendo giovanissimi, hanno raccontato loro stessi e il mondo che li circonda.
Sembra che l’elemento comune dei tuoi progetti siano i teenagers. Non hai paura di legare troppo il tuo nome a questo tipo di figure, diventando una sorta di cantore degli adolescenti?
Questo non mi dispiacerebbe! L’adolescenza è stata una fase molto importante della mia vita, quindi raccontare questi anni mi piace. Inoltre, anche da un punto di vista prettamente cinematografico, amo ribaltare i canoni tradizionali a cui sono legati in Italia i prodotti teen. Ad ogni modo, non penso di meritare l’epiteto di cantore degli adolescenti: sono all’inizio della mia carriera e in futuro potrei raccontare altro. Ad esempio, al momento sto lavorando ad un progetto diversissimo, ovvero un horror che si discosta totalmente da I figli della notte e Baby… Però non posso dire altro.
Oltre allo sguardo sui giovani, un altro elemento ricorrente dei tuoi lavori è l’agiatezza economica dei protagonisti. Non ti piacerebbe raccontare altri ambienti sociali?
Io credo che un regista non sia un sociologo e che, nel momento in cui decide di dirigere un film, debba trovare una storia che gli sia congeniale, indipendentemente dallo status sociale dei protagonisti. In Baby, uno dei protagonisti è Damiano, un ragazzo che proviene dal Quarticciolo e che si ritrova catapultato nella realtà pariolina. Nonostante non sia ricco, questo personaggio è quello che ricordo con maggior affetto e che considero quasi come un figlio. La sua storia è stata pensata naturalmente dai GRAMS* ma io l’ho plasmato sullo schermo: per interpretarlo ho scelto Riccardo Mandolini, un attore non professionista che però si è dimostrato perfetto, anche perché infondo è realmente Damiano.
Nonostante la coralità, Chiara e Ludovica sono le protagoniste della serie. Dopo aver raccontato di un collegio maschile in I figli della notte, come è stato rapportarsi con dei personaggi femminili?
L’idea di confrontarmi con le figure femminili non mi ha fatto paura, anche perché sono convinto che nel mondo di oggi ragazze e ragazzi siano abituati a stare insieme e, proprio per questo, non ci sono più preoccupazioni nel dialogare e nel raccontarsi a vicenda. Tutte le polemiche sulle differenze di genere, che in seno al mondo del lavoro sono motivate, credo siano già superate da un punto di vista strettamente culturale, proprio grazie a una parità che si promuove fin dagli anni della scuola. Proprio questo mi ha permesso dunque di avere un confronto diretto con Benedetta Porcaroli e Alice Pagani, che mi hanno poi ripagato dicendomi di essersi sentite raccontate da un coetaneo.
Da un punto di vista produttivo, rispetto alla tua opera prima, sei entrato in un’azienda enorme come Netflix. Questa collettività ha influenzato il tuo lavoro?
Mi sono trovato benissimo con Netflix e penso che altrimenti Baby non sarebbe stata realizzata in questo modo, puntando cioè su ragazzi giovani e su uno stile dinamico. Questa serie è la prova che rispetto al passato oggi esiste una micro-cosmo che vuole rompere gli schemi produttivi a cui siamo stati abituati. Naturalmente, essendo comunque televisione, ci sono delle regole molto chiare, che non hanno però compromesso la mia libertà. Inoltre, fondamentale è stato il lavoro di squadra: Baby è nato come un progetto collettivo e lo è rimasto per l’intera fase produttiva e post-produttiva. Non credo che il regista debba avere un controllo assoluto sul prodotto, quindi anche durante le riprese c’era un costante dialogo con i GRAMS* e con lo showrunner Nicola De Angelis. Certo, a volte capitava di dibattere e scontrarsi, ma proprio questo mi ha permesso di crescere.
Baby è un progetto seriale e, come con ogni prodotto di questo tipo, non finisce la prima stagione che già si spera in una seconda. Le premesse per un seguito ci sono: c’è possibilità?
Non posso dire nulla a riguardo. Devo però ammettere che mi piacerebbe molto poterla realizzare: sono innamorato del mondo di Baby e sento un forte legame con tutti coloro con ne hanno preso parte, quindi sì, desidererei molto dirigere una seconda stagione.
Fotografie di Francesco Berardinelli.