L'articolo Simona Banchi: “Vi racconto Officina Pasolini” proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>L’offerta formativa prevede un biennio di corso più un anno integrativo che ha l’obiettivo di sostenere economicamente i progetti artistici per un totale di 45 diplomati ammessi. Un percorso che fornisce agli studenti e alle studentesse le competenze professionali e artistiche necessarie per inserirsi nel mondo del lavoro. Tutto completamente gratuito. Gli ammessi hanno tra i 16 e i 29 anni, ma il bando (consultabile online) permette l’ammissione fino ai 35 anni per particolari meriti artistici. Tra i docenti dell’Officina Roberto (Bob) Angelini, Giovanni Truppi, Walter Pagliaro, Alessandro Chiti, Alessandro Bonifazi, Paolo Ferrari e dal prossimo biennio Daniele Silvestri.
Tra gli ex-studenti Francesco Patanè, attore genovese protagonista di Ti mangio il cuore di Pippo Mezzapesa al fianco di Elodie e, prima ancora, coprotagonista con Sergio Castellitto de Il cattivo poeta, di Gianluca Jodice. «Officina è un mondo che ha una grande importanza a Roma e in Italia» ci confida «Permette agli artisti di formarsi in un modo unico perché gli insegnanti mettono al centro l’aspetto umano nella relazione con gli allievi. Ho scelto di fare questo mestiere anche grazie a Massimo Venturiello e Tosca, la direttrice artistica. L’incontro con loro è stato fondamentale per fare di questo gioco che amavo, di questa passione, un vero lavoro». Per sapere ancora di più di questo laboratorio di crescita professionale e artistica abbiamo dialogato con Simona Banchi, produttore di film come Takeaway con Libero De Rienzo o documentari come La maglietta rossa di Mimmo Calopresti e The Beat Bomb di Ferdinando Vicentini su Lawrence Ferlinghetti.
Officina Pasolini: quando e come arrivò l’idea per questo progetto formativo?
Sicuramente arrivò tutto da Tiziana Tosca Donati, Tosca, che aveva già realizzato con il supporto regionale corsi formativi per attori e cantanti. E soprattutto è partito dall’esigenza della Regione per l’impiego intelligente del Fondo Sociale Europeo, quindi dei soldi destinati alla formazione da parte dell’allora Assessorato alla Formazione, in quegli anni presieduto da Massimiliano Smeriglio. Esisteva già la scuola Gian Maria Volontè, prima provinciale e poi regionale, Officina Pasolini nacque due anni dopo. Abbiamo studenti che vengono da tutta Italia e anche da fuori i confini nazionali, ma resta un Progetto della Regione Lazio. L’obiettivo principale è quello di dare ai giovani gli strumenti per professionalizzarsi in mestieri “non convenzionali” come cantanti, attori e videomaker. Abbiamo voluto intestare l’Officina a Pasolini perché era una figura traversale della cultura, si muoveva su più discipline. Un grande scrittore, drammaturgo, regista, poeta e intellettuale.
Del vostro comitato tecnico scientifico ha fatto parte anche Glauco Mauri, da poco scomparso.
Quello per Glauco Mauri, un grandissimo del teatro, è un lutto molto sentito in Officina Pasolini. Tra i nomi che hanno fatto parte del comitato e che purtroppo ora non ci sono più vorrei ricordare anche anche Franca Valeri, Andrea Purgatori, che è stato anche docente di scrittura del corso multimediale; Luciano Sovena, che è stato AD dell’Istituto Luce nonché Presidente di Roma Lazio Film Commission; Armando Pugliese, attore e regista teatrale. Ci lasciano un grande vuoto.
Ora ci sono Carmen Consoli, Gino Castaldo, Steve Della Casa, Luca Verdone. Come si creano i programmi dei vostri corsi?
Sono sempre pensati in base alle esigenze attuali delle professioni. Ad esempio il nostro videomaker è una figura competitiva perché è in grado di gestire una piccola produzione audiovisiva. Inoltre tutti i nostri ragazzi seguono lezioni su sviluppo e produzione. Studiamo i bandi europei, regionali, del Ministero, e poi la produzione con tutto ciò che ruota intorno alla regia. Ma anche postproduzione audio e video, imparando export, conforming, montaggio, color correction e anche un po’ di animazione, dipende dagli studenti. Usciti da qui, poi molti di specializzano. Un mio ex-studente ora è al VFX del Centro Sperimentale; un altro sempre lì ma a Regia; tanti che hanno frequentato la Volonté poi scoprono qui la loro direzione. Molti dopo il nostro biennio tentano il Centro, e almeno uno o due l’anno entrano.
Dieci anni di Officina Pasolini. Sarà senz’altro difficile perché se ne conteranno un’infinità, ma quali sono i momenti più indimenticabili?
Il primo concerto al corso di Canzone fu chiuso da un brano scritto da un ragazzo che ora non c’è più: Federico, era bravissimo e tutti gli hanno voluto bene. Quando suonammo la sua canzone era come se lui fosse ancora qui. I momenti indimenticabili sono sempre legati a un successo dei ragazzi, piccolo o grande che sia. Una mia studentessa ha vinto il concorso a Cinecittà ed è stata assunta per il restauro digitale. Un’altra ha vinto recentemente un bando Rai per programmisti multimediali e ora lavora a Rai Doc. Un altro ragazzo uscito da Canzone, Lorenzo Lepore, ora è un bravissimo cantautore. Spesso se capito sui set di amici e colleghi, trovo qualcuno dei nostri ex allievi che lavora lì. Mi emoziona. La formazione è importante, ma poi l’anello finale è aiutarli a lavorare.
In questi dieci anni la digitalizzazione delle arti ha corso più che mai. Come si fa a stare al passo della tecnologia mantenendo però l’artigianalità e l’umanità di un’arte che deve svilupparsi insieme ai suoi giovani?
Non dimentichiamo che il digitale ha creato anche tante professioni. Spesso i ragazzi oggi sanno già usare la telecamera, hanno già buona manualità con l’audiovisivo, ma si tratta più che altro reel e social. Qui invece si confrontano con lo studio e la narrazione vera, a partire dalla scrittura. L’artigianalità? Se penso al mio lavoro di produttore nel passato mi torna il ricordo dei fax… Ma come facevamo a mandare gli ordini del giorno con i fax? Quindi viva la tecnologia e viva l’intelligenza artificiale, che i ragazzi utilizzano per realizzare cose visive altrimenti impossibili. Insomma, dobbiamo essere noi gli artigiani della tecnologia. Una esercitazione che facciamo spesso è rigirare scene di grandi film, e quest’anno i ragazzi hanno rifatto una sequenza di Matrix. Molta postproduzione video ma ricostruendo le scenografie molto artigianalmente.
Agli anniversari importanti si fanno anche dei bilanci. Guardandosi indietro cosa la emoziona di più, cosa la rende più orgogliosa e cosa vede nel futuro?
I ragazzi, i loro lavori, anche se sgangherati, i complimenti che mi fanno quando mando qualcuno di loro a lavorare da qualche parte. Questo mi rende orgogliosissima e mi fa stare bene. Soprattutto perché ho la fortuna d’insegnare il mio mestiere. Quindi è emozionante tramandarlo. Vedi che così alla fine ritorniamo sempre alla bottega dell’artigiano? E poi il futuro… Il futuro è oggi.
Per tutte le informazioni consultare il sito: www.officinapasolini.it
Per iscriversi al bando consultare questo LINK
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]]>INGRESSO LIBERO
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]]>L'articolo Cinematographer’s Brunch 4: a Roma il futuro sostenibile del cinema italiano proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Questa edizione si arricchisce grazie alla presenza di personalità che hanno affrontato con carisma la lotta per l’ambiente: il Presidente del Consiglio Generale della Fondazione UniVerde, ex Ministro dell’Ambiente e dell’Agricoltura Alfonso Pecoraro Scanio; il Direttore di Teleambiente Stefano Zago; la delegazione dell’ONG Green Cross Italia fondata da Rita Levi-Montalcini (filiale nazionale della Green Cross International di Mikhail Gorbaciov); il Presidente di Retake Roma Cristiano Tancredi ed il Dirigente di Slow Food Alessandro Ansidoni.
La loro partecipazione testimonia l’importanza crescente dell’evento: nato nel settembre 2022 durante la 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il Cinematographer’s Brunch si pone sempre più come anello di congiunzione tra produzioni cinematografiche e transizione ecologica, anche grazie al dialogo tra realtà di settore, maestranze e direttori della fotografia determinati ad esplorare soluzioni innovative per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni audiovisive.
L’urgenza di un cambiamento è ormai ineludibile, come sottolineato nel corso della terza edizione dal noto geologo, divulgatore scientifico e saggista italiano Mario Tozzi. Con l’appuntamento del 6 ottobre 2024 la manifestazione promette di essere ancora più ambiziosa e fungere da catalizzatore per l’Agenda 2030, affrontando il tema del cambiamento climatico in modo diretto e concreto.
Il programma di quest’anno sarà moderato dalla giornalista Chiara Del Zanno (Rolling Stone, Fabrique du Cinéma) ed includerà installazioni artistiche – come la scenografia “Il Cubo” realizzata interamente con materiali riciclati – e performance dal vivo, tra cui quelle di Paolo Soloperto, del coreografo Michel Fuscaldo e dell’artista Francesco Patanè.
Il talk “Eco Set” vedrà la partecipazione di esperti come Giacomo Spaconi, Lorenzo Vecchi (Zen2030) e Daniele Marrocu (Green Manager), che condivideranno le loro esperienze e visioni per un cinema più verde. Inoltre avrà luogo la premiazione dello Z-Pitch dell’accademia NABA.
La media partnership con Teleambiente e Luce Mag consentirà una diffusione più ampia dei contenuti sviluppati durante l’evento. Tra i partner enogastronomici: la “Cantina Planeta” e la “Tenuta Le Quinte”.
La giornata si concluderà con un concerto live, offrendo un momento di svago dopo un’intensa giornata di discussioni e scambi di idee.
INGRESSO GRATUITO FINO AD ESAURIMENTO POSTI. È GRADITA LA PRENOTAZIONE.
Per info e prenotazioni:
[email protected].
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]]>L'articolo Zampaglione, “The Well”: il mio cuore batte horror proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Vieni definito un regista horror ma non hai girato film solo di quel genere. Non lo era Nero Bifamiliare, ma neanche Morrison. Sei un regista che sta facendo un suo percorso attraverso i generi.
Sì, anche se devo dirti che alla fine mi sento davvero nel mio quando faccio horror. Mi piace fare cose cupe, dark, dove posso utilizzare un altro approccio, mi danno una marcia in più perché fondamentalmente mi diverto molto di più a lavorare su questi temi.
Il tuo The Well è un horror che si rifà alla Casa delle finestre che ridono di Avati. Ma io ci ho visto anche Cabin Fever di Eli Roth e addirittura un pizzico di Ghostbusters 2 per via del quadro che viene restaurato.
Guardo tantissimi film, quindi le ispirazioni arrivano sia dal passato che dal presente. Sono uno spettatore appassionato e gran parte dei film sono cinema di genere. Devo essere sincero, non sono un grande amante dei drammi all’italiana, perché li sento lontani da me: certo, ho amato alcune commedie, ma il mio cuore batte horror. Sin da ragazzino ho seguito questo genere e sto lavorando su un mio stile sempre più personale dove dentro puoi trovare elementi che si ispirano al grande cinema dark del passato, non solo italiano. In The Well, ad esempio, ci sono elementi classici che si rifanno al gotico e componenti oscure, violente e disturbanti che fanno riferimento più a un linguaggio contemporaneo.
Senza spoilerare, penso che nel tuo film ci sia un importante riferimento all’edonismo e al narcisismo di oggi.
Certo, c’è una critica al potere, una critica al denaro a tutti i costi. Provo a sondare quanto essere così assetati di potere e ricchezza renda più mostri dei mostri. Questa è la metafora dietro il film. È il mio messaggio riguardo alla ricerca disperata di edonismo di una bellezza fine a se stessa, masturbatoria. Anche in Shadows c’era una critica, in quel caso diretta alla guerra e ai suoi orrori. In tanti momenti l’horror ha rappresentato uno specchio per la società raccontando le brutture del mondo che ci circonda. Anche a me piace usare l’horror come metafora della vita. Ma la verità è che la vita è diventata molto più horror dell’horror. I fatti di cronaca che leggiamo oggi sono talmente efferati e crudeli che se li inserissi in una sceneggiatura nessuno vorrebbe produrla.
Oramai possiamo definire Claudia Gerini la tua attrice feticcio. Al suo fianco stavolta c’è Lauren LaVera, che ricorda straordinariamente la Jessica Harper di Suspiria. E poi c’è tua figlia, per la prima volta sullo schermo.
Con Claudia c’è affiatamento perché abbiamo fatto tre film insieme. Lei conosce il genere e di conseguenza si sa muovere bene in questo contesto. Lauren invece è un’attrice americana molto talentuosa, emersa con Terrifier 2 e adesso farà anche il 3. Ha un viso particolarmente ingenuo e delicato. Sembra fatto apposta per questo genere, con quegli occhioni da cui viene fuori il terrore puro. Con mia figlia Linda avevamo fatto insieme alcuni cortometraggi in pandemia: mi ero già accorto che era molto sveglia, il cinema l’aveva nel Dna. Però il rapporto sul set è stato molto equilibrato con tutti gli attori. Con Linda mi sono comportato da regista con un’attrice. Poi dopo le riprese tornavamo a essere padre e figlia.
Rispetto agli altri generi, cosa ti piace di più dell’horror come strumento per raccontare storie?
È qualcosa che fa parte dell’animo umano. In tutti noi c’è la paura. Il terrore di entrare in contatto con qualcosa che ti spaventa. L’horror raccoglie emozioni forti anche lontane, nascoste, che uno si porta dietro fin da ragazzino. Così, puntando su paure recondite, angosce, profondità insondabili, anche senza troppe parole con l’horror puoi catapultare lo spettatore direttamente in quel territorio.
E qual è la tua peggiore paura, cosa ti terrorizza di più?
Ne accennavo prima. Ciò che mi terrorizza veramente è proprio la realtà. Le notizie di cronaca, la follia dilagante tra le persone, soprattutto all’interno dei nuclei familiari. Essendo padre di una ragazzina di 15 anni ovviamente mi spaventa quello che leggo tutti i giorni. A volte non ci dormo. La fantasia, i mostri, non sono niente rispetto a questo.
Tu che ci stai dentro, cosa trovi ci sia in comune tra queste due cose così diverse e distanti, la tua musica e l’horror?
Sicuramente la passione che ci metto e soprattutto la capacità di creare un’atmosfera. Credo che questa sia proprio la cosa che mi riesce meglio. Quando scrivo musica mi piace tessere un’atmosfera che fa entrare subito l’ascoltatore in un mondo. Già prima d’iniziare a cantare creo quel tipo d’atmosfera: pensa al pianoforte di Per me è importante o la partenza dei violini di Due destini. Ecco, da lì inizia un ambiente sonoro dove ti lascio entrare senza farti uscire. Il semplice ritornello da cantare non m’interessa. Lo stesso vale per il cinema. Mi piace far entrare lo spettatore, e una volta dentro si deve fare tutto il viaggio fino alla fine.
Da musicista e da regista, come si svolge il lavoro per le colonne sonore?
Spesso non le compongo io o comunque non interamente. Intanto devi trovare musicisti con i quali avere sintonia perché dovranno sviluppare le tue indicazioni. Ad esempio puoi chiedere qualcosa d’inquietante, ma con richiami all’esoterico o alla stregoneria. Immediatamente nella testa del musicista si affacciano strumenti, cori e sonorità che possono dare un suono a queste parole. Sai, per passare da un’atmosfera malinconica a una tesa basta una nota: se cambi quella nota cambia tutto. Spesso giro sul set con la musica già composta, soprattutto nelle scene senza dialoghi, e l’attore ci si accorda subito sopra come fosse uno strumento. Questo vale anche per la troupe. Tutti lavorano in maniera facilitata all’interno di un’atmosfera ben precisa perché riescono ad accordarsi insieme sulla “temperatura” che volevo raggiungere.
L’horror americano ultimamente ha preso la strada del disagio estraniante con autori come Ari Aster. Qual è invece secondo te la direzione dell’horror italiano?
Intanto bisogna dire che nel cinema italiano non si vedono molti horror. Non ne esce quasi mai nessuno. Non abbiamo vere correnti, ma sprazzi, casi isolati perché l’industria predilige il prodotto americano e internazionale. Vale anche per action, fantascienza e cartoni animati. In questo invece io mi sento molto libero da caste, salotti e premi. Se faccio horror il mio dovere è quello di spaventare, terrorizzare, scioccare, disturbare. È il dovere di un bravo regista horror.
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]]>L'articolo El Paraiso racconta la simbiosi fra madre e figlio, con Edoardo Pesce e un’incredibile attrice colombiana proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Siamo ai bordi della periferia romana, foce del Tevere, dove dal galleggiare nell’anonimato urbano al perdersi l’anima per pochi soldi il passo può essere incredibilmente breve. Così campare d’impicci, anche grazie all’amico un po’ più inserito che procura loro lavoretti saltuari, diventa l’appiglio ideale, una sopportabile normalità proprio grazie a quel legame speciale. L’unica cosa che permette alle anime di madre e figlio di tenersi reciprocamente strette.
In El paraiso di Enrico Maria Artale la madre di Julio è interpretata da Margarita Rosa De Francisco, star di telenovelas colombiane e nel cast di Narcos, la serie Netflix. Riscoprire quest’attrice è un’alba multicolor. Struggente e trascinante con il suo caratterizzare questa donna così intima con il figlio, combattuta, segnata nello sguardo da un passato difficile, custode di mille non detti e segreti. Una fisicità che fa pensare ad una Michelle Pfeifer più aspra, latina, e carismatica pure nel più semplice dei gesti. Canta, balla, tiene a bacchetta quel testone del figlio, ma si lascia anche proteggere. Ha vinto come Migliore attrice nella sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema di Venezia, anche grazie alla sua splendida spalla, l’attore romano. Insieme creano dei momenti di puro cinema e Artale li fa convergere a perfezione nella sua ricostruzione decadente e variopinta del loro micromondo casalingo in riva al fiume.
Nel cast figurano anche Gabriel Montesi, attualmente la miglior nuova faccia da cinema romano e un’altra piacevole scoperta, Maria del Rosario. La musica la fa da padrona con una selezione di hit colombiane ’70 e ’80 che creano un’atmosfera nuova e avvolgente. Il film ha vinto a Venezia anche il Premio Orizzonti per la Miglior sceneggiatura, nonostante presenti un terzo atto scivolato, che scarseggia in quanto a scelte del protagonista e sul quale meglio non spoilerare. Giusto far muovere i propri personaggi senza giudizio, ma quanto lo è farli smettere di scegliere? Peccato perché tutto il resto è davvero un colpo al cuore.
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]]>L'articolo The Cineclub Contest: immagina il cinema del futuro proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>The Cineclub Contest è un’opportunità unica per dare forma alla sala cinematografica del futuro. Vogliamo sapere come le nuove generazioni immaginano il cinema e il luogo in cui viene proiettato. Per molti di noi, la sala cinematografica è stata il luogo per eccellenza per godersi un film. Ma per i millennial e la generazione Z, abituati a una varietà di dispositivi e modalità di fruizione dei contenuti, cosa rappresenterà il cinema nei prossimi anni?
The Cineclub Contest offre agli artisti uno spazio di libertà creativa per esprimere con le immagini la loro visione dell’evoluzione del cinema. I finalisti avranno l’opportunità di essere esposti a Roma di fronte ai più grandi nomi dell’arte illustrata e del cinema. E il vincitore riceverà un premio in denaro di 500 euro.
Una giuria composta da esperti del settore, tra cui Giacomo Bevilacqua, Emiliano Mammuccari, Ginevra Nervi, Alessandro Celli, Maria Giulia Costanzo e Cynthia Sgarallino, valuterà le opere. Ma attenzione: hai tempo solo fino al 30 marzo per inviare le tue opere!
Tutte le informazioni necessarie nel bando al link: https://thecineclubcontest
Qui la pagina IG
The Cineclub Contest è prodotto dall’associazione culturale Bladerunner, in collaborazione con Fabrique du Cinéma, Autori d’immagini, Pepe Agency e con il patrocinio del Comune di Roma.
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]]>L'articolo Finalmente l’alba, film ambizioso con un’esordiente di incredibile talento proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Si tratta di un film molto ambizioso, opus magnum prodotto da Fremantle, Wildside e Rai Cinema, e per governare un tale impianto Saverio Costanzo si è potuto avvalere di collaboratori eccellenti come il direttore della fotografia Sayombhu Mukdeeprom (il film è girato in 35mm), la montatrice Francesca Calvelli, la costumista Antonella Cannarozzi, la scenografa Laura Pozzaglio.
Il film si apre con un film: in un granuloso bianco e nero, scorrono le scene finali di un dramma di guerra di stampo neorealista, con un soldato americano che mette in salvo una bambina dopo che la madre è stata uccisa a sangue freddo da un ufficiale della Wehrmacht; fatto il proprio dovere, il soldato si allontana sulla scalinata di piazza di Spagna, in una inquadratura potentissima che a noi spettatori tornerà utile più avanti… Si accendono le luci, l’incanto svanisce, conosciamo la protagonista del film, anche se non lo sappiamo ancora: la giovane Mimosa, timida adolescente romana appassionata di cinema, in compagnia della madre e della sorella maggiore, Iris, che ha il sogno di fare l’attrice, e che viene intercettata (grazie alla sua bellezza) da un giovanotto spavaldo, che le promette di farle fare la comparsa nel nuovo, colossale peplum che gli americani stanno girando a Cinecittà.
In casa la notizia che la figlia maggiore vada a Cinecittà crea scompiglio, ma alla fine i genitori acconsentono: da qui, possiamo già immaginare gli sviluppi della storia, e cioè che sarà la timida (e più pudica) sorella minore, Mimosa, ad attirare l’attenzione della grande macchina da cinema americana, richiesta in scena addirittura dalla protagonista del film, la star planetaria Josephine Esperanto. La lunga e bella sequenza ambientata a Cinecittà, nel quale si possono cogliere i riferimenti cinematografici che più ci piacciono, in particolare non si può non pensare a Bellissima di Luchino Visconti, ha il suo acme nel secondo film nel film: la scena finale di un monumentale film storico, che ha come riferimento principale Cleopatra di Mankievicz e che spinge a una riflessione sull’impianto formale pensato da Saverio Costanzo: sia il film “neorealista” d’apertura che il “peplum” non sono girati in uno stile facsimile a quello dell’epoca, ma sono entrambi interpretazioni libere e contemporanee di quel peculiare genere cinematografico, nel montaggio, nella scelta delle lenti, nell’uso della luce, nella direzione degli attori.
La giovane Mimosa, tuttavia, intrufolandosi nei corridoi degli stabilimenti, si imbatte in un cinegiornale grazie al quale Costanzo stabilisce il “colore”, l’atmosfera nella quale è calato il film, e che a ben vedere è anche una dichiarazione di quale sia l’embrione effettivo di Finalmente l’alba: un grave fatto di cronaca nera del 1953, la morte della ventunenne Wilma Montesi, modenese, fidanzata con un poliziotto (anche Mimosa, lo scopriamo nelle scene iniziali, è in procinto di sposarne uno che, palesemente, non ama), ma con l’ambizione di entrare nel mondo del cinema, e ritrovata annegata sulla spiaggia di Torvaianica. Un caso ancora irrisolto.
Il rapporto fra Mimosa e Josephine Esperanto raggiunge, grazie alle riprese del colossal, un tale grado di complicità che la diva decide di portare con sé la ragazza per tutta la notte – con l’aiuto di un mefistofelico ma gentile traghettatore interpretato dallo straordinario Willem Dafoe -, in una lunga odissea che si svolge per gran parte nella villa di Capocotta di un signore molto potente, e nel quale si dispiega un caleidoscopio di eventi goliardici, goderecci ma anche dolorosamente grotteschi al quale prendono parte anche personaggi realmente esistiti, come il compositore Piero Piccioni, Alida Valli interpretata da Alba Rohrwacher, e tanti altri personaggi-maschere loschi e spaventosi.
L’enorme corpo cinematografico rappresentato dalla festa notturna ha il chiaro intento di suggerire, dapprima in maniera più allusiva e poi sempre più chiaramente, che l’esistenza di Mimosa e quella della povera Wilma Montesi sono sovrapponibili: Mimosa è Wilma? Ci troviamo di fronte a una allucinazione? Ci troviamo di fronte a una riproposizione dei medesimi eventi del caso della ragazza modenese, quasi a stabilire una implacabile serialità di questi macabri episodi che si svolgono all’ombra delle dorate promesse del mondo cinematografico?
Saverio Costanzo ci lascia liberi di crederlo, ma è probabilmente in questa rischiosa fase del film che c’è un momento di stagnazione che fa fare al racconto una brusca frenata, rispetto al più serrato ritmo della prima parte. Finalmente l’alba comunque si riscatta nel bellissimo finale: ritorna piazza di Spagna, ma stavolta in una veste nuova, sul volto di Rebecca Antonaci, la protagonista: ennesimo, incredibile talento scoperto da Saverio Costanzo, che dopo essersi inventato grazie all’Amica geniale una intera generazione di giovani, bravissimi attori napoletani, ora regala al cinema italiano una grande attrice dal futuro sicuramente radioso.
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]]>L'articolo Torna Fabrique Club il 1 marzo al Mediterraneo! proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Mediterraneo
via Guido Reni, 4 A
00196 Roma
Ingresso: 10 euro
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]]>L'articolo Te l’avevo detto, Ginevra Elkann ci riprova proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Quest’opera seconda di Ginevra Elkann segue l’esordio di Magari, anno 2019, del quale mantiene Riccardo Scamarcio e Alba Rohrwacher, in coppia anche lì, ma qui divorziati e con un bambino conteso. La narrazione intessuta questa volta ambisce a una tridimensionalità che non spicca mai il volo. Vuoi perché i dialoghi tante volte scorrono farraginosamente – la sceneggiatura è scritta dalla regista con Chiara Barzini e Ilaria Bernardini – vuoi per la scelta di non spingere mai gli eventi ad un climax realmente catartico. Ma latitano anche invenzioni originali in macchina da presa. L’intenzione di stendere un affresco un po’ distopico sulla catastrofe ambientale imminente abitata da storie di singoli con esistenze al capolinea non era neanche malvagia, anzi, se ne poteva creare un bel ponte metaforico quanto attuale. Anche se qui Paolo Virzì con Siccità è arrivato un po’ prima. Il fatto è che sviluppo ed esecuzione risultano leggeri, e i personaggi mollicci. Queste donne dalle vite inciampate sui problemi potevano essere molto di più. E il cast lavora davvero bene con quel che ha, ma sempre limitatamente al proprio ruolo. Va bene, c’è la scelta di far bisbigliare alcuni personaggi, e questo è uno dei peccati capitali del nostro cinema negli ultimi lustri, ma le emozioni che lo schermo ci inocula restano poche e sfuggenti.
Con la sua ottima confezione tecnica, la fotografia opportunamente polverosa e appannata è di Vladan Radovic, Te l’avevo detto arriva in sala il primo febbraio distribuito da Fandango. Avendo prodotto in Italia i buoni esordi di Duccio Chiarini, con Short Skin, e Lamberto Sanfelice, con Cloro, ma pure i primi due film dell’iraniano Babak Jalali, Frontier Blues e Land, l’impressione è che Ginevra Elkann ha forse maturato più e meglio il ruolo di producer. Con pazienza, l’aspettiamo alla sua opera terza, o alle prossime produzioni. L’ultimissima nota di merito va a Riccardo Senigallia. È lui a comporre per la colonna sonora alcune musiche estremamente intriganti che salvano il film.
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]]>L'articolo Enea, il fascino rabbioso della borghesia proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Castellitto torna a scrivere e dirigere dopo I predatori. Non perde ferocia, anzi. Il suo mondo stavolta si restringe esclusivamente su una Roma Nord di bella facciata ma priva di valori saldi. O meglio, anch’essi come brani Spotify passano e spariscono dal player della vita in un soffio. “Le ragazze belle rendono la vita leggera come un treno di nuvole”, dirà al primo appuntamento a Benedetta Porcaroli. Spinta dal motore della vitalità giovanile, la leggerezza si mescola con un’arroganza silente ma punzecchiante come un laserino negli occhi. E alla base una totale mancanza di umanità e reale contatto con l’altro da sé compone una rabbia recondita che permea anche i più insospettabili.
Alla regia vuole strafare Castellitto, più che nel suo lavoro precedente. In parte ce la fa, anche lasciando scoperti vari aspetti di quella che sarebbe un’intricata vicenda criminale. A proposito di questo è Adamo Dionisi, ex-boss gitano di Suburra, a interpretare il grosso capoclan che prende a cuore Enea rivolgendogli il frasario poetico e sano che non ti aspetteresti mai e poi mai da un tipo così. Sarà paradossalmente lui a incarnare in toto tutti quei valori scivolati via come sashimi avanzato. L’interpretazione di Dionisi vale una significativa fetta di film. Fa tenerezza poi la presenza del vero fratello Cesare Castellitto nei panni del fratellino quindicenne bullizzato e ingenuo. E quella del placido padre di Enea interpretato proprio da Sergio Castellitto. Infine lo scontro con Giorgio Montanini, già protagonista dell’opera prima. Stavolta l’attore marchigiano si ripulisce dal fascistello che interpretò per Castellitto dando vita a uno scrittore che simboleggerà l’opulenza, la ricchezza, ma probabilmente non la potenza. Spetterà agli audaci quella? Chissà.
I personaggi di questo lavoro galleggiano sperduti tra rimorsi e rabbia. Si nutre di piccoli paradossi e grandi cortocircuiti questo film che non lascia tranquilli. In certe atmosfere riecheggia la Borghesia tratteggiata da Bunuel, in altre ci si può percepire il filo invisibile che lo lega incoscientemente al contemporaneo Saltburn di Emerald Fennell, entrambi cuccioli in qualche modo debitori dell’eredità liscia e spietata di American Psycho. Anche se in fin dai conti l’ombra di un’influenza sorrentiniana potrebbe essere sospettabile quanto naturale. Enea, il film, non sia mai il ragazzotto, schiaffeggia, taglia e distrugge quando apparentemente accarezza e accoglie nel suo agio. Sbruffone nella forma e nella sostanza Castellitto ci piace anche con le sue imperfezioni perché ha coraggio e stile. Sarebbe una gran cosa prima poi vederlo lavorare insieme ai D’Innocenzo. Il cinema italiano ha bisogno anche di questi enfant terrible, con tutti i loro pregi e tutti i loro difetti.
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