Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema. Anche e soprattutto quando il cinema ti travolge con il fenomeno Cortellesi, con la regia più intima di Francesca Comencini, con una serie internazionale targata Rodat-Emmerich e un camerino accanto a quello di Anthony Hopkins. Oggi Romana Maggiora Vergano è sul set della nuova serie di Bellocchio, dove torna a condividere la scena con Fabrizio Gifuni in un’evoluzione del rapporto padre-figlia dopo aver compiuto, insieme, un piccolo miracolo attoriale nella pelle dei Comencini. A 26 anni è già destinata a farsi ricordare come la Marcella di C’è ancora domani, in una storia universale che ha raggiunto il mondo, e come la giovane Francesca de Il tempo che ci vuole, in un testamento autobiografico che omaggia la storia del nostro cinema. Ha un nome antico, un volto senza tempo, e l’aria di chi è talmente forte da potersi rompere in mille pezzi. Vergano si appoggia alle spalle dei giganti senza farli annegare, anzi, rafforzandone le bracciate. E dentro due film spogli di grandi orpelli, tra quattro mura che sono state insieme gabbia e focolare, ha dimostrato di poter fare la differenza. Su di lei non c’è neanche gusto a scommettere.
Partiamo dalla storia di questo nome che sfugge al tempo.
Pensa che volevano farmelo cambiare, perché è troppo lungo e strano. Non mi sono mai fatta molte domande sulle mie origini, poi il film di Paola mi ha smosso qualcosa e ho scoperto che Maggiora e Vergano sono due piccole località del Piemonte. Non paghi del cognome, mi hanno dato anche un nome particolare…
Hai dovuto imparare a voler bene al tuo nome?
È una domanda interessante, perché io ho odiato il mio nome. Mi dicevano che era duro e vecchio. Ricordo bene il giorno in cui mi ci sono affezionata: è stato quando, per la prima volta, mi è capitato di presentarmi a un’altra persona che si chiamava Romana. E quindi la sensazione di condividere un peso.
Sei figlia di medici. Quando hai deciso di fare l’attrice?
È stata una scena da film. Sono sempre stata una secchiona, avevo preparato il test d’ingresso per Medicina ed ero convinta di entrare, perché me l’ero messo in testa. Poi arriva il 5 settembre, la mattina faccio colazione e quando è il momento di uscire di casa mi sento fisicamente bloccata. Il mio corpo non mi risponde più. Dico a mia madre: «Non è che non voglio, è che non posso andare». Il pomeriggio ho cercato su Internet dei corsi di recitazione.
Quindi recitare era già un’idea?
Ho sempre fatto teatro amatoriale e da poco avevo iniziato dei corsi serali di recitazione cinematografica. Vivevo a Ostia con mia madre, così la mattina andavo a scuola e poi prendevo la metro verso Roma, ma pensavo sarebbe rimasto un hobby. L’epifania è arrivata durante l’estate. Dopo la maturità ero stata presa per Immaturi – La serie. Un ruolo da figurazione speciale, tre battute ma tante giornate sul set. Mi sono innamorata perché avevo zero responsabilità e molto tempo per osservare tutte le discipline del cinema.
Nella giovinezza il cinema che ruolo ha avuto?
I miei facevano lunghi turni in ospedale, ho conosciuto il cinema come forma d’intrattenimento con le commedie, con il mondo dello spettacolo e le repliche di Techetè. Ricordo Brutti, sporchi e cattivi e la scena della pastarella in C’era una volta in America, poesia pura. Poi La ragazza con la pistola, di cui mia madre era grandissima fan, e ovviamente Il tempo delle mele. E poi ricordo Malèna, da bambina volevo essere lei.
Il tempo che ci vuole racconta che possiamo fallire anche se facciamo quello che amiamo. E che fa male il doppio. Durante gli studi c’è stata la paura di “non saperlo fare”?
Per me la paura del fallimento è stato un grande tema durante tutta l’adolescenza, e proprio entrando alla Volonté me ne sono liberata. Ero una iper perfezionista, sempre il massimo dei voti, sempre a fare la cosa giusta, sempre quello che ci si aspettava da me. Alla Volonté mi è stato detto per la prima volta: «Tu fai il compitino. Sei bravissima, ma smettila». Che vuol dire smettila? Se porto il risultato andiamo avanti, no? Invece mi hanno rotto in mille pezzi. Hanno cercato la sfumatura, l’errore, la disattenzione.
Oggi non lo si direbbe mai: la sporcatura è il quid di ogni tua interpretazione.
Mi rendi felice, perché ho avuto molta paura per Il tempo che ci vuole. Oltre a quella che potete immaginare tutti, cioè essere diretta dalla persona che stai interpretando, anche se Francesca mi ha spogliato immediatamente di questa responsabilità: prima di essere lei, ero una figlia e una ragazza degli anni Settanta. Ho cercato di non farmi più domande di quelle di cui realmente avevo bisogno, ed ho faticato, perché nella vita io sono la bambina dei perché. Ho bisogno che mi si diano delle risposte per sentirmi al sicuro.
La tua pelle nel film: primi piani che sanno di eroina su un volto come il tuo, che invece si tende a non abbrutire.
Non ho mai avuto problemi di acne nell’adolescenza, ma questo film è arrivato in un momento in cui la vita mi stava mettendo alla prova: avevo cambiato casa e chiuso una relazione, dormivo poco e mi erano usciti molti sfoghi. Insieme al supporto di un’incredibile squadra di truccatori, il mio corpo si era preparato da solo al film. La mia pelle era pronta.
Ti sei giudicata, riguardandoti?
È stata la prima volta in cui non mi sono mai giudicata fisicamente. È brutto ammetterlo, ma alle prime visioni tendo sempre a guardarmi esteticamente: il doppio mento, la gamba grossa, l’occhio storto. Stavolta mi sono vista diversa, col viso rovinato e confuso, e l’ho trovato affascinante.
C’è ancora domani: quando hai capito che eri all’interno di un fenomeno più grande di te?
Il giorno in cui abbiamo girato la scena finale. Sembrava un giorno come tanti, ormai eravamo sul set da un mese. Invece arrivo in location e mi trovo travolta da centinaia di donne vestite anni Quaranta, tutte con il documento in mano, il rossetto sulle labbra e i manifesti appesi sulle scale. Oltre al regalo immenso che mi hanno fatto Paola e il cinema in generale, facendomi vivere un momento storico che ha cambiato il nostro Paese, lì ho sentito che stavamo facendo una cosa enorme che avrebbe parlato a tante persone, e di cui si sarebbe parlato per molto tempo.
Il giorno in cui hai aperto i social e hai pensato: “Ci siamo. La giostra è partita”?
Quando lo hanno presentato alla Festa del Cinema di Roma. Io ero a Parigi a girare con Francesca Comencini, ero tra la Tour Eiffel e Montmartre e non riuscivo ad alzare gli occhi dal telefono, perché leggevo questi commenti meravigliosi di chi lo aveva appena visto. Dal primo giorno sono stata travolta, ma la cosa più bella è stata incontrare persone che ci hanno portato le nonne, i padri, gli amici, che sono tornate in sala quattro o cinque volte. Questo capita raramente: vedere un film con degli sconosciuti e commuoversi insieme, arrabbiarsi e sperare insieme. Allora diventa un’esperienza e non solo un film.
Fuori dal fenomeno, qual è stato il tuo momento più intimo con Marcella?
Quello in cui il ragazzo le toglie il rossetto dalle labbra con le mani. È stato particolare perché in quel momento è entrata in gioco anche l’attrice e non solo il personaggio. Marcella, da scrittura, non doveva rendersi conto del gesto violento che subiva, invece a Romana quel gesto non era mai stato fatto, e mi è scattata una repulsione che dovevo contrastare. Romana è dovuta restare lì, dentro la scena, ma negli occhi di Marcella si percepisce un disagio.
È vero, in quel gesto c’è un incontro tra epoche, una repulsione che attraversa i secoli e tocca ogni donna. Dunque, da una parte eccoci con la storia universale di Cortellesi, e dall’altra con la memoria autobiografica di Comencini. Due registe molto diverse?
La differenza più evidente è che Paola è una donna estroversa, leggera e divertente, nonostante i temi trattati nel suo film. Francesca è una donna più dura, una regista di poche parole che centra sempre il punto. Se guardi Paola in un momento di pausa sul set ha un viso disteso, se guardi Francesca ha un viso corrucciato. In comune hanno l’amore per gli attori: Paola perché lo è, Francesca perché ci è cresciuta in mezzo.
Entrambi i film mettono in luce quello che tu puoi fare all’interno di quattro mura, in una casa che è insieme gabbia e focolare.
Mi fa piacere che lo noti, perché invece io sono il tipo di attrice che si attacca a tutto quel che può. Ma su entrambi i set avevo difficoltà a muovere il mio corpo nello spazio, non avendo abbastanza oggetti da utilizzare. Credo che questo abbia ridotto all’essenziale il sentire e l’interpretare, e forse è la forza di entrambi i progetti: si potrebbe essere in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo. Io lavoro male da sola, cerco tanto la mano dell’altro. Quando ti guardi intorno e non hai nulla a cui aggrapparti, devi fidarti di te e del tuo compagno di scena, e per me la differenza, in questi due film, l’hanno fatta i miei colleghi, Paola e Fabrizio Gifuni.
Uno dei più grandi attori viventi e nessuno glielo riconosce mai abbastanza.
Lo è, davvero. E insieme ci siamo trovati e ci siamo liberati in questa storia. Ogni tanto giochiamo e ci diciamo: «Io sono te e tu sei me».
Sul tuo primo progetto in inglese, Those About to Die, è capitato l’opposto: la messa in scena di un kolossal feat. Anthony Hopkins.
Avere a che fare con quella messa in scena può ostacolare oppure arricchire l’interpretazione. Quei gioielli, le tre ore di acconciature e quel drappo pesantissimo mi davano la postura delle donne dell’epoca, sempre rette e maestose. E poi confesso che leggere il tuo nome accanto al camerino di Anthony Hopkins, un certo effetto lo fa.
La scena della barba allo specchio nel film di Comencini ci ricorda, con grande poesia, che la creatività nasce dall’emulazione. Tu hai osservato allo specchio interpreti fortissimi: facciamo il gioco della barba?
In Paola ho osservato un sorriso d’altri tempi, anche nei momenti di tensione più alta. Da Fabrizio ho imparato a respirare, perché lui è un attore che sa stare e sa dare senza muovere un muscolo. Hopkins con i suoi video su Instagram mi ricorda che questo lavoro è anche un gioco. Jasmine Trinca l’ho sfiorata sul set de La Storia e poi a teatro, ho amato il suo film da regista, ma sai cosa preferisco di lei? Ha fatto ruoli diversissimi senza snaturarsi mai. È in continua ricerca, è un’attrice che non si siede. E io vorrei diventare questo.
Cosa credi stia funzionando in Romana Maggiora Vergano?
Forse, a prescindere dalla recitazione, il modo in cui mi presento. Io non credo di saperne più di nessuno e sono un’abilissima ascoltatrice. Questo nel mio lavoro diventa tutto materiale, mi hanno detto che funziono quasi più nei piani d’ascolto. E poi lo dico chiaramente: la mia fortuna è stata farmi conoscere con un personaggio che mi somiglia molto. Marcella è davvero vicina a me, quindi il dialogo che è nato attorno al film è stato autentico.
Sei partita con due film che potrebbero già bastare. Oggi cosa sogni?
Una casa. Costruire uno spazio sicuro dove rigenerarmi. Continuare con dei grandissimi film. E poi mi piacerebbe la Francia, la mia regista preferita è Céline Sciamma. Spogliare un suo copione e provare a dare vita a un suo personaggio sarebbe già un sogno. Riusciamo a farle leggere questa cover di Fabrique?
Ci proviamo. Prendo in prestito le parole di Gifuni-Comencini ne Il tempo che ci vuole per chiudere con l’unica battuta possibile: «Prima la vita e poi il cinema. E se non lo capisci è inutile che lo fai, il cinema».
Sai che mi sono riempita la casa di post-it dopo averla letta in sceneggiatura? Questa frase mi risolve tutto. Venivo dal periodo di Paola, tanto clamore e attenzione mediatica, avevo la testa sempre lì e all’improvviso ho pensato: “Se lo ha detto Comencini, che ha fatto del cinema la sua vita, allora me lo devo ricordare sempre anch’io”. Prima la vita e poi il cinema. Anche perché sennò cosa raccontiamo?
Fotografa: Roberta Krasnig; Assistente: Sara Pinsone
Stylist: Flavia Liberatori
Hair: Adriano Cocciarelli per @ADRIARE hairdesigner
Make-up: Ilaria di Lauro per @IDLMakeup
Location: The Cineclub