Momo Assad pensa a Los Angeles e si rabbuia. Siamo distanziati da uno schermo, cerca di dissimulare. Ha una casa, laggiù, spirituale prima che fisica. Mentre parliamo si trova a Roma, in visita alla famiglia dopo le feste di fine anno, e un rientro dilazionato negli Stati Uniti un po’ per coincidenza, un po’ per necessità.
Momo è giovane di quella gioventù profonda, forse un po’ tragica, di chi ha già sfogliato parecchie versioni di sé. Le sue cominciano alle radici: genitori siriano-libanesi, nascita nella Capitale, famiglia di ristoratori (loro è l’Osteria del Tempo Perso). «Facciamo cucina romana, i miei cucinano mediorientale quando siamo da noi. Non mi dispiace stare ancora un po’ con loro, alla fine Roma sento di non averla vissuta del tutto, sono stato in giro. Ci credi che non sono mai entrato nel Colosseo?».
Ci credo, visto che Momo pare uno di quei giovani indirizzati, o comunque quadrati, che si instradano da soli. Ed è sempre un po’ più difficile, quando non si intraprende la via della ribellione, svincolarsi dagli “affari di famiglia”. «Mio padre ha sempre detto a me e mio fratello che tutto quello che faceva con il lavoro era per noi. Che un giorno sarebbe stato il nostro turno. In realtà siamo sempre stati liberi di fare le nostre scelte». Per Momo, tutto è cambiato quando ha preso la scelta in cui proprio i suoi genitori avrebbero potuto credere di meno: decidere, senza esperienza pregressa e già dopo aver superato gli anni universitari, di diventare un attore.
La tua storia ha diversi capitoli. Com’è andata?
Sono cresciuto in una famiglia in cui si parlava arabo, abitavo a Roma, andavo alla scuola internazionale dove si studiava in inglese. Non pensavo minimamente a fare l’attore, speravo che un giorno avrei giocato a calcio nella nazionale italiana e che avrei vinto i Mondiali. Invece già qui, primo colpo di scena: sono finito a studiare con il cursus honorum all’americana, ho partecipato al Model European Parliament (iniziativa che permette ai giovanissimi di confrontarsi con il funzionamento delle istituzioni politiche europee, nda), ho fatto l’università negli Stati Uniti studiando marketing. A quel punto sapevo parlare fluentemente quattro lingue, un bel vantaggio. Solo che, durante il Covid-19, la mia vita è cambiata, e non me lo aspettavo: non potevo rientrare dalla mia famiglia in Italia, ero sulla costa Est degli States, mi sono concentrato su quello che avevo intorno. Uno dei miei amici frequentava la scuola di recitazione di Stella Adler (lo Stella Adler Studio of Acting, tra i suoi alumni vanta nomi come Robert De Niro, Christoph Waltz, Rachel Sennott e Benicio Del Toro, nda), mi sono incuriosito e gli ho chiesto come avrei potuto fare per iniziare a recitare senza avere alcun tipo di esperienza pregressa. Così ho provato le ammissioni al loro corso di formazione di tre anni, che chiamano Conservatory.
Non la cosa più facile.
Ho iniziato a studiare monologhi shakespeariani su internet, ho guardato dei video, è così che mi sono preparato per l’audizione. È andata bene, però, visto che non avevo curriculum, mi dissero che non avrebbero potuto prendermi, perché il programma è solo per 24 studenti, sarebbe stato troppo rischioso per loro. Mi proposero di frequentare uno dei loro Summer Program. Perfetto, andata. Dopo solo un mese mi dissero che c’era un posto per me nel Conservatory. È stato fantastico, ma anche ora che ho finito mi sento comunque uno studente. Vivo a Los Angeles da tre anni, ho un agente, un manager, ho firmato il primo NDA e guadagnato le prime cosette. E poi la scuola mi ha fatto entrare in un bellissimo cerchio di persone, ne sono molto grato. Alla fine quello che cerco di fare è ricreare vita di Roma negli States, con qualche piccola differenza. Non è mai facile. Prendi il cibo, per esempio: no way.
Il percorso ti ha cambiato?
Sì, mi sento benissimo. Per la prima volta capisco davvero che sto facendo quello che voglio fare. Ero così nervoso all’inizio di tutto, pensa che ho detto ai miei genitori dell’accademia solo una volta che ero stato preso. È stato un salto importante, ma non ho guardato indietro. Intraprendere questo viaggio mi ha insegnato molto su me stesso, e sono stato davvero fortunato a farlo alla scuola di Stella Adler. Ti dà qualcosa di più. Uno dei principi su cui il suo metodo si fonda è che crescere come attore significa crescere come persona. Tutti quei discorsi su Apollo e Dioniso e la loro compresenza dentro ognuno di noi… uno non ci crede, ma arrivi proprio a sentirlo.
E adesso?
Ora che ho cominciato a lavorare e a fare anche festival e produzioni internazionali, voglio solo continuare così, diventare sempre più radicato nel mondo. So le lingue, ho viaggiato, posso farlo.
C’è un posto che chiami “casa”, ora?
Casa per me è la mia famiglia, poi se devo scegliere una città, allora è Roma. Ma sempre di più lo diventano anche le persone che mi stanno attorno. Cerco di ricreare i miei cerchi di amicizie ovunque sia. In Italia sono stato fortunato, ho incontrato tante persone belle che mi porto dietro da anni.
Devi scegliere su che medium recitare: dici cinema o teatro?
Da quando ho un agente mi hanno piazzato soprattutto nel cinema. Poi ho fatto una parte in un episodio della HBO, anche qualche corto. Però allo stesso tempo ho fatto quattro mesi in uno Shakespeare Festival a teatro, dove ho lavorato su La dodicesima notte e Misura per misura. Per l’ultima ero il sostituito di uno degli attori, è stata una sfida, dovevo replicare quello che faceva lui in tutto e per tutto. Davvero formativo. Il cinema e la televisione mi piacciono, ma il teatro è un’altra cosa. Una volta che dici la prima frase, non puoi fermarti. Ogni sera è lo stesso ed è diverso.
Hai già lavorato in Italia?
No, ancora no. Però mi piacerebbe, intanto che aspetto di tornare in America cerco di recuperare informazioni e capire come funziona l’ambiente qui. Essere figlio di ristoratori torna utile in questi casi, a mangiare ci vanno tutti. E tutti sono più contenti di parlare di cose serie quando sono rilassati e stanno bene.
Chi sono i tuoi modelli attoriali? Ne hai?
Se devo scegliere tre persone che non riuscirei a trattare da colleghi, ti dico: Rowan Atkinson, un genio della commedia; Daniel Radcliffe, che quando faceva Harry Potter vivevo come il mio migliore amico, poi è passato al teatro ed è bravissimo, sono molto contento che abbia vinto il Tony; e Johnny Depp. Adoro la progressione della sua carriera, i personaggi che interpreta e come li sa portare in vita.
Ma vorresti fare della commedia, quindi?
Per ora mi hanno sempre scritturato per romance e drama, ma se posso indicare la mia scelta, dico sempre commedia. A teatro vorrei fare tutti i fool di Shakespeare. In Italia c’è la commedia dell’arte, anche Mr. Bean è un personaggio universale, come Arlecchino. Non aprono bocca e tutti capiscono. Magnifico.
Che poi, venendo da Roma, non potrebbe essere altrimenti. Senti, ma un sogno ce l’hai?
Non me l’hanno mai chiesto. È una domanda importante. Per ora penso di voler continuare a fare questa cosa, e diventare un attore sempre migliore. Voglio lavorare con belle persone, e raccontare storie positive. Dare il 100% di me stesso. Questa sarebbe già la felicità.