
Fotografa di professione, Sara Petraglia, prodotta da Angelo Barbagallo per BibiFilm e con la distribuzione di Fandango, ha esordito alla regia con L’albero, in concorso alla Festa del Cinema di Roma e da giovedì in sala, con protagoniste Tecla Insolia e Carlotta Gamba.
Un’insolita opera prima che racconta il vuoto post-adolescenziale di due ragazze che prendono una casa in affitto in un quartiere popolare di Roma. Magari un po’ fortunate a potersi permettere i loro vizi senza troppi problemi, giocano le loro chance trascorrendo il tempo a ciondolare in spiaggia di giorno e nei locali la sera, il tutto condito da righe di cocaina consumate insieme a un gruppo di amici altrettanto indolenti. I loro sorrisi non sono mai pieni e i loro dolori inconoscibili. Fino a quando la regista ci mostra le loro reazioni e le loro contraddizioni di fronte a una notizia che le scuoterà.
Come nasce il film?
Facevo la fotografa e mi veniva abbastanza bene, però mi era sempre rimasto qui di non essere riuscita a scrivere niente. Poi, durante qualche mese di disoccupazione, ho superato la frustrazione e mi sono data un’ultima possibilità. Non riuscivo trovare la storia giusta, ma rovistando tra i miei appunti ritornava la figura di un albero che vedevo da una finestra del Pigneto quando vivevo lì. Mi sono accorta che la storia in realtà ce l’avevo già, perché l’avevo in parte vissuta, dovevo solo trovare il coraggio di tirarla fuori. Ho scritto la sceneggiatura in soli due mesi. Inizialmente l’ho tenuta per me, poi ho trovato il coraggio di farla leggere ad Angelo Barbagallo, produttore di cui mi fido tantissimo perché ama il cinema fatto di storie, che mi ha proposto subito di girarlo. All’inizio gli ho detto di no perché non lo avevo mai fatto prima, ma quando mi ha chiesto a chi avrei voluto farlo girare, gli ho risposto: «A nessuno». Allora era chiaro che dovevo farlo io! È stato un salto nel vuoto incredibile e credo di aver imparato tutto girando.

Giochi molto sui contrasti: Bianca e Angelica evocano purezza con i loro nomi, ma vestono solo di nero. E coltivano una dipendenza da sostanze, un po’ un seme di autodistruzione.
Da Bianca e Angelica è venuto fuori automaticamente qualcosa di allegro e disperato insieme. Stanno vivendo un periodo molto duro e spaventoso della loro vita, ma riescono ad attraversarlo anche con una certa dose di ironia. Non l’avevo deciso a priori, però ho fatto dire loro cose tragiche da smorzare poi con una battuta, che non doveva neanche far ridere a tutti costi. Credo sia importante non prendersi troppo sul serio quando si raccontano storie così drammatiche, perché così trovano più forza. Ho frequentato nella mia vita tanti di quei gruppetti tutti vestiti di nero, esistenzialisti e tristi…
Come gli emo?
Esatto! Allora non lo sapevamo, ma in fondo eravamo emo, magari senza ciuffi. Spesso questi ragazzi si compiacciono del loro dolore e Bianca ha in effetti un lato molto teatrale. Predica che la vita è sofferenza, legge Leopardi, i suoi amici sono malinconici come lei. È un po’ il privilegio di molte di queste persone che possono permettersi di buttare via il loro tempo a vent’anni, possono permettersi di essere tristi tutto il giorno. In tanti mi hanno chiesto se è un film generazionale. No, io racconto due persone particolari, borghesi che buttano via il loro tempo. Non mi permetterei mai di dire che quelli sono i ventenni di dieci anni fa o di adesso. Sono solo due personaggi.
Le tue attrici affrontano tutto il film con grande naturalezza. Quanta improvvisazione c’è stata e quante prove ci sono state dietro al vostro lavoro?
Pochissime prove, ma fondamentali. Ci siamo viste prima delle riprese per tre giorni a casa mia sviscerando passo passo la sceneggiatura: Tecla e Carlotta trovavano subito il tono giusto che dava vita alla scena. Hanno trovato immediatamente una grande sintonia, creando un’alchimia perfetta. Sono state giornate intense, particolari, divertentissime. Mi hanno addirittura rubato i diari per leggerli e mi hanno praticamente sottoposto a interrogatori appassionati. E poi il set è stato magico. Sono due attrici incredibili, e io fortunata ad averle insieme.
Per certi versi mi sembra che tu abbia voluto ricreare una rappresentazione di amore liquido.
Non saprei dire se “amore liquido” è l’espressione giusta. Però m’interessa tantissimo l’amicizia che è anche amore. Non necessariamente una cosa porta all’altra, ma c’è qualcosa tra questi sentimenti che ha a che fare col destino. Un po’ come quando ti sembra di conoscere una persona da una vita precedente, anche se poi non è detto che il rapporto funzioni. E quando si arriva a distruggersi così tanto come accade nel film a un certo punto bisogna riuscire a separarsi. Mi piace parlare di rapporti non standardizzati: “Quella è un’amica”, “quella è una fidanzata”. Qui è tutto è aperto all’eventualità e tutto potrebbe essere. Quindi liquido, in effetti!
Nel film non offri appigli interpretativi. Ma l’albero del titolo che si vede sempre dalla finestra può essere inteso come simbolo di una stabilità irraggiungibile?
Anche. Mi piace questa idea. Non ho voluto spiegare l’albero perché probabilmente sfugge anche a me qualcosa di questo simbolo. Di sicuro rappresenta ciò che non si dimentica. Il film è tutto un ricordo di Bianca e alla fine quello che resta è un albero. Come dici tu, al contrario delle loro vite, l’albero è fermo, è rimasto lì. Forse è qualcosa di più eterno rispetto a loro. Che poi pure gli alberi li tagliano, soprattutto al Pigneto…

Come mai ti sei avvicinata al filone di Christiane F – Noi ragazzi dello Zoo di Berlino e Trainspotting, i cosiddetti drug movies?
Credo che della dipendenza, ma soprattutto della cocaina, si parli a volte in maniera sbagliata. Troppi stereotipi e pregiudizi, troppe connotazioni negative su chi ne fa uso. Penso che abbia ancora bisogno di essere raccontata. La cocaina viene collegata in genere all’universo maschile, alla criminalità, alla ricchezza aggressiva. Io ho provato a togliere quegli aspetti che trovavo caricaturali, inutili. Ho girato senza effetti di distorsione, senza visioni frenetiche: non avrei mai potuto mostrare come nasce e come finisce una dipendenza perché ci vorrebbero dieci film. Suona come una minaccia, perché potrei anche farli… [ride]. Quello che racconto è un momento preciso, quando il consumo di una sostanza è diventato già un abuso e l’abuso sta per diventare dipendenza. Così come racconto un’amicizia che potrebbe diventare amore, come una pentola a pressione che a un certo punto comincia a fischiare.
Qual è il tuo cinema di riferimento?
Sono cresciuta guardando ossessivamente i film. Sceglievo un regista e poi guardavo tutto quello che aveva girato. Quelli che mi hanno ossessionato di più sono Kieślowski, Tarkovskij, Bergman e poi i più contemporanei, come Lynch. Però sono stata molto attenta a togliere tutto questo al momento di girare.