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Valentina dʼAmico

Giacomo Triglia, artista di videoclip

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Babbo Natale riverso sull’asfalto. Un’ambulanza con le luci accese e un paramedico che arriva a grandi passi per soccorrere il ferito.

È questa immagine così surreale, difficile da cancellare dalla mente, a darci il benvenuto nel video del brano di Brunori Sas La verità, singolo di punta di A casa tutto bene, il suo ultimo album. L’immaginifico video, che racconta la storia struggente di due Babbi Natale assai diversi, è farina del sacco di Dario Brunori. A tradurre in immagini questa fiaba moderna dal sapore dolceamaro è, però, il regista Giacomo Triglia, autore affermato nel mondo dei videoclip nostrano.

Calabrese proprio come Brunori, Giacomo Triglia deve all’incontro col musicista l’esordio sulla scena del videoclip. «Nel 2009 vivevo a Reggio Calabria e curavo la direzione artistica di un festival di video e fotografia» racconta Giacomo. «Lì ho incontrato Dario Brunori che aveva un progetto musicale appena nato. Abbiamo deciso di fare il primo video insieme e mi sono trasferito a Cosenza. Sono stato io a scegliere il singolo, Come stai, che ha iniziato a circolare e da lì ho avuto richieste piuttosto consistenti. Per Brunori ho girato sei video e un docufilm di 40 minuti per SkyArte, Brunori Sas – A casa tutto bene, in cui si racconta il nuovo disco».

Ci sono artisti più legati al videoclip tradizionale in cui viene riprodotta la situazione del concerto e ci sono artisti che amano raccontare vere e proprie storie in pochi minuti. Ma come nasce l’idea per un videoclip? Nel caso di Giacomo Triglia il processo è molto naturale. «Lavoro nel settore dal 2009 e collaboro spesso con Sony e Universal. I discografici ormai conoscono il mio lavoro e sanno già quali artisti affidarmi. Vengo contattato dall’etichetta che mi propone il brano e partendo dalla canzone presento un’idea. Mi lascio ispirare dal pezzo, dal genere musicale, dal testo. A volte parto da una singola scena e poi le dò senso costruendoci una sceneggiatura intorno. Non esiste una formula precisa, ogni video è diverso dall’altro».

I video realizzati da Giacomo per Brunori, Afterhours, Irene Grandi, Zero Assoluto, Francesca Michielin e molti altri nomi importanti denunciano uno sguardo cinematografico e un gusto raffinato per la narrazione. Il regista calabrese ammette: «Ho visto sempre pochissimi video musicali, da giovane non guardavo molto MTV. I miei riferimenti sono cinematografici. Sono cresciuto con Fuori Orario e considero Enrico Ghezzi il mio padre putativo. Ho iniziato girando corti, ma ho smesso perché ho cominciato a lavorare nel videoclip e le commissioni sono arrivate una dopo l’altra. Mi piacerebbe tornare a sviluppare progetti miei, ma per ora non ne ho il tempo».

Sarà questa originalità nello sguardo nutrita da visioni cinematografiche che gli ha permesso di farsi un nome nel settore fino a diventare uno dei registi più ricercati, anche da artisti notoriamente “difficili”. «Di solito mi danno carta bianca. Quando i discografici sanno di avere tra le mani artisti particolarmente esigenti interpellano più registi, ma alla fine sono sempre riuscito a ottenere il lavoro. Quando ho girato il video degli Afterhours Non voglio ritrovare il tuo nome, l’idea iniziale era girare solo il playback con la band. Tutto il resto è venuto in un secondo momento. Manuel Agnelli ha visto il montaggio e gli è piaciuto talmente tanto che abbiamo deciso di aggiungere delle parti più narrative, scene ispirate a fotografie. Dopo aver visto il video, mi chiedono tutti se Manuel è così cattivo, in realtà con lui ho lavorato benissimo. Anche Francesca Michielin è molto esigente, sa esattamente ciò che vuole e quando non è soddisfatta del montaggio ci lavoriamo su insieme. Di solito interviene molto, ma alla fine l’idea è sempre la mia e poi anche con lei ho girato sei video, quindi il mio stile le piace».

Tra tante soddisfazioni derivate dalle sue opere, una battuta di arresto è arrivata quando il regista è incappato nella censura di YouTube. Niente di plateale, naturalmente, ma un tantino sorprendente. «Per Demartino ho realizzato il video di Non siamo gli alberi. Protagonista è una coppia che fa l’amore, ma il tutto viene mostrato al contrario. Si apre con loro nudi a letto e termina quando sono vestiti, all’inizio del rapporto. Non è un video spinto, non si vede molto, ma dopo tre giorni di pubblicazione deve essere arrivata qualche segnalazione perché Youtube ha imposto la censura ai minori di 18 anni».

Come è facile intuire dalle sue parole, per Giacomo la storia è uno degli ingredienti essenziali dei videoclip. L’altro è l’ambientazione, spesso in esterni, occasione per valorizzare scorci inediti della sua Calabria: «È ovvio che quando penso a una location mi vengono subito in mente i miei luoghi, ma non è una questione patriottica» chiarisce il regista. «Io amo girare dappertutto, ma a volte costruisco l’idea su una location specifica perché qui ci sono zone molto suggestive. L’idea di Battito di ciglia di Francesca Michielin è costruita su un antico fortino, una location bellissima e molto particolare che abbiamo usato come leitmotiv del video».

Vista la natura narrativa dei suoi lavori, viene spontaneo chiedersi se abbia mai avuto difficoltà nel far recitare i cantanti con cui ha lavorato: «Di solito non ho problemi. I cantanti sono abituati a stare sotto i riflettori. Quando scrivo io so già se l’artista sarà in grado o meno di fare le cose che ho in mente per lui. Gli unici artisti a cui ho richiesto performance più attoriali, al di là del classico playback, sono Afterhours, Irene Grandi, in parte Dario Brunori ed Eugenio Finardi. A Finardi, per il video di Passerà, abbiamo fatto guidare il trattore. Ecco, se devo dire la verità, vederlo sul trattore è stato l’unico momento in cui ho avuto una certa ansia».

Valentina Bertani: una regista a tutto rock

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Atmosfere fashion, set ultra chic, design ipercurati, concept futuristici, post-produzione quanto basta e tanta, tanta musica. È questo il pane quotidiano di Valentina Bertani, giovane regista mantovana che si divide tra advertising e video musicali con la prospettiva del cinema e il sogno della televisione.

Una carriera iniziata molto presto quando la ragazza ha capito cosa avrebbe voluto fare da grande. «A 15 anni avevo una band femminile in cui suonavo la batteria» ci racconta. «Abbiamo ottenuto un contratto con la Warner. Girando alcuni videoclip, ho capito che ero dalla parte sbagliata dell’obiettivo. Così quando il contratto è scaduto sono andata a Roma a studiare regia e poi, sfruttando i contatti con i discografici, ho iniziato a dirigere video musicali».

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L’intuizione si è dimostrata giusta e la carriera di Valentina oggi è lanciatissima: collaborazioni con nomi importanti come Luciano Ligabue, i Negramaro, Arisa e Dolcenera, e tanti riconoscimenti internazionali. Riflettendo sul suo stile e sui modelli di riferimento, cita il collettivo spagnolo Canada, Truman & Cooper, l’inglese Dougal Wilson e Aoife McArdle, agguerrita irlandese che ha diretto video per Bryan Ferry e U2. Nessun nome italiano. La ragione è semplice: «In Italia, spesso, i videoclip non sono di qualità. I motivi sono economici. I registi bravi ci sarebbero, ma hanno budget risicati. Le case discografiche non vogliono investire, soprattutto oggi, in tempo di crisi. Per fare un buon lavoro bisogna affidarsi a bravi collaboratori, avere l’illuminazione giusta. Per ottenere il risultato che avevo in mente, mi è capitato di dover sacrificare il mio compenso in modo da poter pagare le persone che lavoravano con me».
Dopo aver consolidato le sue competenze nel mondo dei videoclip, Valentina Bertani si è concentrata sull’advertising. A differenza di quanto si possa pensare, però, il passaggio non è stato immediato. «Cinema, TV, videoclip e pubblicità sono ambiti separati e non sempre il passaggio da un ambiente all’altro è agevole» chiarisce la regista. «Quando ho iniziato, il videoclip veniva considerato una sorta di gavetta per la pubblicità, ma oggi non è più così. L’advertising è un mondo chiuso in cui il regista è sottoposto al controllo dell’agenzia e del cliente, mentre chi dirige videoclip è abituato a una maggior libertà. Curiosamente, per un regista che viene dal cinema è difficilissimo fare videoclip perché viene malvisto dai discografici. L’eccezione è il regista di cinema che vuole fare pubblicità, in quel caso è molto apprezzato. Ogni tanto spuntano nomi famosi come Virzì o Muccino che decidono di girare uno spot e per loro si aprono molte porte». Se i giovani faticano a inserirsi, la situazione dietro la macchina da presa non sembra troppo rosea neppure per le donne. Sono poche le autrici che sono riuscite a imporsi al cinema sfoderando uno sguardo e un’identità precisa e anche nel mondo della pubblicità non c’è differenza. «Le registe sono sempre penalizzate, si fa più fatica» confessa Valentina. «In pubblicità le donne sono chiamate a occuparsi di prodotti legati, nell’immaginario, a un ambito femminile. Così fioccano proposte per dirigere spot di pannolini per bambini, omgeneizzati, assorbenti. Le agenzie ritengono le donne più adatte a girare film con i bambini. Nel cinema italiano non mi pare che la situazione sia migliore. Le registe sono troppo poche, anche se credo che Alice Rohrwacher stia emergendo e Valeria Golino ha esordito con un lavoro che mi ha colpito».

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Da addetta ai lavori, Valentina ha un occhio di riguardo per il cinema italiano, di cui segue attentamente l’evoluzione, e concorda con chi sostiene che stia vivendo  un momento molto positivo: «Oggi c’è un gran bel movimento. Veloce come il vento è bellissimo, scritto molto bene e le inquadrature sulle auto sono meravigliose. Ma il merito maggiore di Matteo Rovere è quello di aver affidato a Stefano Accorsi un personaggio così diverso da quelli a cui ci aveva abituato. Ha avuto un gran coraggio. Trovo che anche Luca Guadagnino abbia dei meriti perché ha saputo portare un’estetica fashion nel cinema, ha creato una commistione di generi. Tra i giovani stimo molto Carlo Lavagna e Stefano Lodovichi».

Pur essendo così attenta alle nuove tendenze della settima arte, per Valentina non sembra ancora giunto il momento di spiccare il salto. O meglio, prima di fare un film c’è un lavoro che le sta molto a cuore, una misteriosa serie TV. «Prima di approdare al cinema vorrei realizzare la serie che sto scrivendo da un anno» ci racconta. «Ci sto lavorando con due bravi sceneggiatori italiani molto giovani. Abbiamo un concept pronto, il pilot è scritto e ho in mente alcuni attori che mi piacerebbe coinvolgere. Amo moltissimo la produzione seriale, Black Mirror, Orange is the New Black e Lost che ha fatto da apripista. Anche in Italia ultimamente abbiamo fatto grandi passi avanti: Gomorra e 1992 sono prodotti esportabili, hanno uno sguardo internazionale e questo è fantastico». Valentina ha già ricevuto un’approvazione illustre visto che uno dei suoi autori preferiti, l’americano Todd Solondz, ha ricevuto il concept e lo ha molto apprezzato incoraggiandola a proseguire.

E mentre lavora sodo per realizzare il suo sogno televisivo, il cinema si è fatto avanti in modo imprevisto. La regista è stata chiamata a dirigere la seconda unità di Tinì – La nuova vita di Violetta, pellicola ispirata alla serie musicale Disney, fenomeno di costume senza paragoni tra i giovanissimi. Ripensando a questo lavoro, Valentina ammette che è stato «divertente e strano. Mi hanno tolto dal mio ambiente, l’advertising e il videoclip, per catapultarmi su un set internazionale. Juan Pablo Boscarini cercava una regista che fosse in grado di gestire le parti musicali e oniriche. Era una seconda unità concepita in modo classico, lavoravamo in modo separato e avevamo ognuno le proprie scene. Ammetto di aver avuto un po’ paura. Per me la paura è un sentimento positivo quando è controllata. Sul set arrivo preparatissima, ma una volta lì, mi lascio coinvolgere dalla situazione e vado a braccio. Stavolta, però, la responsabilità era doppia perché il mio lavoro confluiva in quello di Juan Pablo Boscarini, visto che il film è suo. Credo che rispetto alla serie sia stato fatto un salto di qualità. Come mi ha confessato il produttore, l’idea era quella di realizzare un prodotto bello, e questo è qualcosa che non ci aspetteremmo da una produzione commerciale».

“Pecore in erba”: quando l’odio fa ridere

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Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia.

Per riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le possibilità di un genere poco frequentato in Italia piegandolo a una romanità che trapela da ogni inquadratura. Pecore in erba (bisogna vedere il film per capire il titolo, diciamo che è un riferimento alla cultura calcistica…) è un film politico e al tempo stesso un pazzo diario in cui il regista esplora le proprie radici, romane ed ebree, riflettendo sulla discriminazione, sulle deformazioni storiche e sulla violenza subita dal popolo ebraico. E cosa c’è di meglio di una bella risata per svecchiare un tema seminale e proprio per questo già ampiamente affrontato?

«La scelta di usare la satira, nello specifico il mockumentary, per parlare di antisemitismo è stata un punto di arrivo» ci racconta Alberto. «Volevo aggiungere un punto di vista nuovo all’argomento per dargli profondità. Sono consapevole che in molti prima di me hanno affrontato questo tema, perciò ho scelto di ribaltare la prospettiva trasformando il protagonista della mia storia, l’antisemita Leonardo Zuliani, in un eroe dei nostri giorni. A quel punto la scelta del mockumentary è stata automatica».

Per amplificare ulteriormente la dimensione di follia con cui viene trattato il razzismo, Caviglia si è inventato addirittura una patologia sconosciuta dalla medicina tradizionale, l’antisemifobia, repulsione fisica all’ebraismo e alle sue manifestazioni. Basta, infatti, una melodia ebraica per provocare a Leonardo un attacco convulsivo. Riflettendo sui modelli a cui si è ispirato per il suo originale progetto, il regista non può esimersi dal citare Zelig: «Lo humor è nel DNA ebraico e Woody Allen è un maestro. Ma oltre a Zelig, il mio punto di riferimento è stato Forgotten Silver, geniale mockumentary di Peter Jackson che in pochi conoscono. In Italia il falso documentario è un genere inesplorato, perciò sapevo di muovermi su un terreno delicato. Ero consapevole che chi non conosce questo linguaggio avrebbe capito il mio film più tardi rispetto agli altri, ma le reazioni in sala sono state buone. Il pubblico si è divertito e anche la critica lo ha accolto bene. Resta l’amarezza al pensiero che prodotti come il mio rimangono in sala troppo poco tempo per sfruttare il passaparola, ma io ho fatto il film che volevo perciò sono soddisfatto».

Anche se i modelli di riferimento cinematografici citati da Caviglia sono stranieri, guardando il suo film non può non venire in mente certa tv satirica italiana. Complice la presenza di Marco Ripoldi del Terzo Segreto di Satira, che interpreta il presidente della Lega Nerd (versione intellettuale della Lega Nord), i riferimenti al piccolo schermo si sprecano. «Uno dei temi trattati nel film è proprio la comunicazione, la relatività della verità esposta dai media» conferma il regista «e le webserie si prendono gioco della realtà, perciò sono state uno dei miei punti di riferimento. Ma è il mockumentary che, per sua natura, spinge a coinvolgere personaggi della cultura e della tv». Personaggi che non hanno tardato a rispondere all’appello. A sorpresa, in Pecore in erba compaiono Enrico Mentana, Carlo Freccero, Vittorio Sgarbi, Corrado Augias, Ferruccio De Bortoli, Linus, Mara Venier, Giancarlo De Cataldo, Giancarlo Magalli e tanti altri volti noti che si sono prestati al gioco interpretando se stessi.

Nel raccontare di come sia riuscito a convincerli a partecipare al film, Alberto Caviglia non si sbilancia, tenendo per sé gli aneddoti più gustosi, ma ci svela che «alcuni, come Carlo Freccero, hanno dimostrato grande entusiasmo; altri, come Gipi e Sgarbi, si sono fatti pregare prima di dire di sì. Alla fine, però, tutti hanno accettato di farsi prendere in giro e di prendere in giro il proprio ruolo». Un caso a parte è rappresentato dal cast di Paura d’odiare, dramma fictional ispirato alla vita di Leonardo Zuliani dai toni molti vicini alla soap più infima, i cui frammenti vengono genialmente incastonati tra le finte immagini di repertorio e le interviste. A interpretare Zuliani – a fianco del “titolare” Davide Giordano – è Vinicio Marchioni. Con lui vi sono Margherita Buy nei panni della madre, Carolina Crescentini in quelli della fidanzata, mentre il padre ha il volto severo di Francesco Pannofino. La coppia Crescentini-Pannofino, peraltro, rievoca quella grande satira dell’industria televisiva che è Boris. «È vero che ho riunito parte del team di Boris, ma non era voluto. Erano ruoli marginali, quasi mi vergognavo a proporre la sceneggiatura a Carolina. Ma lei e Vinicio, dopo averla letta, hanno accettato immediatamente. Quanto a Margherita Buy, era oltre ogni mia ambizione averla sul set, ma anche lei ha dimostrato grande sense of humor».

 

 

In questo gioco di specchi tra realtà e finzione, non sono però reali i membri della comunità ebraica che compaiono nel finale. Alberto ci tiene a puntalizzare di non aver subito veti o censure nella realizzazione del film, ciononostante ha deciso di non calcare troppo la mano. «Se è vero che l’umorismo ebraico ha radici antiche, è vero anche che la comunità ebraica di Roma, in passato, non ha brillato per ironia o autoironia. L’importante è che tutti abbiano compreso il messaggio del mio film. A Roma si sono verificati episodi di intolleranza, ma lo stesso è accaduto in altre parti d’Italia. Non è per questo che ho scelto di ambientare qui il mio film. Roma è la mia città. Trastevere è il quartiere che amo ed è stato naturale per me puntare la macchina da presa sui luoghi che conosco». E proprio a Trastevere vive e si muove Leonardo Zuliani. Qui il giovane affetto da antisemifobia concepisce tutte le sue trovate razziste, accolte con successo dal pubblico. Dal fumetto antisemita Bloody Mario, ispirato alle molestie nei confronti del compagno di scuola ebreo, alla linea di abiti Baci Ebreacci, dalla New Bible Redux, edizione della Bibbia da cui sono stati espunti tutti i riferimenti agli ebrei, al gruppo neonazista greco Tramonto di Bronzo, Pecore in erba è un caleidoscopio di trovate satiriche nonsense. Come spiega il regista «in fase di scrittura, ho scoperto che il film si stava trasformando in una sorta di meraviglioso contenitore e ogni giorno inserivo nuove trovate. Il finale è una follia, ma ho scelto di concludere rivolgendomi all’unico personaggio sano del film, il nonno di Leonardo [Omero Antonutti]. L’importante era mettere in chiaro che il mio non era un film antisemita e non volevo che ci fossero ambiguità al riguardo». Ambiguità che invece appartengono al personaggio di Leonardo Zuliani, in apparenza quanto di più lontano dai classici naziskin haters degli ebrei. Al posto del cranio rasato, Leonardo ha una chioma di riccioli fluenti, accompagnati dagli occhi sgranati e da un animo, in apparenza, sensibile. Ma nel fitto puzzle di testimonianze e interviste in cui si parla di lui, non sentiamo mai la sua voce.

«Leonardo non parla perché non possiede un’ideologia» chiarisce Alberto. «Lui odia gli ebrei, ma non è in grado di spiegare la ragione del suo rifiuto nei loro confronti. Non avrei mai voluto sentire la sua voce». L’ultima curiosità riguarda Ferzan Ozpetek, con cui Caviglia ha collaborato per sette anni. Eppure la sua opera d’esordio è quanto di più lontano si possa concepire dal cinema del regista turco. La spiegazione è semplice: «Ozpetek mi ha insegnato tutto ciò che so sul mestiere del regista, ma stavolta la sfida era metterci del mio!».

Le Vanvere, artiste a km 0

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Il disegno è donna ed è a km 0. Chiedete conferma a Le Vanvere, collettivo toscano al femminile che ha deciso di condividere talento, progetti e riunioni a base di Moscow Mule.

Le Vanvere sono Camilla Garofano, Giulia Quagli, Lisa Gelli e Celina Elmi. Quattro stili diversi racchiusi in una manciata di km (anche se Lisa Gelli vive a Macerata da cinque anni). I famosi km 0, che rappresentano quasi un manifesto dell’attività de Le Vanvere, come ammettono loro stesse. «Amiamo la Toscana, per noi è un bel punto da dove partire e dove poter tornare, un luogo che ci fornisce spunti e opportunità. La nostra missione è quella di far conoscere al pubblico gli eventi che ci sono e gli artisti che lo abitano, cercando di valorizzarli e di intrecciare collaborazioni con loro».

Parlare a vanvera, nell’accezione comune, ha una connotazione negativa. Perché farne il nome con cui identificare un collettivo artistico? «Discutiamo molto, su tutto, e il nome è stato il primo oggetto di riflessione collettiva» ci spiegano. «Volevamo un nome leggero, dichiaratamente toscano, che non si prendesse troppo sul serio e rimandasse alla casualità della nascita del gruppo. Volevamo che fosse un nome divertente, che valorizzasse le nostre diversità». Riflettendo sull’origine del gruppo, Le Vanvere sottolineano spesso come la causalità sia alla base del loro incontro. A vederlo dall’esterno, un collettivo tutto al femminile farebbe pensare a una precisa scelta ideologica, ma a quanto pare non è affatto così. «Ci siamo incontrate per caso e per caso eravamo quattro donne. Gli illustratori sono individui schivi e introversi, si guardano da lontano, si “annusano”, ma non sempre si incontrano. Per una strana congiunzione astrale, abbiamo deciso di cercare dei nostri simili in zona e, grazie a una libreria di fiducia e a una mostra di illustratori toscani organizzata da Camilla, sono partite le prime email, i primi incontri e i primi tentativi di fare qualcosa di bello insieme. La cosa inaspettata è che ci siamo trovate subito bene e siamo diventate più di un gruppo di lavoro, quasi una famiglia, a tratti un gruppo di sostegno. Le collaborazioni tra donne sono pericolose, lo sappiamo bene, ma il fato ha voluto che fossimo quattro donne che si rimboccano le maniche, che si dicono le cose in faccia e che lavorano tutte per un obiettivo comune; quindi abbiamo incrociato le dita e c’è andata bene».

Curiosando tra le immagini postate sul sito ufficiale o osservando le illustrazioni realizzate da Camilla, Celina, Lisa e Giulia, anche all’occhio di un non addetto ai lavori appaiono visibili le differenze stilistiche, di tratto, la varietà nella riproduzione della figura umana. Questo, per Le Vanvere, è un falso problema. «Riusciamo a conciliare i nostri quattro stili… non cercando di farlo! Ci piace sottolineare le diversità con progetti a tema comune o partecipando a concorsi tutte insieme. Crediamo che essere diverse sia un valore aggiunto al nostro lavoro di individui. In realtà ci influenziamo inevitabilmente, siamo contaminate l’una dall’altra, ma manteniamo sempre la nostra personalità». Quando vengono interrogate sui loro modelli di riferimento, le ragazze si scatenano snocciolando nomi su nomi. «Ognuna di noi ha dei miti, dei maestri e un vero e proprio pantheon di illustratori preferiti da seguire. Al momento i preferiti di Camilla sono Leonardo Mattioli, Shout, Rita Petruccioli e Ale Giorgini. Lisa guarda ai Maestri Alessandro Sanna, Pablo Auladell e agli illustratori emergenti Marco Somà, Arianna Vairo, Bill Noir, Catarina Sobral; per Celina sono importanti Maurizio Quarello, Ana Juan e Stefano Bessoni, mentre i modelli di Giulia sono Sergio Toppi e Claire Wendling».

Mentre i lavori di molti disegnatori e fumettisti contemporanei sembrano già pensati per il cinema, le opere del collettivo toscano hanno una qualità più astratta e sognante. Ma cosa amano e cosa detestano Le Vanvere al cinema e in tv? «Camilla ha il decoder guasto da sempre e guarda, o meglio, ascolta, film mentre lavora: si passa da Harry Potter a Amarcord per arrivare a Il favoloso mondo di Amélie; di rimbalzo Celina e Giulia diffondono il verbo del Trono di Spade e dei film d’animazione, mentre Lisa ci consiglia da Macerata le vecchie commedie all’italiana con Lino Banfi, Adriano Celentano, Renato Pozzetto per ridere di gusto e le serie più drammatiche, da True detective a House of Cards. Film e serie tv sono il nostro pane quotidiano, spesso attingiamo alle nostre inquadrature preferite per impostare la composizione delle nostre tavole».

Parlando di animazione, un posto speciale nel cuore delle ragazze ce l’ha il maestro Hayao Miyazaki. «Celina è stata alla mostra a Parigi sui layout dei film e ha riportato cartoline ed entusiasmo in quantità, Giulia ha avuto come suoneria del cellulare la canzone di chiusura di Ponyo per mesi e Camilla, che non era una grande amante della produzione giapponese, è stata convertita proprio da Miyazaki. Rappresenta mondi onirici e attuali, ma per certi versi lontani dalle nostra cultura, personaggi fantastici e problematiche moderne affrontate con un gusto e uno stile elegantemente nipponico. Forse non abbiamo le competenze per una critica oggettiva sull’animazione, ma i suoi film riescono ad appagare cuore e occhi e questo a noi piace molto».

Parlando del loro presente e futuro lavorativo, Le Vanvere ammettono di avere troppi progetti in testa. «Sicuramente vogliamo portare avanti i concorsi di illustrazione che abbiamo organizzato quest’anno, Illustratori a km 0 e Marea Grafica, e le correlate mostre itineranti; allo stesso tempo stiamo proponendo laboratori, incontri e workshop sull’illustrazione sia per bambini che per adulti. Vorremmo riuscire a fare un lavoro a più mani, già impresa titanica per via della distanza fisica con Lisa; in più collaboriamo anche con altri illustratori, enti e organizzazioni. Non essendo Le Vanvere la nostra attività primaria, il tempo è limitato, ma a volte questo limite è essenziale per lavorare in modo efficace e veloce. E poi abbiamo un sogno nel cassetto: chissà… uno Studio Vanvere?».

Prima di salutarci, chiediamo a Le Vanvere di toglierci un’ultima curiosità: da dove nasce la passione per il Moscow Mule? «Solo una di noi conosceva questo cocktail al cetriolo e noi la prendevamo un poʼ in giro. Una volta provato, però, è diventato sinonimo di aperitivo. Anche le nostre riunioni, visto che dobbiamo ottimizzare i tempi, spesso sono sinonimo di aperitivo e quindi Moscow Mule=aperitivo=riunione=lavoro. In sintesi, per qualche proprietà matematica, Moscow Mule=lavoro».

Collettivo Enece

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ENECE è un collettivo composto da giovani cineasti milanesi che riunisce varie professionalità, dalla fotografia alla ripresa, dal montaggio alla fonica, e non disdegna di sfruttare tutte le proprie potenzialità mescolando costantemente i piani di realtà e finzione.

Enece, deformazione del latino index, è un uovo di marmo usato dalle contadine per stimolare le galline a fare le uova nel nido e non in giro per l’aia. Brillante artificio, finzione che ha lo scopo di dare un indirizzo alla realtà, influenzandola e plasmandola. «Con Atelier Colla e Il turno, i nostri primi due lavori, abbiamo sperimentato il cinema d’osservazione del reale tout court seguendo le orme di Frederick Wiseman, la nostra principale fonte d’ispirazione» ci racconta Pietro de Tilla, uno dei fondatori. «In Unità di Produzione Musicale abbiamo fatto la stessa cosa, ma calando un nutrito gruppo di musicisti/operai in un ambiente che non esiste, creato da noi. Un involucro fictional, ma ciò che accade all’interno è reale. Usare un uovo finto per stimolare reazioni vere: mettiamo in pratica l’insegnamento contenuto nel nome del collettivo».

Enece film nasce nel 2012. I fondatori sono Pietro de Tilla, Gugliemo Trupia, Tommaso Perfetti, Elvio Manuzzi e Chiara Tognoli, montatrice e prima donna del gruppo, a cui si aggiungono l’esperta di audio Giulia La Marca e Paolo Romano, che si occupa di post produzione delle immagini. «L’idea di fondare un vero e proprio collettivo» spiega Tommaso Perfetti «è nata dopo la realizzazione di Atelier Colla, documentario sulla storica compagnia milanese di marionette di Carlo Colla. Il lavoro successivo, Il turno, ha visto una regia a tre fatta da me, Pietro ed Elvio. Questa esperienza ci ha convinto a dar vita a un gruppo. È stato importante per l’identità di Enece trovare una sede, a Milano, divenuta un punto di riferimento anche per artisti esterni che collaborano con noi».

La collaborazione è una delle parole chiave che sottendono l’esperienza di Enece film. Aggiunge Guglielmo Trupia: «Ospitiamo in sede un musicista che ha lavorato con noi in Unità di Produzione Musicale, uno sceneggiatore e un esperto di grafica, tutte persone che collaborano con noi utilizzando i nostri spazi. In più Tommaso sta lavorando a un progetto di animazione con un’animatrice italiana che lavora in Francia. Siamo uniti da affinità artistiche, ma al nostro interno trovano spazio anime diverse e vari progetti individuali». Dietro una coerenza programmatica e stilistica, i membri di Enece film negano, però, qualsiasi dogmatismo e la natura differente dei lavori realizzati finora testimonia una duttilità e un’apertura verso varie forme espressive. Pietro de Tilla conferma questa tensione verso la sperimentazione: «Finora abbiamo realizzato lungometraggi, corti, documentari e webserie; spaziamo in modo agile tra i vari formati a seconda delle necessità. Ora Y, la webseries, si trasformerà in qualcos’altro. Il nostro obiettivo è esplorare le varie forme dell’audiovisivo veicolando una narrazione al pubblico. Il nostro è un cinema indipendente, ci piace sperimentare e testare le potenzialità del linguaggio spingendolo in determinate direzioni. Non so se riusciremmo ad adattarci al cinema mainstream, ma siamo cinefili a tutto tondo, guardiamo ogni tipo di film. I nostri modelli sono Wiseman ed Herzog, che lavora a cavallo tra finzione e realtà, ma Guglielmo ama molto anche la fantascienza e i suoi gusti influenzano il suo modo di montare. Tutto il cinema che vediamo ci ispira, non abbiamo preconcetti».

Nonostante la capacità di adattarsi a committenze e fonti di ispirazione diverse, una realtà di nicchia come Enece film non sottovaluta la difficoltà nel conciliare ambizioni artistiche ed esigenze commerciali e si preoccupa di trovare la forma di distribuzione più adatta per i vari lavori. «Tutti i film realizzati finora avevano un target preciso» spiega Guglielmo Trupia. «Atelier Colla è un’opera indirizzata a un pubblico di appassionati del circuito teatrale, perciò è stato distribuito in home video e su Skyarte dove ha avuto un buon riscontro. Il turno, che è un film d’autore, è andato al festival Visions Du Réel e poi è uscito in DVD. Unità di Produzione Musicale è un ibrido, un misto tra film e performance, perciò dovremo inventarci una forma di distribuzione alternativa attraverso una serie di eventi mirati, tra cui Biografilm. Il nostro nuovo lavoro, Unità di Sonorizzazione, si avvicina a Unità di Produzione Musicale ed è stato proposto alla Stazione Leopolda di Firenze nell’ambito di Fabbrica Europa. Per ogni lavoro dobbiamo inventarci una forma di distribuzione diversa, ogni volta è una sfida. Amiamo molto di più la fase creativa, ma da Unità di Produzione Musicale in poi abbiamo iniziato a occuparci anche della parte di promozione commerciale che è una necessità».

Tommaso Perfetti approfondisce la questione legata all’esigenza di conciliare forma artistica e contenuto divulgativo: «Molti di noi vengono dalla fotografia, perciò abbiamo un’attitudine alla ricerca estetica nell’immagine. Nelle nostre produzioni cerchiamo di combinare la ricerca formale con il tentativo di rendere fruibile al numero più ampio possibile di spettatori il contenuto. L’obiettivo è conciliare piano narrativo e piano estetico. Unità di Produzione Musicale è un film dotato di un impianto visivo cinematografico molto complesso, ma lo stile usato denuncia anche il tentativo di veicolarne il contenuto. Quasi tutti noi amiamo l’immagine un po’ sporca, autoriale, ma ci sta a cuore anche la narrazione. Un po’ Sokurov, un po’ cinema classico americano, per intenderci».

Ma quali sono, in fin dei conti, gli ambiti del reale che Enece film si propone programmaticamente di rappresentare? Dove si orienta la ricerca che caratterizza i lavori del gruppo, a cavallo tra documentario e finzione? «L’oggetto della nostra ricerca spesso viene scelto in modo inconsapevole» confessa Pietro de Tilla. «Ciò che realmente ci interessa è il rapporto dell’essere umano con l’ambiente che lo circonda; questa è la linea che caratterizza i nostri progetti, o meglio, che ha caratterizzato ciò che abbiamo realizzato finora. Adesso siamo in una fase di bilanci, stiamo cercando di dare una direzione alla nostra produzione futura e siamo aperti a ricevere nuovi input». In futuro, tra i progetti che vedranno impegnato il collettivo, potrebbe farsi strada anche la possibilità di dirigere un lungometraggio di finzione? «Non è un progetto che vediamo nel nostro prossimo futuro, ma un film come La pivellina è nelle nostre corde. Un’altra pellicola che ci ha colpito molto è Piccola patria, che racconta una determinata regione utilizzando attori giovani. A noi interesserebbe raccontare il Nordest inserendo elementi documentaristici in un contesto fictional e questo sarebbe un tipo di progetto in linea con il nostro background. Poi chissà, magari ci ritroveremo a fare un film di fantascienza».

 

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Il futuro dell’intrattenimento secondo Luca Argentero

Innegabile sottolineare come quella che stiamo vivendo sia un’epoca di grandi cambiamenti strutturali per l’industria cinematografica italiana e internazionale. A fronte del calo di pubblico, soprattutto nella fascia dei giovanissimi, della chiusura delle monosale di centro città a favore dei grandi multisala periferici, della diffusione della pirateria, croce di tutti i distributori, oggi, scarseggiando il denaro, non si rischia più. Di conseguenza i prodotti più “difficili”  e anticommerciali faticano a trovare distribuzione, mentre gli investimenti si concentrano sull’usato sicuro, sulle formule consolidate, su generi e autori che garantiscano la riuscita al box office. La risposta al concreto rischio di appiattimento arriva dal web, zona franca le cui potenzialità sono ancora in gran parte inesplorate. Negli Usa si sta facendo largo un colosso come Netflix, la più grande piattaforma di video on demand al mondo che, dopo aver lanciato con la formula “watch instantly” una serie di successo come House of Cards, confezionata da nomi altisonanti quali Kevin Spacey e David Fincher, comincia a far impensierire Hollywood stringendo accordi esclusivi con star del grande schermo quali Adam Sandler e Leonardo DiCaprio.

L’Italia, da sempre refrattaria alle rivoluzioni, non si è ancora dimostrata così ricettiva nei confronti delle novità provenienti dal web, ma anche da noi i pionieri non mancano e se le webserie nostrane riscuotono sempre più interesse tra i cyberspettatori esistono realtà strutturate pronte ad accogliere il pubblico in fuga dal cinema e dalla tv generalista. Una di queste è Megatu.be, piattaforma di streaming video multichannel che contiene canali tematici dedicati ad anime, horror, cult e commedie italiane anni ʼ70 oltre a Creators, una sezione dedicata alle produzioni originali. Anima e mente del progetto, nonché direttore artistico della sezione Creators, è l’attore e produttore Luca Argentero.

È Argentero stesso a raccontarci come nasce il suo impegno sul web: «Megatu.be scaturisce dall’incontro con Luca DeDominicis, attuale AD e importante riferimento del mondo web da molti anni. Io e lui ci siamo trovati in sintonia sulla reciproca idea di “futuro dell’intrattenimento” e abbiamo provato a unire le nostre competenze tecniche e conoscenze del mercato per immaginare un progetto che risultasse una reale opportunità di cambiamento. Siamo gli unici a offrire una library cinematografica in streaming legale e gratuito. L’offerta, già ricca di nomi come Cassavetes, Jodorowsky, Cronenberg, viene ampliata settimanalmente. Non è necessaria alcuna registrazione. Inoltre offriamo il meglio delle produzioni web-native, migliaia di ore di anime giapponesi e un importante palinsesto di video musicali».

Argentero, presente sul grande schermo con numerose produzioni, si sta costruendo una carriera parallela dietro le quinte e ha scelto di diversificare le attività per implementare nuovi metodi di fruizione del prodotto audiovisivo. I numeri gli stando danno ragione visto che Megatu.be, lanciato a maggio, sta avendo un ottimo riscontro. «La crescita è stata considerevole, a dimostrazione che spesso l’unione fa la forza. Il network è passato da un totale di 24 milioni di visualizzazioni mensili a 50 milioni nell’arco di 5 mesi due dei quali, luglio e agosto, sono notoriamente non premianti in termini di traffico. Oggi abbiamo più di 1.800.000 visualizzazioni in un solo giorno, il che ci rende assolutamente concorrenziali con alcune reti televisive anche blasonate che, nel tempo, hanno invece perso pubblico in modo significativo. Anche la scelta di limitare il numero dei canali tematici privilegiando generi amati dai giovanissimi come gli horror e gli anime è provvisoria. L’evoluzione dei canali verticali sarà proporzionale ai contenuti che saremo in grado di presentare nei prossimi mesi. È ovvio che i primi a essere accontentati debbano essere quelli che già utilizzano il web come medium di riferimento, ma abbiamo in serbo grandi sorprese che aiuteranno la stessa diffusione del video streaming».

Il ruolo che Luca Argentero si è ritagliato in Megatu.be è centrale visto che a lui spetta il compito di visionare e selezionare le produzioni originali per lanciare giovani autori su Creators. Il solo criterio usato dall’attore per individuare i prodotti meritevoli è «la qualità. Con le tecnologie oggi a disposizione il livello di fattura dei contenuti si sta alzando vertiginosamente, ma con Megatu.be vogliamo dare un ulteriore strumento ai Creators di domani. Non siamo solo un attento distributore, ma un partner produttivo a tutti gli effetti. Puntiamo alla tanta agognata remunerazione reale delle produzioni web-native». Se il fermento nell’universo di nicchia delle webserie è ormai una bella realtà, difficile nella situazione attuale non pensare alle applicazioni future di Megatu.be e di progetti affini nel campo della distribuzione cinematografica alternativa ai canali tradizionali. Luca Argentero crede fermamente che questa sia la giusta direzione da seguire, nonostante la refrattarietà dell’industria italiana alle novità di questo tipo. In tal senso afferma: «Credo fermamente nella distribuzione su web, così come credo che le finestre di sfruttamento di un lungometraggio debbano essere drasticamente ridotte. Credo alla contemporaneità delle piattaforme, fatto salvo il ruolo insostituibile del grande schermo cinematografico, unico amplificatore delle emozioni visive. I film di prima visione vanno visti al cinema, ma appena il film esce dalla sala dovrebbe essere messo a disposizione di tutti a seconda delle preferenze di ognuno. ‘Quello che voglio, quando voglio’, l’on-demand non è più il futuro, è un dato di fatto».

Dalla teoria alla pratica il passo è più breve di quanto si pensi. Dopo aver prodotto nel 2012 Cose cattive di Simone Gandolfo, Argentero ci annuncia di aver già approntato una distribuzione alternativa per la sua pellicola su Megatu.be. «Cose cattive uscirà presto su Megatu.be in 9 puntate. Sarà il primo esperimento in tal senso e credo rappresenti un’ennesima idea per creare possibilità per il cinema».