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Vittorio, c’eravamo tanto amati: De Sica e Maddalena… Zero in condotta

La versione restaurata di Ladri di biciclette di Vittorio De Sica è stata presentata al 71° Festival di Cannes, nella sezione Cannes Classics, per i 70 anni dalla realizzazione del capolavoro del 1948.

Conosciuto in tutto il mondo per essere uno dei padri, insieme a Roberto Rossellini e Luchino Visconti, del Neorealismo cinematografico italiano, Vittorio De Sica (1901–1974) è stato attore, regista e sceneggiatore. Tra i cineasti più influenti della storia del cinema, nato in «tragica e aristocratica povertà», appena quindicenne ha iniziato ad esibirsi come attore dilettante in piccoli spettacoli. «Parlami d’amore Mariù… tutta la mia vita sei tu…» forse non sapete che il motivetto di questa canzone l’ha canticchiato, nel 1932, proprio De Sica nel film Gli uomini, che mascalzoni… di Mario Camerini, la pellicola del suo esordio come attore prima di affermarsi come uno dei più grandi cineasti italiani.

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Una volta iniziata la sua fortunata attività come regista, non ha abbandonato la recitazione: è apparso in un centinaio di pellicole, anche in piccoli ruoli, collezionando numerosi premi. Vittorio De Sica ha firmato quattro grandi capolavori del cinema mondiale: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952), i primi due hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero e il Nastro d’argento per la migliore regia. Nel 1972 De Sica ha ottenuto il suo quarto e ultimo Premio Oscar con la trasposizione filmica del romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi-Contini.

«Il mio scopo è rintracciare il drammatico nelle situazioni quotidiane, il meraviglioso della piccola cronaca, anzi, della piccolissima cronaca» così il regista racconta la vita vera dell’Italia del dopoguerra, prende gli attori dalla strada e costruisce una regia fatta di primi piani drammatici e contrasti. Molti dei suoi film rientrano però nella categoria del cosiddetto cinema dei telefoni bianchi, definizione derivata dal modo di rappresentare la piccola borghesia attraverso i generi tipici dell’epoca: il vaudeville e il film di tipo collegiale.

Maddalena… Zero in condotta (1940) appartiene al secondo genere e, oltre ad essere tratto da una commedia ungherese di Laszlo Kadar, segna l’esordio alla regia di Vittorio De Sica. La pellicola è ambientata a Roma, in un istituto professionale femminile: le alunne di una quarta si prendono gioco di Elisa Malgari (Vera Bergman) giovane professoressa di corrispondenza commerciale. Tra tutte, spicca Maddalena Lenci (Carla Del Poggio), una ragazza dal carattere vispo che trova una lettera d’amore scritta da Elisa, il destinatario è il signor Hartman l’uomo immaginario usato negli esempi del libro di testo. La studentessa privatista Eva (Irasema Delian), impadronitasi della lettera, la spedisce per errore e arriva per davvero ad Alfredo Hartman (Vittorio De Sica), un ricco industriale viennese che incuriosito parte per Roma.

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Maddalena… Zero in condotta è una gradevole commedia degli equivoci a sfondo sentimentale, caratterizzata da personaggi femminili complessi e sfaccettati. Inoltre, De Sica ha introdotto in questo film uno dei temi a lui più cari: lo scherno nei confronti della realtà borghese e aristocratica. Altrettanto profonda è la descrizione del mondo della scuola: gli insegnanti si rivelano miopi e inadatti, dovrebbero essere responsabili dell’educazione delle giovani generazioni ma di fatto non sono all’altezza del proprio ruolo.

Vittorio De Sica — il cui nipote Andrea De Sica è anche lui un promettente regista, conosciuto per il lungometraggio I figli della notte — resta uno dei cineasti più affascinanti della storia del cinema. Dopo la sua morte, Ettore Scola gli ha dedicato il capolavoro C’eravamo tanto amati e una strada di Napoli nel quartiere Stella porta il suo nome. Non credo possa esistere un modo più adatto di celebrare il regista che, per quarant’anni, ha rappresentato il cinema italiano agli occhi del mondo.

La sexy comedy rivoluzionaria di Spike Lee

In concorso a Cannes con il suo ultimo lavoro Blakklansman, Spike Lee è considerato uno dei più celebri registi afroamericani: nei suoi film ha trattato importanti temi politici e sociali come il razzismo, le relazioni interrazziali, la discriminazione e l’integrazione.

Nonostante sia nato in Georgia da un padre jazzista e da una madre insegnante, Shelton Jackson Lee è stato il cantore di New York. Nel 2015 ha ricevuto l’Oscar alla carriera e di recente, insieme alla moglie (ovvero la produttrice Tonya Lewis), ha realizzato per Netflix la serie-tv She’s Gotta Have It tratta dal suo omonimo film d’esordio del 1986, conosciuto in Italia con il titolo Lola Darling. Spike Lee produce, dirige, monta e persino recita in She’s Gotta Have It.

Il film racconta di una ragazza afroamericana, un’artista indipendente che vive in un minuscolo appartamento di Brooklyn, e delle relazioni che ha con i suoi tre amanti. La prima scena del film è tutta per Nola Darling (Tracy Camilla Johns – Lola nella versione italiana), che seduta sul suo letto si rivolge alla telecamera: «Vorrei farvi sapere che l’unica ragione per cui sto facendo questo è perché la gente pensa di conoscermi».

Nola rivendica con decisione la propria libertà, rifiuta le etichette e vive con disinvoltura la sua sessualità. La scelta di una protagonista afroamericana era quasi una novità assoluta per l’epoca, probabilmente l’unico precedente era Whoopi Goldberg nel film Il colore viola diretto da Steven Spielberg.

Il film fu girato in dodici giorni nel corso di una lunga e calda estate, con un budget limitato al quale contribuirono diversi amici, compresa la nonna di Spike Lee con ben quattromila dollari. Per ridurre ancora di più i costi, il regista ha offerto alcuni ruoli a conoscenti e parenti: la sorella ha interpretato la migliore amica di Nola e il padre ha recitato la parte della figura paterna di Nola, oltre ad aver composto la colonna sonora del film.

She’s Gotta Have It non ottenne un gran successo di critica ma racimolò qualche premio in USA e in Europa e un incasso di sette milioni di dollari. Inoltre, il personaggio interpretato da Spike Lee, Mars Blackmon, divenne una vera e propria icona afroamericana: il regista lo interpretò anche nelle pubblicità che diresse per le Air Jordan, le Nike di Michael Jordan, da cui è tratta l’iconica frase it’s gotta be da shoes (deve essere merito delle scarpe).

Provocatorio e onirico, Spike Lee si contraddistingue soprattutto nell’uso cromatico: She’s Gotta Have It è girato in bianco e nero, tranne un’unica scena a colori. La sua firma però resta il double dolly, presente in quasi ogni suo film: il dolly è la cinepresa messa su dei binari, l’uso alla Spike Lee consiste nel mettere sui binari sia la cinepresa che l’attore, per farlo spostare in un modo fluido e innaturale.

Tutto in She’s Gotta Have It dimostra l’originalità e la sensibilità del giovane regista: si dice infatti che Spike Lee avesse scritto la sceneggiatura del suo film d’esordio dopo aver consultato moltissime donne, soprattutto riguardo a questioni relative alla sessualità. Si pensa che sia stato questo a decretare il suo successo tra gli afroamericani, soprattutto tra le spettatrici.

Raramente nel cinema si sono mostrate donne così al di fuori dagli stereotipi e, ancora più raramente, un uomo ha deciso di raccontarle e soprattutto di ascoltarle. Spike Lee l’ha sempre fatto con coraggio e senza sovrastrutture, portando sul grande schermo quella parte di America che non trovava spazio al cinema.

Su questo film, Spike Lee ha dichiarato: «per prima cosa mi venne in mente il titolo: She’s Gotta Have It. La gente si sarebbe chiesta: che cosa deve avere lei? E per scoprirlo sarebbe andata al cinema». Per scoprire cosa deve avere Nola, ora basta recuperare il film d’esordio di Spike Lee o fare un giro su Netflix, perché non contano le piattaforme, contano le storie e quella di Nola è una cosa che you gotta have it, trust me.

Jean-Luc Godard: À bout de souffle e la Nouvelle Vague

Jean-Paul Belmondo guida con la sigaretta in bocca, guarda verso la macchina da presa e si rivolge agli spettatori. Non era mai successo prima: in un istante Jean-Luc Godard rompe le regole del cinema.

Nel 1959 dirige il suo primo lungometraggio: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) con Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg e Jean-Pierre Melville, il film diviene immediatamente simbolo della Nouvelle Vague francese. Tratto da un soggetto degli amici François Truffaut e Claude Chabrol, viene girato in sole quattro settimane e con un budget limitato. Godard utilizza la cinepresa a mano e vari strumenti di fortuna, come una sedia a rotelle per realizzare le carrellate. À bout de souffle richiama due milioni di spettatori e conquista l’Orso d’Argento al Festival di Berlino, ottenendo una distribuzione internazionale.

Sono tante le novità portate per la prima volta sullo schermo: l’introduzione dei jump-cut e quindi una nuova forma di montaggio, la sceneggiatura appena abbozzata (ma non inesistente, come leggenda vorrebbe), gli attori che si rivolgono direttamente al pubblico, gli sguardi in macchina e la recitazione improvvisata. Godard grida fortissimo al mondo la finzione del cinema, radicale e provocatorio, è uno dei cineasti più significativi del cinema francese e internazionale. L’impatto che ha avuto sul linguaggio cinematografico gli è valso l’Oscar alla carriera nel 2011.

Tutta la narrazione di À bout de souffle è costruita attorno alla figura di Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo), un giovane criminale in fuga dalla polizia che, giunto a Parigi, ha una relazione con un’aspirante giornalista di nome Patricia Franchini, (Jean Seberg) e tenta di convincerla a scappare insieme a lui in Italia. In una scena, Belmondo imita il divo americano Humphrey Bogart, guardandone il manifesto per strada. Michel però è decisamente meno romantico, un anti-eroe senza ideali, segue i suoi impulsi criminali ed è scorretto come lo sono spesso i personaggi di Godard.

Nel finale, drammatico e ironico insieme, l’allusione all’incomunicabilità tra i due amanti è esplicita, ed è un male dei tempi più che una difficoltà linguistica: ci guardiamo fissi negli occhi, e non serve a niente commenta sconsolata Patricia, avvertendo il vuoto assoluto che la lega a Michel. Sono questo insieme di citazioni letterarie e i riferimenti pittorici e cinematografici ai film noir degli anni ’50 a fare di Godard un’icona pop.

Idolo di Quentin Tarantino e Sofia Coppola, ispirazione di Martin Scorsese, citatissimo anche dalla moda e dalla pubblicità – Godard del suo cinema dice: quello che conta non è il messaggio, è lo sguardo e il cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. E i desideri di Godard sono rivoluzionari, androgini, lenti, riflessi negli specchi, concentrati sull’irrilevante – quello che si fa protagonista dei venti minuti di dialogo sul niente, in un albergo qualunque, tra due persone che si guardano negli occhi senza riuscire a vedersi.

Nel romanzo La metafisica dei tubi Amélie Nothomb scrive una cosa che avrebbe potuto dichiarare Godard stesso in un’intervista: Lo sguardo è una scelta. Chi guarda decide di soffermarsi su una determinata cosa e di escludere dunque all’attenzione il resto del proprio campo visivo. In questo senso lo sguardo, che è l’essenza della vita, è prima di tutto un rifiuto. Il cinema di Godard è stato uno sguardo nuovo sul mondo, un rifiuto di tutto quello che l’ha preceduto sul grande schermo.

In À bout de souffle gridava la sua rivoluzione da ogni imperfetta inquadratura, ma era come se sussurrasse. Da un certo punto in poi, persino l’iconico cineasta non è stato all’altezza di sé stesso, ma non è un’iperbole definire quello di Godard uno degli esordi più stupefacenti di sempre. Se anche À bout de souffle fosse stato il suo primo e ultimo film, avrebbe comunque fatto la storia del cinema.

Sorrentino e L’uomo in più: il calcio, la musica e nessun pareggio

Che posso dire, che è meglio aver amato e perso, piuttosto che mettere linoleum nei vostri salotti?: ed è con questa citazione di una poesia di Amiri Baraka (In Memory of Radio) che si apre il primo film di Paolo Sorrentino, scritto e diretto nel 2001.

Napoli, anni ’80. Antonio Pisapia (Andrea Renzi) è un calciatore all’apice della propria carriera, uno che non si presta ai trucchi del calcio scommesse, un timido e i timidi decidono di fare i difensori, si nascondono dietro agli attaccanti, tentano di passare inosservati. Tony Pisapia (Toni Servillo) è un cantante di successo, un uomo egocentrico e dipendente dalla cocaina. Il calcio e la musica sono fabbriche di sogni e – in un’epoca di eccessi come lo sono stati gli anni ’80 – i due omonimi hanno tutto da perdere: Tony viene sorpreso a letto con una minorenne, mentre Antonio si rompe i legamenti durante un allenamento.

Una chiave di lettura la dà anche la frase che l’ex Presidente rivolge ad Antonio: Penso che il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste. Forse il senso del film è tutto lì, non vale la pena giocare se non ti diverti, perché ’a vita è ‘na strunzata, dice Tony. Ed è la poesia di Sorrentino, grottesca e ironica insieme, sin dal primo film – in quel monologo di Servillo sulla libertà, la vita, la morte, la cocaina e il dolore, c’è già tutto. La narrazione procede parallela raccontando la disfatta dei due protagonisti, omonimi ma diversi, fino a quello sguardo lunghissimo che lega per sempre le loro vite e li conduce ognuno al proprio epilogo.

L’uomo in più del titolo viene citato per tutto il film, ma viene esplicitato solo nel finale: inteso non solo come schema di gioco rivoluzionario (quattro punte invece di tre), ma soprattutto come necessità dell’altro e di quello che rappresenta. Alla fine della storia, quando le luci si spengono, i due infelici si riconoscono come spiriti affini: nell’istante in cui si guardano, scelgono il proprio finale e rifiutano la dittatura dell’apparenza, reagiscono all’emarginazione.

Non è un caso che dell’Italia, prima di indagare la Chiesa, la scelta di Sorrentino sia ricaduta sul mondo della musica leggera e su quello del pallone, entrambi orgoglio del nostro Paese. Il film d’esordio del regista premio Oscar è un insieme di scelte musicali azzardate, luce fredda e regia esplicita, con una sceneggiatura equilibrata e tutti quei contrasti che caratterizzeranno poi tutti i suoi film.

Il talento di Sorrentino si fa notare subito, presentato alla Mostra di Venezia del 2001, vince il Nastro d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre candidature al David di Donatello. Il regista napoletano è anche autore del soggetto e della sceneggiatura, per creare i due Pisapia si è ispirato a due personaggi reali: il cantautore Franco Califano e il calciatore Agostino Di Bartolomei, morto suicida. Il titolo stesso è ispirato allo schema tattico applicato da Ezio Glerean, allenatore del Cittadella negli anni ‘90.

Il personaggio di Tony tornerà poi nel primo romanzo di Sorrentino Hanno tutti ragione (Premio Strega 2010), però con il nome di Tony Pagoda, erede di Tony Pisapia. Il romanzo ci regala un altro frammento di Tony, l’ultimo pezzo del puzzle: Niente, io sono uno di quelli che, per ingordi di etichette deficienti, viene definito un cantante da night. Però io non sono un’etichetta. Io sono un uomo. Ma che dire, col senno di poi, non era meglio essere un’etichetta?

Quest’esordio è anche l’inizio del sodalizio artistico tra Toni Servillo e Paolo Sorrentino, un’amicizia determinante per la carriera di entrambi. E pensare che Servillo ha conosciuto Sorrentino lavorando a teatro, ma all’inizio non aveva un grande interesse per questa collaborazione. Un classico momento alla Sliding Doors, chissà come sarebbe andata altrimenti.

I pugni in tasca: il manifesto di Marco Bellocchio

È il 1965 quando I pugni in tasca, il film d’esordio di Marco Bellocchio, diventa un caso nazionale. A soli ventisei anni si ritrova al centro del dibattito dei grandi intellettuali dell’epoca come Calvino, Moravia e Pasolini. La critica ha eletto I pugni in tasca come il film-manifesto in grado di anticipare i fermenti del ‘68 e l’ha selezionato tra i cento film italiani da salvare.

Quella de I pugni in tasca è una vicenda di solitudine e follia: in una villa isolata sull’Appennino emiliano, quattro fratelli vivono con la madre cieca. Augusto è il maggiore, l’unico con un lavoro, Giulia è morbosamente innamorata di lui, Leone è affetto da ritardo mentale e Alessandro ha un carattere nevrotico e cupo. Sarà quest’ultimo a far esplodere i già precari equilibri familiari. I pugni in tasca è un film ossessivo e claustrofobico, ribalta il concetto tradizionale di amore familiare e affronta il tema dell’incesto tra fratello e sorella, facendo a pezzi il modello della famiglia borghese italiana.

i pugni in tascaL’opera prima di Bellocchio è acerba ma memorabile, anche grazie alle musiche di Ennio Morricone che ha composto una colonna sonora ispirata, dopo aver visto una copia muta del film. Silvano Agosti si occupò del montaggio in circa quaranta giorni, per poi passare un mese solo sull’ultima scena: infatti il protagonista “muore di montaggio”. Aggiustando il tiro in post-produzione, Bellocchio rimedia alla prudenza usata in sceneggiatura e uccide il protagonista, cambiando così il finale.

Bellocchio ha iniziato la sua carriera come attore, non a caso Ettore Scola l’ha definito «il più bel regista del cinema italiano», poi ha fatto l’aiuto regista e il produttore. È andato a Londra con la scusa di frequentare dei corsi di cinema, grazie a una piccola borsa di studio, e ha scritto il soggetto del film I pugni in tasca. Per mesi con l’amico Enzo Doria aveva cercato persone disposte a finanziare il progetto, ma senza successo: i produttori ritenevano la storia scadente e non vendibile. Il film venne poi realizzato con il contributo del fratello di Marco Bellocchio, Tonino, che finanziò l’opera con cinquanta milioni. Il film fu ultimato anche grazie alla collaborazione dei compagni di studi del giovane regista che, al Centro Sperimentale di Cinematografia, aveva studiato recitazione.

La prima idea di casting fu piuttosto singolare: Bellocchio prese in considerazione Raffaella Carrà e Gianni Morandi, tentando la via del personaggio popolare. Morandi lesse la sceneggiatura e accettò, ma la sua casa discografica si oppose affermando che il film gli avrebbe rovinato la carriera. Alla fine vennero scelti Paola Pitagora per il ruolo della cinica e fredda Giulia e Lou Castel, per quello di Alessandro. L’attore, scelto per la sua risata, riuscì a conferire al suo personaggio una sfumatura dolce e crudele. Sono noti vari episodi che dimostrano però quanto fosse difficile gestire Castel sul set, aveva spesso reazioni violente o assurde che costringevano la troupe e il regista a modificare intere scene e a moderare i contrasti tra lui e gli altri attori.

i pugni in tascaI pugni in tasca torna al cinema in versione restaurata grazie alla Cineteca di Bologna e distribuito su scala mondiale. Nella versione restaurata è stato aggiunto un frammento inedito: la scena del bacio tra fratello e sorella. Bellocchio all’epoca aveva deciso di tagliarla per non incorrere nella censura e nel sequestro della pellicola.

Quello di Marco Bellocchio è sicuramente uno degli esordi più importanti della storia del cinema italiano, la versione restaurata è un’ottima scusa per rivederlo sul grande schermo.

Io sono un autarchico: inconfondibile Nanni

Nanni Moretti nasce nel 1953 e vive da sempre nel quartiere romano Monteverde Vecchio, comincia a fare cinema vendendo la sua collezione di francobolli in cambio di una cinepresa Super 8. Io sono un autarchico esce nel 1976 ed è il suo primo lungometraggio, Moretti lo gira tutto a Roma: impiega tre mesi e tre milioni e settecentomila lire, reclutando parenti e amici. In questa commedia appare per la prima volta il personaggio di Michele Apicella (il cognome è quello della madre di Moretti), il suo alter ego. Il ventitreenne regista romano realizza una prima prova un po’ grezza, con camera fissa e sequenze scarne, ma comunque convincente.

L’esordio di Nanni Moretti, sia come regista che come attore, avviene in un luogo di culto per tutti i cinefili romani degli anni ’70: il Filmstudio, a Trastevere. Moretti si presentava tutti i giorni al cineclub con le bobine sotto il braccio e, ogni sera, le smontava e se le riportava a casa. Presente a tutte le proiezioni, il giovane regista accoglieva gli spettatori con sorrisi e calorose strette di mano, fermandosi sempre ad ascoltare i commenti a caldo del pubblico. Mossa promozionale o meno, diede il via a un inarrestabile passaparola nell’ambiente culturale, portando alla ristampa della pellicola in 16 mm per la distribuzione nazionale. Il film arrivò così a Parigi e a Berlino, suscitando l’interesse di vari giornalisti e critici, compreso Alberto Moravia.

Io sono un autarchicoMoretti, con il suo film autoprodotto, fotografa la sua generazione e realizza così una pellicola indipendente destinata a diventare un cult. La storia è tutta nel rapporto tra Michele, la moglie Silvia e il figlio Andrea. I due coniugi sono in crisi: Silvia ha ventidue anni e si sente oppressa nel ruolo di moglie e madre, non si ricorda neanche perché si è sposata e per questo va via di casa. Mentre Michele, antipatico e asociale, gioca a fare l’uomo indipendente e fuori dagli schemi – ma con l’assegno mensile del padre – partecipando allo spettacolo di teatro sperimentale dell’amico Fabio.

Io sono un autarchico mette in scena personaggi pieni di aspettative e ideali ma destinati a fallire, incastrati in una società che si sta lentamente disgregando mentre cambia troppo in fretta. In questo film si intravedono già tanti temi che si svilupperanno poi nel cinema morettiano: lo smarrimento, il disincanto politico e la ricerca dell’autenticità del linguaggio, l’aspra critica alla superficialità dei sentimenti, ma anche la controcultura, il teatro e alcuni feticci come i dolci, la pallanuoto, le scarpe, la musica e i dialoghi al telefono.

Quando si parla di Io sono un autarchico, non si può evitare di citare un paio di polemiche. All’interno del film sono frequenti i riferimenti, non sempre positivi, al cinema italiano: in una famosa scena, Michele schernisce con la bava alla bocca Pasqualino Settebellezze e la cattedra di cinema assegnata in America alla regista Lina Wertmüller, cosa che creerà non poca acredine tra i due.

Io sono un autarchico
Andreas Solaro/AFP/Getty Images

L’altra disputa riguarda il caso del “Rizzoli”: nel 1977 Io sono un autarchico fu candidato alla sesta edizione del Premio Angelo Rizzoli, riservato ai giovani autori italiani. La giuria del concorso era composta da varie personalità del cinema, tra le quali Alberto Sordi. I giurati avevano la facoltà di rinunciare al voto anonimo e motivare pubblicamente la propria preferenza, Sordi fu tra quelli che si rifiutarono di parlare in pubblico. Alla quarta votazione il film di Nanni Moretti era in vantaggio ma, in un momento di stallo, un giurato palese e uno anonimo modificarono il proprio voto: vinse così Un cuore semplice di Giorgio Ferrara. Si dice che il giovane Moretti gridò una parolaccia e andò via dalla premiazione, in lacrime. Alberto Sordi, nonostante le smentite, venne identificato come il giurato anonimo e la polemica raggiunse il suo culmine nella celebre battuta di Ecce Bombo:

Rossi e neri sono tutti uguali? Ma che, siamo in un film di Alberto Sordi? Sì, bravo, bravo… Te lo meriti Alberto Sordi!

Nanni Moretti comunque si rifece vincendo il Premio Angelo Rizzoli l’anno successivo proprio con Ecce Bombo, il suo secondo lungometraggio, che avrebbe dovuto chiamarsi Sono stanco delle uova al tegamino… ma questa è un’altra storia.

Duel: il folgorante esordio di Spielberg (errori compresi)

Il 21 marzo si è svolta la 62esima edizione dei David di Donatello, Steven Spielberg è stato l’ospite più atteso: durante la serata, Monica Bellucci gli ha consegnato la statuetta alla carriera.

Il suo discorso di ringraziamento è diventato subito virale, moltissime le belle parole spese nei riguardi del cinema italiano: dall’ammirazione per i maestri come Pasolini, Fellini e Antonioni ai colleghi di origine italiana come Tarantino, Scorsese e Minelli che, in un’epoca fatta di accoglienza e meno barriere, hanno permesso al cinema italiano e a quello americano di fondersi.

Duel, il regista Spielberg ai David di Donatello

L’aneddoto più magico resta l’incontro con Fellini: nel 1971, a inizio carriera, il grande regista l’aveva cercato per complimentarsi per Duel, il suo esordio, proiettato la sera prima alla presentazione romana del film. Fellini e il regista americano, ancora sconosciuto, passeggiarono per Roma e Spielberg vide la città attraverso gli occhi del suo mito. Soprattutto, non dimenticò mai il suo consiglio: è importante intrattenere il pubblico, ma è ancora più importante intrattenere sé stessi. Per conquistare il pubblico bisogna essere il pubblico, consiglio seguito alla lettera e mai dimenticato. Da 45 anni, una fotografia di quel giorno a Roma è appesa alla parete del suo ufficio.

Spielberg comincia a fare cinema da giovanissimo, con la cinepresa regalatagli dal padre. Il suo primo cortometraggio, Amblin (1969), attirò l’attenzione della Universal che gli offrì un contratto per la tv. Ventunenne in un settore dominato da autori e registi ultracinquantenni, Spielberg diresse alcuni episodi di vari telefilm. Alla fine degli anni ’60 la Universal cercava però di produrre lungometraggi per la televisione associandosi all’emittente ABC, con l’obiettivo di abbattere i costi ma soddisfare comunque il grande pubblico ancora innamorato del cinema.

In queste circostanze, gli viene commissionato il suo primo film per la televisione, da girare in dieci giorni con un budget di 450.000 dollari. La segretaria di Spielberg, Nona Tyson, esorta il regista appena ventiquattrenne ad adattare un racconto del grande scrittore Richard Matheson, pubblicato su Playboy e basato su un episodio autobiografico. Il film ha una lavorazione rapidissima: girato in appena tredici giorni, con la colonna sonora composta in una settimana e ben cinque editor al montaggio, per rispettare i tempi strettissimi.

Duel è la storia surreale e adrenalinica di un uomo che si trova coinvolto in un duello nel deserto. Come in un tipico road-movie, ci sono le classiche immagini del paesaggio desertico degli Stati Uniti: le strade sbiadite, i bar, i dirupi, le stazioni di benzina e le cabine telefoniche dall’aria malconcia. Ad attraversare il deserto è David Mann (Dennis Weaver), un uomo comune perfettamente calato nello stile di vita dei sobborghi californiani: vive con la moglie casalinga e i due figli, mangia nei fast-food, non ha uno scopo e il suo ruolo di padre e marito è in crisi. David, con un’auto rossa qualunque, si allontana sempre di più dal mondo civilizzato e va incontro a un pericolo inaspettato.

Duel

L’antagonista è l’autocisterna: mossa da un’inspiegabile volontà di distruzione, tenta di mandare David fuori strada. Il film non mostra mai il conducente, ma solo il Peterbilt 281 del 1955. Spielberg lo scelse fra tanti perché frontalmente dava l’idea di un volto, e il motore rombava tanto da sembrare un ruggito. In questo scontro, David incarna l’uomo medio che si ritrova in una situazione incredibile e non è preparato ad affrontarla: un meccanismo narrativo che diventerà un vero e proprio leitmotiv nel cinema spielberghiano.

Duel non è un film perfetto, è quasi del tutto privo di dialoghi e presenta tanti piccoli errori, anche perché il giovane Spielberg non riguardava mai i giornalieri. Ad esempio, in una scena, è possibile intravederlo riflesso sul vetro della cabina telefonica mentre legge il copione.

Nonostante il ritmo frenetico, la giovane età del regista e qualche imprecisione, il film ebbe un enorme successo e una distribuzione internazionale. Spielberg, anni dopo, ammise: «Se non avessi avuto la possibilità di girare Duel, la mia carriera sarebbe stata molto diversa» e, forse, non avrebbe mai passeggiato per Roma con Fellini.

Con questo articolo Fabrique inizia una serie di approfondimenti sugli esordi di autori divenuti maestri del cinema italiano e mondiale. L’appuntamento è ogni venerdì su sito e social. Non perdetevi la prossima uscita!