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Stefania Covella

Il cinema di Gianni Amelio continua a Colpire al cuore

Colpire al cuore è l’opera prima di Gianni Amelio, un film sul terrorismo, ma soprattutto un manifesto dell’incomunicabilità fra due generazioni a confronto: il dramma intimo sul rapporto tra un padre e un figlio negli anni di piombo. «Oltre ad essere diventato padre, la mia conquista più grande è fare questo lavoro con una serenità che prima non avevo!» eppure, il regista calabrese che ha fatto coming out nel 2014, aveva alle spalle già anni di gavetta in tv. Si libera però dell’ansia da prestazione solo dopo aver girato Porte Aperte (che gli dona la fama e una nomination agli Oscar), quando un macchinista gli dice che gli ricorda Mario Monicelli: questo gli permette di iniziare a lavorare accettando di poter sbagliare.

Sceneggiato con Vincenzo Cerami, Colpire al cuore è ambientato nella cupa e lattiginosa Milano dei primi anni Ottanta. Girato nel 1982 in appena otto settimane e con pochi mezzi, alla sua presentazione a Venezia ha diviso la critica tra chi parteggiava per il padre, chi per il figlio e chi l’ha accusato di fiancheggiare il terrorismo. Un’accusa ridicola per una lettura superficiale della pellicola e dei personaggi, entrambi vittime delle circostanze e delle ferite profonde che si portano addosso come una croce.

gianni amelio

Colpire al cuore è film controverso e audace, che offre un’inedita prospettiva capovolta: non sono i padri a controllare i figli, quella provocatoria gioventù bruciata che vorrebbe sovvertire l’ordine, ma l’esatto contrario. Gianni Amelio ribalta gli stereotipi patriarcali e racconta un padre rivoluzionario che collabora con un’organizzazione eversiva, fermato da un figlio schiacciato dal bisogno di ordine e di regole e, forse, anche un po’ di punire quel padre che sente distante. La storia è semplice e agghiacciante insieme, perché racconta un tradimento insanabile: un adolescente, Emilio (Fausto Rossi), che denuncia il padre (Jean-Louis Trintignant), quando scopre che sta aiutando la compagna (Laura Morante) di un brigatista, morto in uno scontro a fuoco.

Il gap tra padre e figlio, la distanza siderale che li divide è chiara fin dalle prime scene, la macchina da presa li segue con discrezione con un carrello all’indietro: Dario corre nel parco e fatica a stare accanto al figlio in bicicletta, i due non riescono a coordinarsi e a mantenere il passo. Sono una nota stonata, un meccanismo che si inceppa: qualcosa non funziona e lo si avverte dal primo istante. Emilio sembra incapace di avvicinarsi a suo padre o a chiunque altro; simbolo assoluto di voyerismo, si mantiene distante e osserva tutti dall’obiettivo di una macchina fotografica o dalla fessura tra i frammenti di una vetrata. Tutto è distorto, perché dal buco della serratura sembriamo tutti ladri, tutti assassini.

gianni amelio

Parafrasando uno dei dialoghi più famosi, Dario dice al figlio che lo sa che lui vorrebbe che gli dicesse cosa e bene o cosa è male, tutti vorrebbero qualcuno capace di semplificare in dicotomie nette la realtà, essere imboccati da certezze rassicuranti, ma padri perfetti così non ne esistono più e Emilio risponde: figli perfetti ancora meno. Ed è un po’ questa la chiave, il grumo dolorante dell’inadeguatezza di entrambi i personaggi in quelli che dovrebbero essere i loro ruoli naturali: si dice che un bambino impari cosa è la delusione quando cadono gli eroi, ovvero quando smette di idealizzare i genitori che crede onniscienti e infallibili e li scopre umani, imperfetti o peggio. Gli adulti la riscoprono quando capiscono di non poter convivere con la delusione di non potersi specchiare nel proprio figlio e infondo è un tradimento anche questo, forse il peggiore.

Gianni Amelio ha dichiarato spesso: «Non credevo che sarei sopravvissuto a questo film!» e invece è sopravvissuto a questa e a molte altre pellicole che hanno aperto porte e regalato tenerezze (qui la recensione di Fabrique du Cinéma). Di Gianni Amelio continueranno a sopravvivere il coraggio, il riscatto paterno, l’autenticità e la maestria. Ora più che mai è importante restare umani, e per ricordarcelo serve che sopravvivano le testimonianze, i film onesti e tutto quello che ci ha fatto innamorare nel buio della sala. Dopotutto, il cinema di Amelio ha il compito di colpire al cuore, lasciare un segno indelebile, altrimenti sarebbe una carezza e non farebbe così male.

Sesso, bugie e videotape: Soderbergh il ragazzo prodigio

Steven Soderbergh è il regista più chiacchierato del momento: ha fatto scalpore la scelta di girare il suo ultimo thriller, Unsane, con un iPhone 7 plus. È sempre stato un regista sperimentale e fuori dagli schemi, quindi non sorprende il suo palese intento provocatorio. Sono azzardi del genere ad averlo consacrato come regista di culto. La sua capacità di saltare dai generi commerciali al cinema d’autore l’ha reso un fenomeno pop citatissimo: dai Simpson a Dexter, passando anche per Beverly Hills 90210 e le canzoni del rapper Kanye West.

Steven Soderbergh è inafferrabile e contraddittorio e per questo la sua filmografia è molto varia e complessa: abbraccia tutti i generi dal biopic all’erotico, sperimenta tutti i formati dal 35 allo smartphone, gira per mesi ma anche in in tre giorni, con budget o senza finanziamenti, realizzando serie tv godibili (The Knick e Mosaic) ma anche blockbuster con cast stellari.

soderbergh

Quella di Soderbergh è un’opera prima indimenticabile: appena ventiseienne è il più giovane regista a vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes con Sex, Lies and Videotape (1989), più o meno alla stessa età di Orson Welles quando ha girato Quarto potere (qui per saperne di più) e di Bellocchio quando ha realizzato I pugni in tasca (qui per non perderti il nostro approfondimento). Con Sesso, bugie e videotape riesce a realizzare una delle opere più riuscite sul sesso, sebbene siano le bugie che i protagonisti raccontano a sé stessi e agli altri la parte più esplicita e pruriginosa della pellicola. Il sesso invece è sussurrato, chiacchierato e sviscerato, ma resta spesso fuori dall’inquadratura.

Il film è ambientato in Louisiana e i protagonisti sono una coppia senza figli: John (Peter Gallagher), un cinico avvocato di successo e Ann (Andie MacDowell), in terapia perché non sopporta che il marito la tocchi. John allora, sentendosi trascurato, la tradisce con la sorella, Cynthia (Laura San Giacomo). Il triangolo viene messo in crisi dall’arrivo di Graham (James Spader), un ex compagno di studi di John: un bel ragazzo divenuto impotente dopo una delusione amorosa. Graham colleziona e guarda in modo ossessivo i videotape di donne, comprese Ann e Cynthia, che gli raccontano le loro esperienze sessuali.

Il personaggio interpretato da James Spader è molto moderno e rappresenta l’uomo dipendente dallo schermo, dal porno, dalla confessione in video. È la vittima della società delle immagini, della virtualità confusa con la realtà, un uomo in crisi che rielabora la propria solitudine e la sublima. Per tornare a vivere nel presente, Graham deve farsi coraggio e distruggere le videocassette – dopo essersene servito un’ultima volta – prima di stare davvero con Ann.

soderbergh

Soderbergh sceglie di raccontare la borghesia americana muovendo i quattro protagonisti nei loro appartamenti claustrofobici, irrompendo nel loro privato per incrinare la superficie perfetta dei loro sorrisi, dei capelli curati e dei modi appropriati e posticci. Mentre Graham è un voyeur esattamente come lo spettatore in platea, siamo tutti lì, con le nostre maschere ben posizionate sul viso, alla ricerca del segreto scabroso, della fantasia sessuale altrui, delle pulsioni che ci neghiamo. Mentre loro si confessano, ci regalano la catarsi e la finzione-reale che solo il cinema esistenzialista sa restituire in modo autentico e senza filtri, con la leggerezza della commedia a smorzare i toni. Resta infondo un modo elaborato di guardarsi, come attraverso uno specchio deformato, sai di essere comunque tu nel riflesso.

Sesso, bugie e videotape è uno degli esordi più moderni della storia del cinema, se fosse ambientato nel 2018 e al posto dei videotape ci fossero i contenuti di Youtube, Soderbergh sarebbe la voce di questa generazione. Invece ha precorso i tempi restando attuale e al passo per temi e tecnica, azzardando in continuazione, forse più di chiunque altro.

Ricomincio da tre: ricominciamo da Troisi, il comico dei sentimenti

Sono gli anni settanta e nella cerchia della nuova comicità napoletana, si fa strada un attore con il viso da ragazzo e diventa «il comico dei sentimenti», quello che conquisterà il cinema italiano.

Nel giro di un anno, con l’aiuto di Anna Pavignano, Vincenzo Cerami e Ottavio Jemma, Massimo Troisi completa la sceneggiatura di Ricomincio da tre (qui il trailer della versione restaurata del 2015). Da semplice attore comico capace di farsi notare, Troisi si rivela sceneggiatore, interprete e regista: gira il film in sei settimane con un budget di quattrocento milioni di lire. Ricomincio da tre esce nelle sale italiane il 12 marzo 1981 e conquista immediatamente il pubblico; una sala cinematografica romana tiene in cartellone la pellicola per più di seicento giorni, un record assoluto. Non solo un successo di pubblico, ma anche di incassi: il film totalizza al botteghino ben quattordici miliardi di lire.

ricomincio da tre

Troisi è stato una rivelazione della cinematografica italiana e ha fatto incetta di premi tra David di Donatello, Nastri d’argento e Globi d’oro. Se c’è un difetto nella sua opera prima, Ricomincio da tre, è quello tipico degli esordi: volerci mettere dentro troppe cose, in quella che è comunque una brillante, malinconica, innovativa commedia romantica.

Troisi interpreta Gaetano, un giovane napoletano timido e indeciso che, stanco della vita provinciale e del lavoro alienante in un’azienda alimentare, decide di trasferirsi a Firenze (viaggiatore però, fa notare, non emigrante) in cerca di nuove esperienze. Gaetano decide di ricominciare da tre, non da zero: «Nossignore, ricomincio da… cioè… tre cose me so’ riuscite dint’a vita, pecché aggia perdere pure chest? Aggia ricomincia’ da zero? Da tre!» perché una o due cose buone le ha fatte e non intende buttarle via. Va a Firenze, in compagnia di un aspirante suicida e incontra Marta: un’infermiera con la passione per la scrittura. I due si innamorano ma Gaetano, leggendo il romanzo di Marta, scopre che l’ha tradito. Lei, rimasta incinta, non sa chi sia il padre del bambino, ma vuole comunque crescerlo con Gaetano.

L’attore, il comico, il napoletano, spazza via con soffio la commedia decadente che l’ha preceduto e ne inventa un’altra, con nuove tematiche e la sistematica rottura dei cliché. Nei film di Troisi, tra i suoi personaggi bizzarri, non esistono più i partenopei disoccupati, furbi e latin lover, al loro posto c’è l’antieroe timido in modo adolescenziale, il napoletano che non va a nord per emigrare in cerca di lavoro ma per viaggiare e conoscere altre realtà.

massimo troisi

Troisi, mentre interpreta la versione più autentica di sé stesso, scolla via dalla propria pelle una serie di cliché troppo stretti per stargli ancora addosso. I suoi, sono personaggi nuovi per il cinema italiano, ma lo è anche la società nella quale si muovono: le donne hanno preso coscienza della loro parità con gli uomini e lottano per i diritti fondamentali, così i personaggi femminili dei film di Troisi colpiscono per la decisione con la quale affrontano la vita che le vorrebbe sottomesse, docili e piene di grazia. Le donne di Troisi sconcertano la generazione patriarcale e la travolgono con una nuova ondata di femminismo, lui allora racconta una femminilità nuova, quella che per anni è stata oppressa da una commedia cinematografica spesso misogina e maschilista.

Massimo Troisi è stato come un defibrillatore per il cinema italiano, con il suo sguardo sempre attento alla società e alle nuove ideologie, pieno di quell’autoironia crescente che si manifesta nella creazione del suo antieroe: la vittima dei tempi moderni. Troisi aveva capito tutto e, più che una vittima, è sempre stato un eroe dei sentimenti, dell’ironia moderna, di Napoli e dell’Italia accartocciata sui suoi stessi stereotipi e pregiudizi. Per questo cerchiamo anche noi di non ricominciare da zero ma da tre, da quelle cose buone che il cinema ha fatto e ha insegnato, ricominciamo da Troisi.

Ossessione: il gesto trasgressivo e simbolico di Luchino Visconti

Luchino Visconti (1906-1976) è stato una figura di spicco nel panorama artistico e culturale italiano. Milanese di nascita, regista e scrittore ribelle e anticonformista, è stato uno dei padri del Neorealismo. Ha diretto numerosi film a carattere storico, la sua estrema cura delle ambientazioni e delle scenografie è stata ammirata e imitata da numerose generazioni di autori. Con la sua attività, intensa fino alla morte, si classifica come uno degli uomini più prolifici e influenti del periodo postbellico italiano. Nel corso della sua carriera, tra gli altri riconoscimenti, ha ottenuto un Leone d’argento e un Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia, la Palma d’oro al Festival di Cannes per Il Gattopardo (1963) e quattro volte il Nastro d’argento come miglior regista.

Iracondo, despota del set, maniaco della perfezione, bisessuale, aristocratico tormentato e comunista militante. Quella di Visconti è una vita atipica e avventurosa: in Francia ha una relazione con Coco Chanel che gli presenta Jean Renoir e comincia a lavorare come assistente su vari set cinematografici. Quando l’Italia è nel caos fra i bombardamenti di Roma e la guerra civile, frequenta l’ambiente antifascista dei redattori della rivista Cinema e partecipa attivamente alla Resistenza mettendo a disposizione la propria casa, trasformata per l’occasione in rifugio segreto, e per questo un’attrice lo salva per un pelo dalla condanna a morte per fucilazione.

luchino visconti

Il suo esordio cinematografico avviene a quarant’anni: Ossessione (1943) è il primo film ad essere definito neorealista, ed è proprio il montatore, Mario Serandrei, il primo a definirlo tale ufficializzando la nascita di un genere che avrà grande fortuna in quegli anni. L’opera prima di Visconti è ispirata a The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte) di James M. Cain, ma la situazione politica italiana non gli ha permesso di ottenere i diritti dell’opera che perciò non viene citata nei titoli del film, danneggiando per questo la distribuzione.

La pellicola è ambientata nelle campagne ferraresi e i due interpreti principali sono Massimo Girotti (Gino) e Clara Calamai (Giovanna); si racconta la storia d’amore di due amanti e assassini che arrivano a sbarazzarsi del marito di lei, aspirando a una felicità che non raggiungeranno mai. La regia di Visconti è composta da inquadrature studiate nel dettaglio e movimenti di macchina calibrati, con una resa visiva tendente alla perfezione. I contrasti dominano il film, dal nettissimo bianco e nero allo studio degli spazi: interni oppressivi, esterni desolati, campi lunghissimi e dispersivi. Infatti, in Ossessione Visconti riversa tutto ciò che ha imparato dal realismo poetico di Renoir e dalle esperienze teatrali, ma si può scorgere anche quell’americanismo che lo appassiona e che rende il film efficace e senza fronzoli.

L’uscita in sala genera molto entusiasmo tra i giovanissimi critici, ma al contempo scatena un’oppressione fascista molto decisa: proiezioni interrotte, perquisizioni delle sale e minacce ai gestori dei cinema sono all’ordine del giorno. La pellicola per un periodo è anche parzialmente censurata e persino sequestrata, ma Visconti è riuscito a tenere nascosta una copia del negativo fino alla fine della guerra.

luchino visconti

In Ossessione, il fulcro è la critica dello squallido modello di esistenza piccolo-borghese tanto caro al fascismo e al cosiddetto cinema dei telefoni bianchi. Inoltre, per la Feminist Film Theory, in questa pellicola per la prima volta il corpo di un uomo diviene elemento sensuale e oggetto del desiderio dello sguardo di una donna: mediante una soggettiva di Giovanna, la macchina da presa si avvicina al viso di Gino, anche l’abbigliamento (una canottiera attillata e molto scollata) enfatizza la caratterizzazione sensuale e il suo corpo è spesso l’oggetto degli sguardi espliciti di altri personaggi femminili, ma anche di quelli maschili come lo spagnolo, figura emblematica al centro di aspre polemiche a causa del sotto-testo omoerotico.

In un’Italia pervasa dalla cultura fascista dove sia l’adulterio che l’omosessualità sono banditi, fare un film toccando entrambi i temi è un gesto fortemente trasgressivo e simbolico. Luchino Visconti è stato un regista privilegiato che ha scelto di raccontare i vinti e di mettersi dalla loro parte sia dietro la macchina da presa che nella vita. Questo ha fatto di Ossessione una delle cento pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese e, di Visconti, l’indimenticabile Conte rosso.

Per un pugno di capolavori: Sergio Leone e Il colosso di Rodi

Sergio Leone è riconosciuto universalmente come uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante abbia diretto appena sette film (considerando solo quelli regolarmente accreditati). Leone era proprio come i suoi personaggi, come un cowboy taciturno e imperscrutabile, caratterizzato da un sigaro sempre acceso e da una frase epica da sfoggiare all’occorrenza, un po’ come la sua dichiarazione più famosa: «Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite».

Ha iniziato dal genere peplum (o il più gergale sandaloni), incentrato sulle azioni eroiche del mondo epico greco-romano. Negli anni sessanta, nonostante i detrattori, ha cambiato il genere western, l’ha reso più sporco e cattivo e per questo più umano. Grazie a titoli come Per un pugno di dollari, Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West, ha dato vita a un sottogenere italiano noto come spaghetti-western. Mentre, con C’era una volta in America ha profondamente rinnovato il lessico dei gangster movie. Leone è giovanissimo quando l’Italia è appena uscita dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e l’industria cinematografica è tutta da ricostruire. Le grandi produzioni hollywoodiane, attratte dai prezzi molto bassi e dalla disponibilità di manodopera a buon mercato, accorrono a Cinecittà nel periodo della cosiddetta Hollywood sul Tevere.

sergio leone

Figlio d’arte: il padre Vincenzo Leone (in arte Roberto Roberti) è attore e regista ed e considerato uno dei pionieri del cinema muto italiano e la madre, Edvige Valcarenghi (in arte Bice Valerian), è un’attrice. Leone inizia a lavorare nel cinema come comparsa, appena diciottenne, in Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica (qui il suo esordio) e come assistente alla regia per vari kolossal come Quo Vadis (1951) e Ben Hur (1959). In quegli anni spesso non viene neanche accreditato, come accade anche per la sua prima regia: il peplum Gli ultimi giorni di Pompei (1959). La pellicola era originariamente diretta da Mario Bonnard, ma venne ultimata da Leone perché il regista era troppo malato per terminare il film.

Grazie alla lunga esperienza maturata sui set, il regista romano è riuscito a realizzare la sua opera prima: Il colosso di Rodi (1961) un peplum epico-romano. Il talento di Leone sta proprio nel far sembrare spettacolare un film a basso budget, rivelandosi un cineasta dal gusto per lo spettacolo e già con un’ottima padronanza tecnica. La vicenda è ambientata nell’Isola di Cipro ed è la storia dell’enorme statua fatta costruire da Serse all’imbocco del porto di Rodi per bloccare i movimenti delle navi greche. Si tratta di cinema popolare, ma realizzato da formidabili artigiani in un immaginario d’intrattenimento fatto di intrighi e tradimenti, bene e male, eroi dai muscoli oliati che difendevano regine bellissime e città sotto assedio. Il Colosso di Rodi è un’opera che denota alcune immaturità, ma resta una visione godibile, soddisfacendo le aspettative di spettacolo e di avventura e realizzando anche un buon incasso al botteghino (657 milioni di lire).

sergio leone

Il lungometraggio è stato anche al centro di una celebre lite: il protagonista maschile, John Derek, aveva accusato Leone di essere troppo inesperto per dirigere il film e per questo voleva prendere in mano la regia. Alla fine ha avuto comunque la meglio Leone, grazie al sostegno della maggioranza della troupe, mentre Derek si è dimesso dal set.

Sergio Leone è stato un regista molto amato, sia da alcuni attori come Clint Eastwood, che da lui stesso è stato scoperto e trasformato da attore televisivo a Divo del cinema, sia da registi come Quentin Tarantino, che si è ispirato a Sergio Leone per realizzare il suo celebre The Hateful Eight, scegliendo Ennio Morricone (compagno di classe, amico e compositore di fiducia di Leone) per la colonna sonora. A Tarantino è legato un aneddoto: sul set de Le iene (1992), agli inizi della propria carriera, non conoscendo ancora tutti i termini tecnici era solito chiedere ai propri operatori di ripresa «give me a Leone», ovvero «datemi un Leone», per avere uno di quei primissimi piani sui dettagli, marchio di fabbrica del cineasta italiano.

sergio leone

Un regista geniale e innovativo, decisamente post-moderno, l’uomo che ha trasformato Clint Eastwood in una star, il narratore che per rappresentare l’estremo Occidente si rifaceva all’estremo Oriente (anche plagiando Akira Kurosawa e perdendo una causa per questo). Un regista che ha portato sullo schermo l’essenzialità dei gesti del cinema muto paterno e la tecnica hollywoodiana appresa dagli americani, facendo del suo cinema uno spettacolo con profondità inaspettate. Nonostante il successo più o meno costante, il regista romano aveva così poca fiducia nell’accoglienza delle sue pellicole, da dichiarare a ogni fine set che quello sarebbe stato il suo ultimo film.

Le opere di Sergio Leone – tutt’altro che parlate, infatti Adrian Martin definisce i suoi film «odi ai volti umani» – sono piene di frasi culto che l’hanno reso parte di un immaginario immortale. Dopotutto, chi di noi non ha mai detto almeno una volta nella sua vita la frase cult pronunciata da Ramon Rojo (Gian Maria Volonté): «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto?»

Crisi di Ingmar Bergman: dal fiasco alla storia del cinema

Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Svensk Filmindustri e la Ingmar Bergman Foundation hanno concesso la proiezione del nuovo restauro del Settimo Sigillo e di Ciò non accadrebbe qui, la spy story anticomunista disconosciuta dal regista svedese, al festival de Il Cinema Ritrovato promosso dalla Cineteca di Bologna.

Ingmar Bergman è stato un regista, sceneggiatore e drammaturgo ed è considerato uno dei maestri della cinematografia mondiale. Il suo film più famoso è Il posto delle fragole (1958), pellicola che gli è valsa un ricovero per esaurimento nervoso, ma anche l’Orso d’oro al Festival di Berlino e il premio della critica al Festival di Venezia. L’enorme influenza che l’opera di Bergman ha avuto sui registi europei l’ha reso un punto di riferimento per il cosiddetto cinema d’autore. Del regista svedese, Jean-Luc Godard (qui la sua opera prima) ha detto: «Ingmar Bergman è il cinema dell’istante», mentre Michael Winterbottom l’ha recentemente nominato nell’intervista che uscirà sul numero cartaceo di Fabrique.

ingmar bergman

Bergman è stato uno dei migliori registi dal punto di vista visivo e allo stesso tempo uno degli sceneggiatori più raffinati in circolazione. Il rapporto conflittuale con i genitori ha portato il giovane Bergman a rinchiudersi in un mondo fittizio, con il quale sostituiva quello reale. Quando a dodici anni ha ricevuto in regalo il suo primo proiettore cinematografico, quel mondo-rifugio è diventato il cinema, con le sue luci e le sue ombre.

Ingmar Bergman ha iniziato la sua carriera in un teatro studentesco di Stoccolma, scrivendo i testi e dirigendo una compagnia filodrammatica senza ricevere compenso, mantenendosi grazie all’aiuto di una ragazza del corpo di ballo. Ottenuta una certa stabilità economica, nel giro di due anni ha scritto e prodotto ben dodici drammi e un’opera lirica. Nel 1942, uno dei suoi drammi è in scena e dalla platea lo notano il neodirettore della Svensk Filmindustri e la responsabile della sezione manoscritti. Il giorno dopo, il giovane Bergman viene convocato e assunto con uno stipendio di cinquecento corone al mese.

ingmar bergman

Così, appena ventottenne, nel 1946 dirige la sua opera prima su commissione: Crisi (Kris). Come recita la voce fuori campo: «Non la definirei un dramma straziante, piuttosto un dramma quotidiano. Dunque è quasi una commedia». La storia, semplice e lineare, racconta di una diciottenne adottata che ritrova la madre biologica e la segue in città. Sedotta dall’avventura, scopre il lato oscuro delle persone e di sé stessa, ma dopo una cocente delusione torna dalla donna che l’ha cresciuta e sposa l’uomo che l’ha sempre amata.

Ingmar Bergman è moderno e attuale nel tratteggiare la crisi esistenziale dell’uomo, dopotutto è lui stesso ad affermare che «non c’è nessuna forma d’arte come il cinema per colpire la coscienza» e in questo modo dà vita a un nuovo filone filosofico ed esistenzialista. Il carattere autobiografico si rintraccia facilmente nei temi bergmaniani: la solitudine, il conflitto generazionale, il dolore del sentirsi inutili, l’innocenza perduta, la morte e il rapporto con la religione. Per il regista svedese «lo spettacolo della vita è un teatro di marionette», per questo il suo è un cinema fatto di dicotomie, di confronto continuo tra realtà e irrealtà, tra vita e teatro e il sipario non ha bisogno di calare su un palco, può farlo la tenda di una finestra, in una casa un po’ vuota, su una vita qualunque.

ingmar bergman

Nei chiaroscuri taglienti di Crisi, si inseguono specchi, treni, sigarette e manichini e le luci evanescenti illuminano il lieto fine più triste del mondo. In questa pellicola manca la catarsi, alla fine riparte il circolo diabolico e infelice e si ritorna all’incipit: la ragazza in fuga dall’artificiosità cittadina, con disincanto finisce per accettare di vivere imbrigliata nelle convenzioni sociali. In Crisi l’interrogativo principale, in ultima analisi, è se e quanto è possibile spogliarsi davanti all’altro, Jenny non ci riesce e accetta di recitare nella vita come nel teatro. Sotto luci al neon a intermittenza, la giovane si guarda allo specchio e sa di essere falsa e che il suo inferno sono gli altri.

La pellicola, un po’ come Jenny, è stata sfortunata, anche se è da considerarsi una dignitosa opera prima. La lavorazione di Crisi infatti è stata caratterizzata da numerosi imprevisti: vari incidenti e feriti sul set, il direttore della fotografia che abbandona il progetto e Bergman con le sue scelte costose e improduttive. Inoltre quando il film esce nelle sale, il 25 febbraio 1946, è un fiasco clamoroso. Ingmar Bergman è la dimostrazione che da un fallimento ci si può rialzare e che non tutti i grandi della storia del cinema hanno avuto un esordio da favola, di certo non Bergman, oggi considerato all’unanimità un maestro della settima arte.

Quarto potere: Orson Welles e il film inedito di Netflix

The Other Side of the Wind, l’ultimo e inedito film di Orson Welles, è stato acquistato da Netflix e avrà una distribuzione mondiale nelle sale in 35mm. Girato da Wells tra il 1970 e il 1976 insieme a colleghi e amici, non era mai stato completato a causa di alcuni problemi produttivi. La storia racconta gli ultimi giorni di un regista leggendario impegnato a pianificare un ultimo film decisamente estremo e a basso budget, ma finisce per innamorarsi del suo attore protagonista.

Facciamo però un salto indietro: è il primo maggio del 1941 e siamo a New York. È una sera apparentemente come tutte le altre, ma la sala del Palace Hotel ospita l’anteprima mondiale di Quarto potere (Citizen Kane), l’esordio di Orson Wellesqui le altre opere prime d’autore – destinato a diventare uno dei film più importanti della storia del cinema.

orson welles

Enfant prodige, Welles suona il piano, dipinge e recita fin da bambino, ha avuto successo all’età di ventitré anni grazie all’adattamento radiofonico del romanzo di fantascienza di H. G. Wells La guerra dei mondi (The War of the Worlds): la leggendaria trasmissione che scatenò il panico negli Stati Uniti, facendo credere alla popolazione di essere sotto attacco da parte dei marziani: «Per quello che abbiamo fatto sarei dovuto finire in galera, ma al contrario, sono finito a Hollywood». Questo insolito debutto gli ha dato la celebrità e un contratto per un film all’anno, per tre anni, con la casa di produzione cinematografica RKO. Gli viene concesso anche il cosiddetto final cut, cioè il diritto di dire l’ultima parola sul montaggio finale. Orson Welles ha portato a termine solo uno dei tre progetti: Quarto potere, il suo capolavoro.

La pellicola narra la vita del magnate della stampa Charles Foster Kane (Orson Welles), egocentrico e incapace di amare, rimasto solo all’interno della sua gigantesca residenza (Xanadu), dove muore abbandonato da tutti. La sua ultima parola è stata: «Rosebud», in italiano «Rosabella». Il direttore di un cinegiornale incarica Jerry Thompson (William Alland) di scoprire il significato di quella parola, la sua inchiesta lo porta da cinque persone che conoscevano bene Kane e che gli raccontano storie completamente diverse. Spetta al pubblico ricomporre questo intricato puzzle.

orson welles

La storia di Kane si perde nella capacità manipolativa dei mezzi di comunicazione, come lui perde sé stesso, l’amore, la famiglia, la stima degli altri e le sue amicizie, per sostituirle con l’accumulo di cose, rarità e castelli, nel tentativo di sopperire alla mancanza di sentimenti. Quarto potere è stato osannato dalla critica, ma ha faticato a ottenere il grande successo di pubblico anche a causa dell’opera di boicottaggio intrapresa dal magnate della stampa William Randolph Hearst, ovvero a colui a cui è ispirato il personaggio di Charles Foster Kane.

L’esordio di Welles è soprattutto un film innovativo: il giovane regista ha modificato il metodo classico di ripresa cinematografica, cambiato l’uso della profondità di campo e utilizzato la tecnica del piano sequenza. A livello di scrittura ha fatto ricorso all’uso sistematico dei flashback e a una estrema caratterizzazione psicologica dei personaggi, mentre, come protagonista, Welles ha dimostrato la propria abilità interpretativa, arrivando a coprire tutte le fasi dell’esistenza di Kane: la giovinezza da idealista direttore di giornale, passando per la mezza età all’apice del carisma e del successo, fino alla vecchiaia da megalomane soffocato dalla smania di possesso.

orson welles

Anche l’aspetto del travestitismo è fondamentale, Orson Welles ha utilizzato elaborate tecniche di trucco e camuffamento: «Riuscivo appena a muovermi, per via del corsetto e del cerone sul viso. Norman Mailer, una volta, ha scritto che quando ero giovane ero il più bell’uomo che mai si fosse visto. Grazie tante! Era tutto merito del trucco di Quarto potere

Jeanne Moreau ha detto che la vita di Welles era «costellata di valigie che si perdono, di aerei che non partono, di appuntamenti mancati, di film che non si finiscono»: nella realtà come sul grande schermo, Orson Welles si affida alle convenzioni per poi disattenderle. Stravagante, fantasioso, decisamente barocco e contorto, lo scrittore Jorge Louis Borges colpisce nel segno quando definisce Quarto potere un labirinto senza centro, mentre François Truffaut lo appella come il film dei film, dopotutto ha ispirato l’esordio di moltissimi registi e attori. C’è un prima, ma soprattutto c’è il cinema dopo Orson Welles e sta tornando in sala.

I 50 anni di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick

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2001: Odissea nello spazio compie 50 anni e il Festival di Cannes ha celebrato il film con la proiezione in 70 millimetri. Christopher Nolan ha introdotto la pellicola nel corso di un evento, alla proiezione sono stati presenti varie personalità del cinema mondiale e Katharina Kubrick, la figlia di Stanley Kubrick.

2001: Odissea nello spazio (qui il trailer ufficiale), l’ottavo lungometraggio di Stanley Kubrick, è considerato un capolavoro e costituisce una svolta epocale per il cinema. Tratto da un soggetto di fantascienza dello scrittore Arthur Clarke, nel 1991 il film è stata giudicato di significativo valore estetico e culturale. Nel 1969 ha vinto un Oscar per i migliori effetti speciali ed è stato inserito nella lista dell’American Film Institute al quindicesimo posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi.

stanley kubrick

La pellicola racconta una favola apocalittica sul destino dell’umanità e sul rapporto tra l’uomo e la tecnologia sempre più sviluppata, un’avventura spaziale che diventa scoperta di sé stessi e dell’ignoto. Stanley Kubrick ha sempre sostenuto che «Se può essere scritto o pensato, può essere filmato» e così ha girato un film considerato impossibile da realizzare. Guardandolo ci si ritrova persi nello Spazio o bloccati dallo stesso cortocircuito del supercomputer HAL 9000: la macchina, l’occhio rosso che deve mentire all’equipaggio ma non sa farlo. L’intelligenza artificiale che compie un errore non potendo perdonare a sé stessa di essere venuta meno alla perfezione, quella che dovrebbe distinguere i robot dagli esseri umani.

Ed è la storia della macchina più umana di tutte: Kubrick nel 1968 si interrogava su dilemmi attualissimi che sono il nodo nevralgico di una serie immensa come Westworld. Questo ci dimostra che non abbiamo smesso di farci domande ed è questo che conta, come dice Kubrick stesso: «Se qualcuno riesce a capire davvero 2001: Odissea nello spazio abbiamo fallito. Volevamo fare domande più che dare risposte».

stanley kubrick

Uno dei segreti di lunga vita di 2001: Odissea nello spazio è la cura maniacale dei dettagli: l’elaborazione dei vari modelli di astronavi non è stata affidata ad artisti o artigiani, ma a veri e propri ingegneri aerospaziali; i satelliti, la stazione spaziale e le varie tecnologie che appaiono all’inizio della seconda parte del film, sono riproduzioni di veri progetti della NASA. Grazie anche all’importante collaborazione del designer Hans Kurt Lange, Stanley Kubrick ha portato sullo schermo un futuro che in parte si è verificato, mostrando cose come il cibo liquido, le videochiamate e i tablet. Gli avvenimenti in ambienti senz’aria si svolgono in silenzio o con un valzer di Strauss ad accompagnare il volo delle astronavi.

Tutto in 2001: Odissea nello spazio è costruito per provocare nello spettatore un forte impatto emotivo, Kubrick stesso ha affermato: «Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico e allegorico del film. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio».

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Quando il film è stato presentato in anteprima mondiale il 2 aprile 1968 a Washington e in Italia il 12 dicembre dello stesso anno, ha suscitato reazioni contrastanti da parte della critica e del pubblico: è famosa la storia dell’uomo che, alla vista del monolite nero e sotto l’effetto di LSD, è corso verso lo schermo rompendolo e urlando: «È Dio». Senza contare le teorie complottiste sull’allunaggio e tutta un’altra serie di interpretazioni più o meno fantasiose, 2001: Odissea nello spazio può considerarsi uno dei film più discussi di tutti i tempi. Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali divenne il maggiore incasso cinematografico del 1968 e ottenne un seguito da film di culto.

David Bowie ha dichiarato di aver scritto Space Oddity ispirato dal film, ma non solo lui, all’inizio di Perfect Sense Roger Waters canta: “La scimmia sedeva su un mucchio di pietre e fissava l’osso rotto nella sua mano” e saranno poi numerosi i riferimenti artistici, pop e culturali a quella che è considerata una pietra miliare del cinema kubrickiano. La verità è che 2001: Odissea nello spazio non solo non ci ha ancora stancato, ma non è invecchiato neanche di un fotogramma.

Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio: Almodóvar e le donne

Se dici cinema spagnolo tutti pensano immediatamente a lui: Pedro Almodóvar. Con il suo sguardo dolce-amaro sul mondo, film dopo film, ha smascherato l’ipocrisia della società con una risata. Con Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) ottiene la sua prima candidatura all’Oscar, mentre Tutto su mia madre (1999) lo consacra al grande pubblico, vincendo la Miglior Regia a Cannes nel 1999 e l’Oscar al Miglior Film Straniero nel 2000.

Il film è noto come la dichiarazione d’amore del cinema alle donne. Sono loro le eroine di tutti i suoi film: coraggiose, ironiche, giovani, vecchie, nevrotiche, perse, sole, amanti, puttane, madri, traditrici, fedeli o malinconiche, incarnano gli opposti, il dualismo di tutte le cose. Pedro Almodóvar predilige l’universo femminile e dedica tutta la sua filmografia a illustrarne le molteplici sfaccettature, dichiarando dopotutto: «per me l’origine della finzione, del teatro, dello spettacolo è vedere più di due donne che stanno parlando».

 

Pedro Almodóvar ha raccontato spesso di aver scoperto il cinema giovanissimo grazie a una piccola sala di paese dove, per combattere il freddo durante le proiezioni, portava una latta piena di carbonella. Il calore di quel braciere improvvisato si è trasformato nel paradigma di quello che il cinema significa, il conforto di qualcosa che brucia e riscalda. Se è vero che il cinema nasce da un trauma, quello di Almodóvar è venuto al mondo nel sottosuolo di una compagnia telefonica, dove ha lavorato per dieci anni. Frustrato da un lavoro sicuro ma noioso, ha già trent’anni quando cerca disperatamente un modo per esprimersi. Nei ritagli di tempo, prova di tutto: recita in una piccola compagnia teatrale, pubblica il memoir di una donna immaginaria, scrive fumetti, racconti underground e un fotoromanzo porno. Poi, arriva il cinema, gira corti in Super8 e li proietta per gli amici, improvvisando dal vivo la colonna sonora.

È il 1980, quando esordisce nel lungometraggio con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (Pepi, Luci, Bom y otras chicas del montón) con Carmen Maura come protagonista. Almodóvar spende una cifra ridicola, 400 pesetas, per un film di 80 minuti scarsi, girando solo durante i fine settimana con amici e volontari. Il pubblico lo accoglie con poco entusiasmo, la critica lo trova scandaloso e un po’ volgare, gli agenti sconsigliano alle attrici di lavorare con lui per non bruciarsi la carriera. Ci vorrà un po’ prima che gli venga riconosciuto il talento unico che l’ha reso un maestro del cinema.

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Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio ci porta nel cuore della movida madrilena: musica punk, abbigliamento sgargiante anni ‘80 e libertà sfrenata post-franchista. Il film racconta la storia di Pepi, una ragazza emancipata che conserva la sua verginità per poterla vendere e ricavarne un po’ di soldi. Nel tempo libero coltiva marijuana sul suo balcone, un poliziotto la scopre e cerca di arrestarla e alla fine la violenta. Pepi si vendica, ma il pestaggio non va come previsto; usa allora la giovanissima amica Bom per sedurre Luci, la moglie del poliziotto, una donna repressa con tendenze masochiste. Così delle pratiche sessuali estreme vengono scambiate con lezioni d’uncinetto e tra equivoci, donne barbute, ripicche, pubblicità assurde e situazioni grottesche, un gran numero di personaggi fuori dagli schemi reggono un film folle dalla trama a tratti sconclusionata.

L’esordio – qui le altre opere prime d’autore – al cinema di Pedro Almodóvar non è privo di difetti, ma sorprende per la sincerità con cui dà vita alla storia e il modo onesto e senza filtri scelto per raccontarla.  Tra le risate della commedia almodóvariana, si percepisce però sempre una tensione malinconica che vibra tra piacere e dolore e caratterizza il suo cinema degli emarginati. Sotto il franchismo essere omosessuali costituiva un reato, migliaia di gay vennero condotti in colonie agricole (veri e propri campi di concentramento). In questo contesto, Pepi, Luci, Bom è un esordio dissacrante che inneggia all’eversione e alla libertà più sfrenata: per questo si parla di cinema di rottura più che di semplice tentativo di scandalizzare.

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Almodóvar mette in primo piano quei personaggi che nessuno mostra sul grande schermo: transessuali, gay e bisessuali, ma anche eterosessuali lontani dallo stereotipo del machismo e donne sessualmente libere che sovvertono le regole sociali con fascino, eros e melodramma. Un mondo dove nessuno è veramente per bene come vuole dare a vedere e gli stereotipi vengono puntualmente ribaltati.

Alla fine, i suoi film sono vere e proprie storie d’amore tra i protagonisti e la vita, i personaggi seguono i propri istinti viscerali perché in fondo vogliono solo essere liberi. Vivono tutti una dualità, cercano libertà e sottomissione senza contraddizione alcuna, non si vergognano di quello che desiderano, che sia una un’umiliazione o un gioco di ruolo. Soprattutto, amano indistintamente in modo eccessivo e confusionario, un po’ come si ama la vita dopo una lunga reclusione, così come si ama il cinema folle, colorato e senza regole di Pedro Almodóvar che comunque non sarà mai più così esplicito e bruciante.

Daniele Vicari: a Velocità massima verso la prima serata di RAI Uno

Daniele Vicari, classe 1967, è un regista e sceneggiatore italiano, docente di regia presso l’Accademia di Cinema e Televisione Griffith di Roma e direttore artistico della Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté.

Ha collaborato dal 1990 al 1996 come critico cinematografico per Cinema Nuovo, per poi passare alla rivista Cinema ‘60, interessandosi soprattutto ai film impegnati. La passione per questo genere è presente anche nelle sue prime produzioni, ovvero documentari e film d’impegno socio-politico che spaziano dalla storia di cinque operai licenziati dalla FIAT nel 1980 al film collettivo antifascista, dalle vicende di un fisico nucleare sul Gran Sasso all’adattamento del romanzo di Carofiglio Il passato è una terra straniera, passando per il crudo racconto dei fatti del G8 di Genova e per il documentario sullo sbarco in Italia nel 1991 della nave albanese Vlora.

daniele vicari

Daniele Vicari è uno dei pochi narratori audiovisivi italiani a raccontare con equilibrio le storie che toccano il desiderio e la paura di misurarsi con sé stessi e con gli altri. Vicari usa il cinema come lente d’ingrandimento sociale e indaga la sensibilità degli uomini e i loro rapporti, andando ben oltre l’ingannevole gioco degli specchi al quale siamo abituati. Vicari è un equilibrista del cinema, serio e scanzonato insieme, che cammina sul filo e sembra non soffrire mai di vertigini, planando delicatamente sulle storie, sui personaggi, sulla vita che racconta senza iperboli. Sfiora l’orrore, lo mostra e non lo giudica e per questo il suo cinema indipendente, reale e realistico, è un incanto.

L’esordio al lungometraggio (qui per scoprire tutte le nostre opere prime d’autore) avviene con Velocità massima (2002), la storia di un diciottenne di Ostia, Claudio (Cristiano Morroni), che sogna di fare il meccanico. Il padre preferirebbe che occupasse un posto nella sua ditta di autodemolizioni, ma il ragazzo ha un talento innegabile nel campo dei motori, tanto da essere introdotto da Stefano (Valerio Mastrandrea) nel mondo delle corse automobilistiche clandestine. Il film è un successo: Vicari vince numerosi premi tra i quali il Premio Pasinetti per il miglior film e il David di Donatello per il miglior esordio alla regia.

daniele vicari

Il regista confeziona un film semplice e diretto, con una regia ritmata, che presenta momenti d’azione calibrati e dialoghi divertenti e ben scritti. Soprattutto, Vicari compie una vera e propria analisi sul popolo delle corse: infatti, prima di girare il film, il regista si è infiltrato in questo mondo clandestino che aveva già raccontato nel documentario Sesso, marmitte e videogames.

Vicari dimostra del talento anche nella scelta degli attori non professionisti e al di fuori del panorama attoriale italiano, come Morroni. Purtroppo, il personaggio meno riuscito è quello di Giovanna (Alessia Barela), dato che tutta la storia d’amore della donna che divide i due amici è prevedibile e sa di già visto. Ciò nonostante, Velocità massima recupera terreno nella parte finale, spazzando via ogni possibile risvolto banale. Il lungometraggio è pertanto una storia di inettitudine ma anche di rivalsa, di chi combatte contro i problemi di tutti i giorni e contro i drammi quotidiani, da quelli economici a quelli sentimentali. Un’auto veloce serve a seminarli, lasciarseli alle spalle, puntare solo alla vittoria.

daniele vicari

Secondo Daniele Vicari «Non sono importanti i registi, ma sono importanti i film» e, senza pregiudizio cinematografico, si può imparare qualcosa da qualsiasi pellicola. Dopotutto, uno dei momenti rivelatori come spettatore l’ha avuto guardando un episodio della serie televisiva poliziesca anni ‘70 Starsky & Hutch. Il cinema italiano che non lascia spazio agli snobismi e si confronta con la sfida enorme di raccontare la gente e gli eventi di massa è quindi il cinema che merita di essere in sala.

Prima che la notte, ultimo film di Daniele Vicari, andrà in onda in prima visione su RAI Uno, oggi mercoledì 23 maggio, in occasione della Giornata della legalità. Prima che la notte è la storia di Pippo Fava (interpretato dal bravissimo Fabrizio Gifuni), giornalista anti-mafia, carismatico e indomito: «Un intellettuale moderno che la mafia ha ucciso ma non battuto». Dopo essere stato presentato in anteprima al BIF&ST Festival del Cinema di Bari, dove ha commosso il pubblico e raccolto numerosi consensi, possiamo finalmente vederlo in prima serata.