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Stefania Covella

25 anni senza Fellini: Lo sceicco bianco, tra miti e illusioni

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Federico Fellini è considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, nell’arco di quasi quarant’anni, da Lo sceicco bianco (1952) a La voce della luna (1990), ha vinto cinque premi Oscar e dato vita a personaggi memorabili. I suoi film più celebri La stradaLe notti di CabiriaLa dolce vita e Amarcord sono entrati nell’immaginario collettivo cambiando il concetto di cinema e influenzando intere generazioni di registi (come racconta Spielberg).

Fellini a sedici anni è già innamorato del cinema, inizia da giovanissimo a disegnare fumetti satirici e a scrivere sui giornali, per poi cimentarsi nella sceneggiatura radiofonica e cinematografica. Roberto Rossellini lo chiama per collaborare a Roma città aperta e continua a lavorare come sceneggiatore con Lattuada, Germi e Comencini.

Il momento cruciale per Fellini è proprio il passaggio alla regia, quando non pensava di fare il regista ma credeva di bivaccare sornione nel limbo della sceneggiatura, irresponsabile e lontano dal lavoro collettivo. Il primo giorno di lavorazione de Lo sceicco bianco (1952) si rivela un fallimento: non riesca a girare neanche un’inquadratura. Parte da Roma all’alba con la sua Cinquecento, con il batticuore come poco prima di un esame, e si ferma a pregare in chiesa perché il portone che si apre gli sembra di buon auspicio.

lo sceicco bianco

Sulla strada buca una gomma e soffre al pensiero di essere in ritardo per la sua prima regia, per buon cuore un camionista siciliano gli cambia la ruota ma il coraggio è un servizio extra che non fornisce nessuno. La paura di Fellini è fortissima e mentre il motoscafo lo porta verso il barcone, dove già da un’ora è imbarcata tutta la troupe, non si ricorda neanche la trama del film; ma poi, posa il piede sul set ed è pronto all’avventura.

Lo sceicco bianco è un’opera creata da quelli che sarebbero stati i grandi nomi del cinema italiano: Michelangelo Antonioni è coautore del soggetto, Ennio Flaiano della sceneggiatura e il protagonista è un giovane Alberto Sordi. Il film ha uno stile umoristico e onirico che viene definito fantarealismo. La pellicola esordisce al Festival di Venezia, dove subisce lo snobismo di critica e pubblico, gli stessi che l’anno successivo lo premiano con il Leone d’Oro per I vitelloni.

Fellini nella sua opera prima smonta gli idoli, le illusioni e i fenomeni di costume della borghesia provinciale italiana del dopoguerra. La sua attenzione è però rivolta soprattutto ai sentimenti della protagonista e alla piccola tragedia personale che si compie nel cuore di Wanda, prima che nella vita dei coniugi Cavalli. Wanda (Brunella Bovo) ed Ivan (Leopoldo Trieste), sono in viaggio di nozze a Roma. Lei ne approfitta per recarsi alla redazione del suo fotoromanzo preferito per incontrare il protagonista: lo Sceicco bianco (Alberto Sordi).

lo sceicco bianco

Wanda capisce presto che il suo idolo è un uomo patetico e volgare e ne respinge le pesanti avances. Afflitta tenta di gettarsi nel Tevere ma viene salvata, mentre Ivan la cerca per tutta Roma e vive delle rocambolesche avventure che lo portano a dormire con una prostituta – senza però tradire la moglie. I due alla fine si ritrovano, un po’ disillusi e senza eroi.

In questa pellicola è palese la nostalgia felliniana per le icone popolari, che sempre l’hanno sedotto, La vita vera è quella dei sogni dice una signora alla spaesata Wanda e, man mano che la giovane vede il suo sogno svanire, le luci si fanno opache e Fellini ci mostra le bassezze di chi si preoccupa dell’onore, delle conoscenze in Vaticano e della retorica patriottica, prima che dei sentimenti.

Lo Sceicco Bianco è una commedia nel senso più stretto del termine, tratta il dramma umano, quello risibile, che racconta le illusioni e le spoglia e permette di grattare oltre la superfice della satira ecclesiastica, collegiale e goliardica. Perché alla fine il cinema, come la vita, a volte è un circo, un varietà di marcette e udienze pontificie e idoli vecchi e nuovi e siamo un po’ tutti borghesi e provinciali, mentre scordiamo l’autenticità per inseguire i miti.

Damiano Damiani e Il Rossetto della discordia

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Uno stacanovista e un perfezionista, Damiano Damiani, in ogni suo film dimostra una cura certosina della recitazione dei suoi attori e una profonda analisi della psicologia dei personaggi. Il suo cinema da artistico si fa civile e denuncia la violenza, le ingiustizie e l’uso del potere a scopi personali.

Damiano Damiani è noto al grande pubblico per la trilogia psicologica Il rossetto, Il sicario e L’isola di Arturo (tratto dall’omonimo romanzo di Elsa Morante), ma ha girato anche spaghetti western come Quién sabe? (1967) e Un genio, due compari, un pollo (1975). Soprattutto, è uno dei più grandi esponenti dei filoni del giallo all’italiana e di quello d’impegno politico-civile, con la pellicola Il giorno della civetta (1968), tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia. Mentre per la televisione ha diretto due celebri sceneggiati: La piovra (1984), serie sulla mafia per eccellenza, e Il treno di Lenin (1990).

In realtà Damiani esordisce con un documentario La banda d’Affori (1947) si dedica alla sceneggiatura e ci mette ben quindici anni per tornare dietro la macchina da presa. A trentanove, gira Il rossetto (1961), una storia ispirata a un fatto vero di cronaca: una donna assiste all’omicidio di una prostituta e si innamora dell’assassino, che la sfrutta per sfuggire alla giustizia.

il rossetto

In un quartiere imborghesito della periferia romana, l’ingenua tredicenne Silvana (Laura Vivaldi), si innamora del vicino di casa trentenne, Gino (Pierre Brice). La ragazzina l’ha visto uscire dall’appartamento di una prostituta che è stata trovata uccisa, Silvana non lo rivela alla polizia – che arresta un garzone innocente – e sfrutta la cosa per avvicinarsi a Gino. L’uomo sta al gioco per tenerla buona, anche se è fidanzato con una ragazza ricca, che frequenta solo per interesse. Il commissario Fioresi (Pietro Germi), dopo qualche difficoltà, riesce a comprendere le dinamiche malsane che sono venute a crearsi e ad arrestare il colpevole.

La prima inquadratura è un iconico movimento di macchina all’indietro, dalla tv accesa al volto insanguinato della prostituta assassinata, i titoli di testa scorrono sulle foto di cronaca nera. Rosso è il sangue sulle mani di un assassino e rosso è il rossetto che macchia la reputazione di una tredicenne, nei perbenisti anni ’60. La credibilità di Silvana è messa in dubbio per un tocco di colore sulle labbra e tanto bastava per dubitare della parola di una tredicenne e a far mettere in dubbio tutto, il carnefice diventa vittima e le indagini quasi saltano all’aria, ma l’ispettore Fioresi capisce presto di star cadendo in un pregiudizio.

È quindi evidente che Damiani scelse quel caso proprio per mettere a nudo i piccoli grandi drammi umani della periferia, fatta di giovani arrivisti, giornalisti senza scrupoli, dei pregiudizi della gente e di donne fatte a pezzi.

il rossetto

Il rossetto è un finto-giallo, il colpevole è abbastanza prevedibile, ma la pellicola fornisce uno spaccato dell’Italia dell’epoca, ipocrita e perbenista e ne indaga i costumi e la sessualità negli anni ’60, ma soprattutto della sua degenerazione morale. L’opera prima di Damiani, riprende un po’ Un maledetto imbroglio e alcune suggestioni dai noir francesi e americani. Ottima la sceneggiatura asciutta di Zavattini e misurati gli attori, Pierre Brice e Laura Vivaldi, mentre Pietro Germi interpreta il commissario disilluso con quella vena ruvida che fa da specchio umano al disincanto piccolo borghese.

I risvolti ambigui e torbidi della storia non sono mai morbosi, nel cinema di Damiani, il suo stile di regia si mantiene asciutto e sicuro e sono pochissime le incoerenze e le approssimazioni, che non ledono un’opera stratificata e decisamente innovativa per l’epoca.

Pier Paolo Pasolini definì sia l’uomo che il cineasta come «un amaro moralista assetato di vecchia purezza» e così è il cinema del regista friulano: puro, forse polemico, ma autentico. Damiani era un regista capace di declinare la sua passione per la realtà quotidiana a partire da ciò che lo circondava e a incidere profondamente nelle coscienze, ma sempre con ironia e misura, in un raro equilibrio che il cinema moderno sembra aver dimenticato.

Terry Gilliam e i Monty Python e il Sacro Graal, pazzo o visionario?

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Terry Gilliam inizia la sua carriera come illustratore, diventa un ottimo animatore e poi presta la sua follia al cinema. Ironico, fuori dagli schemi e imprevedibile è l’unico membro americano (ormai naturalizzato britannico) dei Monty Python. Arriva in Gran Bretagna per evitare l’arruolamento nella guerra del Vietnam e inizia a lavorare come cartoonist per la televisione. In questo modo conosce Chapman, Cleese, Palin, Idle e Terry Jones, i fondatori del gruppo teatrale Monty Python. Insieme realizzano per la BBC Flying Circus (1969), una serie comica di successo, fatta di gag e sketch animati realizzati con la tecnica del cut out. Proprio con i Monty Python, Gilliam compie poi il salto verso il grande schermo, come regista.

Nella carriera di Gilliam non mancano però i fallimenti, le lotte contro la casa cinematografica che prese le redini del suo Le avventure del barone di Munchausen, la morte di Heath Ledger durante Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo, i ventinove anni di sforzi compiuti nel tentativo di girare The Man Who Killed Don Quixote, basato sul Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, immortalati in un documentario: Lost in La Mancha di Keith Fulton e Louis Pepe. Ora però finalmente al cinema con Adam Driver e Jonathan Pryce come protagonisti, un chiaro omaggio a Orson Welles (qui la sua opera prima), infatti Don Quixote è il suo film incompiuto.

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Nel 1975  Gilliam fa il suo esordio come regista, insieme al collega Terry Jones, realizza il primo lungometraggio comico che si prende gioco della Storia. Un insieme di gag esilaranti, ma ormai un po’ datate, dal ritmo poco fluido e dall’umorismo no-sense e grottesco. Monty Python e il Sacro Graal è un film a basso costo che racconta la storia di Re Artù (Graham Chapman) che, dopo aver vagato per la Gran Bretagna alla ricerca dei cavalieri per la sua tavola rotonda, riceve da Dio la difficile missione di trovare il Santo Graal. Comincia così la difficile ricerca tra gag, conigli assassini e personaggi comici come il cavaliere nero e il mago pazzo.

Il film risulta sorprendentemente vincente, nonostante sia tutto affidato al caso, della regia se ne incaricarono Gilliam e Jones solo perché nessuno degli altri quattro voleva prendersene la responsabilità. Inoltre, alcune delle gag più riuscite, derivano da dei problemi di budget risolti in modo assolutamente creativo e integrato alla storia e alla comicità no-sense del film, come il finale monco e l’uso delle noci di cocco per simulare il rumore degli zoccoli dei cavalli al galoppo.

La potenza comica di questa pellicola, deve tutto all’umorismo perfettamente calibrato che combina monologhi filosofici e gag linguistiche a battute scatologiche e sessuali. Per non parlare dell’autoironia e dell’escamotage usato contro la pratica dei sottotitoli: vengono scritti in finto norvegese e nella versione DVD si può selezionare, tra le modalità di vsione, quella sottotitoli per chi non apprezza il film che consiste nel testo dell’Enrico IV di Shakespeare.

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I film di Terry Gilliam hanno un aspetto peculiare e riconoscibile per il suo stile esasperato ed eclettico. Decisamente postmoderno, mescola il bello al kitsch, la cultura alta ai fenomeni pop, l’antico al moderno. Da Brazil (1985) – condiderato il suo capolovoro – a L’esercito delle 12 scimmie (1995), il protagonista dei suoi film è spesso un anti-eroe travolto da una situazione straordinaria. Il cinema, dichiara, «deve stimolare il pubblico a pensare in modo diverso. C’è chi lo fa creando scandalo, a me interessa cambiare lentamente il punto di vista, fare innervosire il pubblico, farlo preoccupare al punto da chiedersi “ma cosa sta succedendo?”» e, soprattutto, deve spingere le persone ad esplorare la propria immaginazione.

Terry Gilliam è soprattutto un visionario, qualcuno che si è sempre sentito diverso e che ha amato la diversità negli altri e ha fatto dell’ironia – su di sé e sul mondo – una bandiera. Non a caso, ha dichiarato spesso di credere che il suo cinema dia «conforto a chi crede di essere l’unico pazzo al mondo e che – dopo avere visto i miei film – sa che ce ne è almeno un altro». Pazzo o visionario? Non importa, se Terry Gilliam può continuare a lottare contro i mulini a vento del cinema.

Mario Martone, Elena Ferrante e la Morte di un matematico napoletano

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Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista.

Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente un uomo di teatro con la vocazione per il cinema. Fa parte di quella corrente che viene chiamata il risorgimento napoletano: quell’affacciarsi del cinema come una vrenzola dal balcone, quello sguardo sulle cose che trasforma il privato in pubblico. La poetica di Martone è tutta lì, nella ricerca di una verità nascosta sotto la pelle quando si fa sottile, insieme a quel mescolarsi continuo e perfetto tra letteratura e cinema.

Uno dei film più famosi di Martone è la sua opera seconda, L’amore molesto (1995), tratto dal romanzo d’esordio di Elena Ferrante, la sua tetralogia pubblicata dalle Edizioni E/O è stata portata di recente sul grande schermo dai primi due episodi de L’Amica Geniale, la serie diretta da Saverio Costanzo e realizzata dall’inedita alleanza tra HBO, Wildside, RAI, Tim Vision e Fandango .

mario martone

L’opera prima di Mario Martone è meno famosa, nonostante la vittoria ai David e ai Nastri d’argento per il miglior esordio: Morte di un matematico napoletano (1992) è la storia del luminare Renato Caccioppoli, uno scienziato talentuoso ma tormentato, consumato da un logorio interiore che l’ha portato al suicidio. La pellicola mostra l’ultima settimana di vita di Renato (Carlo Cecchi), a partire dalla stazione in cui viene fermato dalla polizia per ubriachezza, per passare poi alle lunghe passeggiate e agli incontri con il fratello Luigi (Renato Carpentieri), l’ex moglie (Anna Bonaiuto), i compagni del PCI e gli studenti; soprattutto Pietro, interpretato da Toni Servillo in una delle sue prime apparizioni cinematografiche.

Martone dipinge, in un modo un po’ naïf, un uomo disilluso e stordito dall’alcol, ma soprattutto ne tratteggia il rapporto conflittuale con Napoli, che accoglie ma prosciuga e sa negarsi come la più crudele delle madri. La regia è aspra e secca e la macchina da presa, con l’ottima direzione della fotografia di Luca Bigazzi, segue Renato tra le viscere di una Napoli crepuscolare. E pensare che il film, Martone, lo voleva girare in bianco e nero, ma poi Bigazzi gli ha fatto cambiare idea, colpito dal giallognolo della luce napoletana. Morte di un matematico napoletano è una pellicola realizzata camminando a lungo, un po’ come Caccioppoli, che si spostava solo a piedi. Nel film quasi non compaiono automobili e, dopotutto, sono proprio le lunghe passeggiate del matematico ad averlo reso un personaggio impresso nella memoria collettiva: genio errante, emaciato e dall’impermeabile logoro.

morte di un matematico

Caccioppoli diceva «Quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile non avanzeranno mai di un passo», così Martone lo gira lo stesso, questo film quasi senza budget, e riesce a realizzare una pellicola ambientata nel ’59 riprendendo la Napoli del ’91. Mancavano i soldi per fare il film, trovare i costumi e ricostruire le scenografie con la cartapesta, allora ha cercato la Napoli del passato in quella presente. Non è un’operazione che sarebbe riuscita ovunque, perché Napoli è tante città in una e quello di Martone è un lavoro quasi archeologico, uno scavare. Un po’ come cercarsi dentro e trovare un dolore che ci somiglia e che ricorda il passato, come quella Facoltà di Matematica abbandonata, ancora con le tribune e i palchi a restituire quel senso di soggezione, distanza e spettacolo accademico.

Caccioppoli e Martone non avevano in comune solo la città, il matematico aveva abitato proprio nel palazzo dove Martone aveva vissuto in adolescenza «un grande palazzo napoletano, di quelli che sono più che altro delle piccole città» e allora, forse, questa storia ha scelto Martone e non il contrario. Ed è un po’ tutto lì, quel senso ancestrale di cinema, quell’esorcizzare i propri fantasmi sul grande schermo per lasciarseli alle spalle.

Per Martone, il cinema è fatale, accade e non si può cambiare mai più, lo paragona al tirare frecce: c’è tutta una preparazione ma a scagliarle basta un attimo. Vi sfido a dimenticarla, una volta vista, la morte di quel matematico napoletano, il funerale profondo e ipocrita insieme, quella mano che non afferra il polso e quella luce gialla che illumina ogni cosa ma non salva nessuno.

Bad Boys: l’esordio di Michael Bay, il Diavolo di Hollywood

Michael Bay è conosciuto come il Diavolo di Hollywood: gli attori che ha diretto lo definiscono un regista difficile e dalle maniere forti, la critica ondeggia tra l’avversione e l’idolatria, mentre Bay continua a girare i suoi film dalle sceneggiature scarne ma dai grandi effetti speciali, con scene d’azione costellate da esplosioni catastrofiche che si susseguono in un montaggio frenetico. Che lo si ami o lo si odi è il re del box office: quasi ogni suo film infrange un record e spesso le sue pellicole si rivelano un ottimo trampolino di lancio per star di Hollywood del calibro di Will Smith, Shia Labeouf e Martin Lawrence. Il regista californiano che non conosce fallimenti, in questi giorni è in Italia per girare Six Underground, un film d’azione targato Netflix, con Ryan Reynolds come protagonista e un budget di 150 milioni di dollari.

L’autore della saga di Transformers ha uno stile tutto suo fatto di poche parole e tanta azione, un modo di girare talmente unico da essere battezzato Bayhem. Di sé stesso dice «Sono un mago, creo mondi» e i suoi popcorn-movie continuano ad incassare, nonostante i detrattori l’abbiano additato come la fine del cinema americano. A Bay interessano l’intrattenimento del pubblico e il successo commerciale del film, non gli importa di essere escluso dalla cerchia del cinema autoriale se quello mainstream riempie le sale.

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Michael Bay ha sempre saputo cosa avrebbe voluto fare nella vita: a soli quindici anni ha lavorato alla Lucasfilm durante l’estate, il suo compito era classificare le fotografie degli storyboard per Spielberg. A ventiquattro ha esordito nel campo della pubblicità e si è fatto subito notare diventando il miglior regista pubblicitario dell’anno, così le sue campagne per Coca-Cola, Nike e Levis si impongono nell’immaginario collettivo dei consumatori di tutto il mondo. Contemporaneamente, diventa il più quotato regista americano di videoclip e collabora con Lionel Richie, Tina Turner e gli Aerosmith.

Il suo esordio in campo cinematografico risale al 1995 con Bad Boys (qui il trailer ufficiale), il film girato in 35 mm registra un enorme successo di pubblico e incassa 140 milioni di dollari, nel mentre lancia la carriera di Will Smith – destinato a diventare un divo del cinema. Bad Boys è un’opera prima totalmente basata sul carisma dei due attori protagonisti, per stessa ammissione di Bay, anche se il punto forte della pellicola resta la resa ottica quasi perfetta. Il regista americano si avvale, come in tutti i suoi film, delle più moderne tecnologie per fornire al pubblico un’esperienza sensazionale e senza filtri. Per Bad Boys ha pagato 25 mila dollari, circa un quarto del suo compenso, per realizzare la famosa scena dell’esplosione, il primo tentativo era andato male a causa di un temporale e la società di produzione si era rifiutata di pagare per una seconda volta una somma simile.

Bad Boys racconta le rocambolesche vicende di due agenti di Miami in conflitto con una pericolosa gang. I due sono molto diversi, ma sono comunque amici: Marcus Burnett (Martin Lawrence) è tutto famiglia e lavoro, mentre Mike Lowry (Will Smith) è un ricco playboy che ama fare la bella vita. Per sgominare una banda di narcotrafficanti i due amici dovranno scambiarsi i ruoli, in un crescendo di azione, esplosioni, inseguimenti e gag – a volte demenziali. Un film gradevole e divertente, più che un thriller impeccabile.

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A seguito di questo successo, nel 2009 ne è stato anche realizzato un sequel, Bad Boys II, nuovamente diretto da Michael Bay e interpretato da Will Smith e Martin Lawrence. Per il 2020, dopo alcune difficoltà produttive e una lunga serie di rimandi e passaggi di regia, è previsto il terzo capitolo: Bad Boys For Life, sarà diretto da due registi belgi Adil El Arbi e Bilall Fallah, ingaggiati dalla Sony.

Ci sono registi che pensano in grande e Michael Bay è di certo uno di questi, simbolo del cinema americano capitalista è l’emblema della filosofia grandi spese, grandi incassi. Con una decina di film in vent’anni è diventato un’icona moderna, un meme dell’internet, il più odiato dai cinefili e dai puristi della settima arte – nonostante il fatto che tra i suoi più grandi ammiratori figuri un autore del calibro di Steven Spielberg. Michael Bay fa rima con cinema mainstream, segue il gusto popolare e mantiene una coerenza d’intenti granitica: il film deve dare al pubblico quello che il pubblico vuole. Bay è un regista prodigio che considera il cinema come un parco giochi fatto di eccessi e momenti spettacolari, si diverte e fa divertire, la noia è il terreno degli altri e la critica alza le mani in segno di resa davanti al suo indiscutibile successo.

Michelangelo Antonioni: Cronaca di un amore e della borghesia infelice

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Michelangelo Antonioni è l’autore di riferimento del cinema moderno, fin dall’esordio con Cronaca di un amore (1950 – restaurato nel 2004), la pellicola che ha segnato la fine del neorealismo. L’opera prima di Antonioni e tra i primi film ad affrontare i moderni temi dell’incomunicabilità, dell’alienazione e del disagio esistenziale.

Come Dario Argento (qui la sua opera prima), anche Antonioni inizia la sua carriera con la critica cinematografica, frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia e nel 1942 collabora con Roberto Rossellini e scrive con Luchino Visconti (qui la sua opera prima), dopo una parentesi come aiuto regista di Marcel Carné in Francia.  Il regista ferrarese si trova ad essere testimone del passaggio da un’epoca a un’altra e il suo cinema ne è un riflesso, Cronaca di un amore è un’opera molto personale, un noir con un solido intreccio: la storia di un adulterio ambientata nel mondo corrotto dell’alta borghesia industriale lombarda.

michelangelo antonioni

La prima inquadratura prende forma in una serie di foto amatoriali fatte a una giovane donna, delle istantanee rubate. La bellissima e povera Paola Molon (Lucia Bosé) è la moglie di Enrico Fontana (Ferdinando Sarmi). Il ricco imprenditore incarica il detective Carloni (Gino Rossi) di indagare sul passato della moglie, poiché è ricomparso Guido (Massimo Girotti), l’ex amante di Paola. La relazione riprende e i due decidono di liberarsi del marito di lei, ma i preparativi si rivelano inutili perché l’uomo muore in un incidente e, proprio quando non ci sarebbero più ostacoli, Guido se ne va preso dal rimorso.

Michelangelo Antonioni ha avuto per maestri i suoi occhi, viene spesso definito regista borghese e autore della crisi, ma è soprattutto il maestro dell’incomunicabilità. La sua critica sociale si annida nei conflitti tra i personaggi, attraverso i loro comportamenti descrive l’aridità dell’ambiente nella quale si muovono: quello dei ricchi, della gente che ha il tempo per coltivare il superfluo perché ha già tutto il resto e non deve lottare per sopravvivere. L’alta borghesia difettata e paranoica, profondamente infelice, che ha tutto e non ha niente.

michelangelo antonioni

In mezzo alla superficialità fatta di capricci, pellicce e Maserati in regalo, Antonioni crea uno squarcio dentro questi ricchi annoiati e ci permette di sbirciarne l’interiorità e soprattutto i vuoti. Scopre i suoi personaggi e li lascia nudi, deboli ed esposti, creando con lo spettatore un’intimità sfacciata e paralizzante. L’incomunicabilità invece è perfettamente espressa nei campi lunghi, dalla freddezza formale delle inquadrature; lunghi piani sequenza dilatano la narrazione insieme ai tempi morti contemplativi. Memorabile il dialogo tra i due amanti sul ponte, mentre stanno progettando l’omicidio del marito di lei: sia gli attori sia la macchina da presa si muovono con movimenti circolari che li riportano al punto di partenza, e ne simboleggiano la staticità sentimentale.

Un film senza mutamento, freddo, su relazioni fredde tra persone gelide e la freddezza è il cuore dell’opera, anche se, come dice Andrey Tarkovskij «Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i suoi grandi film non solo non invecchiano ma col tempo si riscaldano». Insieme all’ineluttabile solitudine umana, in questo intreccio di storie e relazioni che sono i film di Michelangelo Antonioni, l’unica certezza è che l’amore non c’è. La vita la decide il destino e il contrario della solitudine non è la compagnia, ma l’intimità, vedere attraverso le cose e non distogliere lo sguardo.

Profondo Argento: L’uccello dalle piume di cristallo e il giallo all’italiana

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Dagli esordi come critico alla collaborazione come soggettista di C’era una volta il West di Sergio Leone (qui la sua opera prima), dal successo di Profondo rosso al recentissimo “remake” di Suspiria realizzato da Luca Guadagnino (qui la recensione), la fama di Dario Argento è in continua ascesa.

Argento fa il salto da critico cinematografico appassionato di film di genere a sceneggiatore e poi a regista, anche grazie a Bernardo Bertolucci: dopo aver lavorato insieme alla sceneggiatura di C’era una volta il West di Sergio Leone, l’amico lo incarica di realizzare l’adattamento cinematografico del romanzo La statua che urla (The Screaming Mimi) di Fredric Brown. Terminato il lavoro, Argento inizia a proporre a vari produttori il soggetto, ma il copione rischia più volte di essere modificato o attribuito ad altri. Così, con l’aiuto del padre, fonda la società di produzione autonoma S.E.D.A. Spettacoli, in questo modo finanzia e dirige la sua opera prima.

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L’uccello dalle piume di cristallo (1970) è un raffinato film tra il noir e il thriller, basato sul gioco di sguardi con lo spettatore. La sequenza che apre la pellicola concentra l’attenzione sui preliminari del delitto più che sull’omicidio in sé, in un montaggio alternato che è un flirt con il pubblico in sala, un mostrare e nascondere; una tensione avvolgente tra desiderio e repulsione che fa del primo film del regista romano un successo commerciale eclatante e inaspettato.

Le riprese, iniziate nel settembre 1969, durarono sei settimane e si rivelarono più problematiche del previsto: tra i contrasti con l’attore Tony Musante che riteneva Argento un regista improvvisato, i tentativi di boicottaggio della società cinematografica Titanus di Goffredo Lombardo e il rischio continuo di superare i costi di produzione, la realizzazione del film fu tutt’altro che semplice. Il 19 febbraio del 1970, L’uccello dalle piume di cristallo esce in sala con un divieto ai minori di quattordici anni e la critica, dopo un’iniziale freddezza, lo accoglie come «un sasso nello stagno del cinema italiano». Qualcosa destinato a cambiarlo, dando il via a un filone noto come giallo all’italiana.

Argento è un visionario dalla tecnica impeccabile, sperimenta soluzioni innovative e improbabili, l’opera prima contiene diversi elementi che verranno perfezionati nei film successivi, andando a comporre la sua personalissima firma registica: l’uso singolare della soggettiva e il ralenti esasperante, i primissimi piani, il montaggio alternato, la scarsità dei dialoghi, il whodunit (il giallo deduttivo a enigma) e l’interesse per le psicopatologie.

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Il punto focale del film però, come in quasi tutte le opere di Dario Argento, non sta in superficie. Il protagonista della pellicola è Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore italo-americano che lavora a Roma, dopo essersi specializzato nello studio degli uccelli rari. Unico testimone di una colluttazione in una galleria d’arte tra una donna e una figura misteriosa in nero, Sam non può più partire per gli Stati Uniti con la sua ragazza, Giulia (Suzy Kendall). Solo lui può identificare quella figura, ma continua a sfuggirgli un particolare risolutivo per il caso. Ed è proprio il tentativo di Dalmas di analizzare i dettagli di ciò che ha visto, il focus del film, per questo la scena della galleria d’arte è soprattutto una lezione di cinema, una profonda analisi della poetica e della teoria dello sguardo.

Per quanto si tenda a legare la figura di Argento a Alfred Hitchcock – in quanto maestro del brivido – è evidente il debito del primo cinema argentiano nei confronti della filmografia di Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo ma anche Sei donne per l’assassino) e di Sergio Leone – soprattutto nella scelta delle musiche di Ennio Morricone. Quello che però rende Dario Argento un grande regista già dal suo esordio è soprattutto il suo essere un vero cinefilo: Argento conosce il cinema ancora prima di farlo, lo capisce profondamente ancora prima di scriverlo e lo ama in modo sincero quando il suo non esiste ancora. Il voto che compie il maestro della suspense è pura devozione alla settima arte, non al denaro non all’amore né al cielo, prendendo in prestito le parole di De Andrè, solo al cinema.

Venezia 75: Saremo giovani e bellissimi, il film musicale di Letizia Lamartire

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La Mostra del Cinema di Venezia quest’anno è stata travolta dalla musica e sono le donne a guidare la tendenza: da Lady Gaga, attrice protagonista in A Star Is Born di Bradley Cooper, a Natalie Portman che si fa pop star in Vox Lux diretto da Brady Corbet, senza dimenticare la vicenda incredibile raccontata nel documentario Arrivederci Saigon di Wilma Labate. Se è nata una star forse è però proprio Letizia Lamartire con Saremo giovani e bellissimi, unico film italiano in concorso alla Settimana Internazionale della Critica. Gli affezionati ricorderanno la giovane regista dalla proiezione dell’anno scorso, con l’indimenticabile corto Piccole Italiane.

L’opera prima di Letizia Lamartire è un film musicale che racconta la storia di Isabella: una star degli anni Novanta, con un unico singolo di successo, che ormai quarantenne si ritrova a suonare vecchie canzoni nei pianobar con Bruno, il figlio ventenne.

Saremo giovani e bellissimi, sullo sfondo di un’incantevole Ferrara, è soprattutto la storia di un rapporto speciale e fuori dagli schemi, quello tra una madre e un figlio che usano la musica per capirsi. Canzoni e dialoghi, anche grazie a un buon montaggio di Fabrizio Franzini, portano avanti una narrazione ritmata, con pochi rallentamenti. La bellissima Barbora Bobulova, brava anche a cantare, interpreta con naturalezza Isabella e Alessandro Piavani trova una dimensione credibile nel lasciarsi vivere di Bruno, che scrive la sua musica di nascosto – quei testi in inglese dal sound indie-rock, così distanti dalla musica della madre.

saremo giovani e bellissimi

I due vivono incastrati in una relazione ambigua e morbosa. Isabella fa parte di quella generazione di genitori che hanno usato i figli per perpetrare i propri sogni infranti, mentre Bruno sembra nato per adorarla, occuparsi di lei e accompagnarla alla chitarra nei live al Big Star. Ricopre però più la figura dell’amante che quella del figlio: gelosie, nevrosi, ripicche, baci a fine concerto e un memorabile litigio durante una cena a quattro. Bruno le perdona tutto, è affascinato e forse è anche un po’ innamorato di questa donna sexy, immatura e fragile, senza maschere.

Intorno a Isabella gravitano altri personaggi, la madre che era stata troppo severa con lei in gioventù, l’ex fiamma e Umberto (Massimiliano Gallo), il nuovo interesse romantico, alla quale vengono affidate quasi tutte le gag del film. Personaggi che restano comunque un contorno: la relazione madre-figlio catalizza tutta l’attenzione e anche la trama non lascia troppo spazio alle storyline secondarie.

Curioso come le relazioni sembrino svilupparsi tutte in triangoli sentimentale: tra Isabella, Bruno e la musica, tra Bruno, la madre e Arianna e tra Isabella, Umberto e Bruno. Tutto cambia proprio con l’arrivo di Arianna (Federica Sabatini), la giovane leader di un gruppo rock-underground. Bruno ne è subito attratto e, da questo punto in poi, la promessa anticonvenzionale del film viene un po’ infranta; si inizia a giocare su terreni già battuti. Tutti maturano, comprendono i propri sbagli e crescono. Isabella si ravvede, come se fosse necessario, ed è un peccato. Il coraggio iniziale di dare spazio alla narrazione di una donna differente e lontana dal senso di colpa e dagli stereotipi, si va via via affievolendo e il film abbandona le premesse perturbanti.

saremo giovani e bellissimi

Il lato musicale resta un punto centrale e decisamente riuscito, la musica di Matteo Buzzanca guida tutto: i tre generi suonati dai personaggi sono visibilmente il punto zero della loro creazione, il loro aspetto, i costumi e ogni più piccolo dettaglio. Dopotutto, il film unisce le due più grandi passioni di Letizia Lamartire, musica e immagine, la giovane regista condensa con competenza e autenticità gli anni di studio in conservatorio e le notti passate a suonare nei pub baresi.

L’altro punto di forza di questo film sono i personaggi, soprattutto Isabella. Letizia Lamartire riesce a ritrarre una donna che non vuole crescere, contraddittoria, simpatica e insopportabile insieme. Una quarantenne intrappolata nel passato, non ancora pronta a guardare in faccia la realtà e abbandonare l’illusione del successo. Lo spettatore forse lo capisce ancora prima della protagonista stessa, che non è la gravidanza inaspettata ad averle stroncato la carriera. Ammettere di non essere mai stata brava abbastanza è difficile, non per orgoglio ma per una questione d’identità. Isabella a quel punto avrebbe dovuto domandarsi: se non sono una star, se non sono la mia musica, cosa sono? Ed è quello il nodo che bisognava sciogliere e approfondire, il grumo pulsante della vicenda.

L’opera prima di Letizia Lamartire è nel complesso un film piacevole, con una regia composta che cerca a tratti di osare, con ottimi risultati. La sceneggiatura ha i suoi difetti, ma ha dato vita a dei personaggi affascinanti, nonostante un’evidente – ma comprensibile, per un’esordiente – paura di rischiare. Se Isabella è stata una meteora, ci auguriamo che il talento di Letizia Lamartire brilli ancora nel panorama del nuovo cinema italiano. C’è bisogno di registe, personaggi femminili tridimensionali e sogni impossibili che solo il cinema può realizzare, come quello di rimanere per sempre giovani e bellissimi, ingannando il tempo.

Michael Winterbottom: le parole di un gentiluomo inglese

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Il regista Michael Winterbottom è forse l’autore più eclettico del cinema indipendente britannico. Lo abbiamo incontrato al Festival del Cinema Europeo a Lecce, l’evento diretto da Alberto La Monica e realizzato dalla fondazione Apulia Film Commission, con il supporto della regione Puglia.

Nel corso del Festival è stata proiettata una selezione di dieci titoli tra i più rappresentativi della filmografia di Winterbottom, premiato con l’Ulivo d’Oro alla carriera. Il regista inglese dagli occhi azzurrissimi ha iniziato la sua carriera lavorando per il piccolo schermo, per poi esordire come regista cinematografico nel 1990 con Forget about me, ma raggiunge la fama nel 1995 con Butterfly Kiss, la tragica storia d’amore tra due donne agli antipodi. Poco amante delle conferenze stampa e delle interviste, Michael Winterbottom preferisce che i suoi film parlino per lui.

[questionIcon] Sta lavorando a due progetti: The Wedding Guest e Greed. Cosa ci può dire in proposito?

[answerIcon] The Wedding Guest è un road-movie interamente ambientato in India. Dev Patel interpreta un cittadino inglese che intraprende un viaggio insieme a una donna, partendo dal Pakistan e attraversando l’India dal Punjab fino a Goa. Il film è incentrato sul rapporto tra loro due. Greed invece è una satira: racconta di un miliardario che ha fatto fortuna con l’abbigliamento, per poi attraversare un periodo di grande crisi. Per negare il suo malessere, organizza una festa sontuosa: invita tutti i suoi amici e si veste da imperatore, non sapendo che lo attende una fine tragica. Greed vuol dire letteralmente avidità, mi auguro che il pubblico rifletta sulle diseguaglianze e le disparità che caratterizzano la nostra società.

[questionIcon] La comunità di cineasti europei vive con grande preoccupazione la Brexit. Come la vedono i cineasti inglesi?

[answerIcon] Io guardo con terrore alla Brexit e la considero in modo assolutamente negativo. Quello che mi ha convinto a fare il cineasta quando ero giovane è stato proprio il cinema europeo. Gli esponenti del cinema britannico hanno sempre avuto una posizione un po’ a parte, sia per quanto riguarda le coproduzioni, sia sul piano stilistico e si sono raramente avvicinati al grande cinema europeo. Sinceramente, devo dire che gran parte del cinema britannico aspira più a somigliare al cinema americano.

[questionIcon] Con i suoi film lei ha raccontato spesso l’Italia: la Liguria con Genova, che vede Colin Firth protagonista, la Toscana con Meredith – The Face of an Angel e l’Italia dal Piemonte a Capri con The Trip. C’è ancora qualche aspetto del nostro paese che le piacerebbe raccontare?

[answerIcon] Il punto di partenza di un film spesso è del tutto casuale per un regista. Il caso di Meredith riguarda l’incontro con un libro che ho letto mentre mi trovavo negli Stati Uniti, inoltre mia figlia era partita per studiare all’estero, quindi mi sentivo toccato dalla storia dell’omicidio di Meredith Kercher. Volevo indagare l’attrazione morbosa per i dettagli scandalistici della vicenda, la tendenza a perdere completamente di vista il fatto che una ragazza sia stata uccisa, senza entrare nel merito delle indagini o fare ipotesi. Quindi è una casualità che il film fosse ambientato in Italia, lo stesso è avvenuto per il film Genova: ho trascorso parecchio tempo in questa città, volevo raccontare la storia di un padre e una figlia e ho pensato di ambientarla lì. Quindi il motivo per il quale ho deciso di girare molti film in Italia ha a che vedere solo con l’assidua frequentazione che ho del vostro paese.

[questionIcon] Ha lavorato sia per la televisione che per il cinema, cosa pensa delle serie TV?

[answerIcon] Per me un film dipende dal soggetto, dal tema di cui tratta, non ha una grande importanza se sia fatto per la televisione o se sia confezionato per il cinema. Mi è capitato di fare film per entrambi i media. Oppure, come è stato per The Trip, avere una versione cinematografica e una televisiva dello stesso progetto. Non esprimo un giudizio su cosa sia meglio o peggio. La televisione di certo consente più spazio e tempo, se si hanno tante cose da dire e il desiderio di suddividerle in episodi. Tendo però a pensare che una serie abbia un’estetica più formattata, poiché deve rispondere a determinati canoni televisivi che sono limitanti per un autore e questo porta i progetti a essere più mainstream. Concepire un’opera per il grande schermo è in qualche modo più liberatorio, credo, e in un certo senso sottopone anche a una minor pressione.

[questionIcon] Come ha iniziato a fare cinema?

[answerIcon] Ho cominciato a lavorare nel mondo del cinema come assistente montatore e, oltre a portare tazze di tè o caffè al capo-montatore, il mio compito era quello di numerare i fotogrammi: ogni 16 fotogrammi dovevo tagliare e poi far combaciare la numerazione della banda del sonoro con quella delle immagini. Visto che si montava tutto a mano, mi capitava di dover cercare determinati fotogrammi, o un fotogramma che mancava, per fare un raccordo. Il tutto in una una situazione assolutamente caotica come quella della sala montaggio! Io sono per natura piuttosto disorganizzato, ma ero molto bravo a trovare i fotogrammi mancanti.

[questionIcon] Quale consiglio avrebbe voluto ricevere a inizio carriera e quale consiglio darebbe ai giovani che vogliono fare cinema oggi?

[answerIcon] Non so se voglio dare un vero e proprio consiglio. Quello che mi sento di raccontare è che, quando ero giovanissimo, ho iniziato a lavorare non in ambito cinematografico, ma come ricercatore per un autore che si chiama Lindsay Anderson: stava realizzando un documentario che doveva essere sul cinema e lui, considerando com’era [ride], l’ha interpretato sul suo cinema. Era una persona da un lato estremamente divertente ed eccentrica e da un altro molto difficile, il tipo di uomo che sceglie apposta un argomento di conversazione per riuscire a litigare con il proprio interlocutore. Poi ho iniziato a conoscere un autore come Ingmar Bergman, che nella sua carriera ne ha fatti cinquanta di film. Lavorava con un gruppo ristretto di persone, ma era estremamente organizzato: decideva a ottobre che avrebbe girato in primavera e a quel punto preparava tutto in grande anticipo. Però il risultato è questo: Lindsay Anderson, lo stravagante, ha fatto quasi cinque film, Bergman ne ha fatti cinquanta. Ha potuto farlo grazie alla sua estrema precisione e alla disciplina che ha avuto nel gestire tutto. Io preferisco essere preciso come Bergman, quindi il mio consiglio è: mai essere in ritardo, sempre puntuali.

[questionIcon] Domanda finale di rito. Se dovesse descrivere il suo cinema in sole tre parole, quali sceglierebbe?

[answerIcon] Questa domanda è troppo difficile, non so come rispondere [dietro suggerimento del direttore del Festival, otteniamo una risposta divertita che riassume perfettamente Winterbottom e la sua personalità sibillina, ndr]. Go and see.

Nuovo cinema noir: John Huston e Il mistero del falco

Più volte paragonato a Ernest Hemingway per la sua tendenza al vagabondaggio professionale, il talento narrativo, la vivace vita privata e la passione per il pugilato, John Huston è stato un grande regista ma soprattutto un abile sceneggiatore, dedito al cinema e all’avventura.

Il mistero del falco (1941) è tratto dal romanzo hard-boiled di Dashiell Hammett Il falcone maltese ed era stato portato sul grande schermo già due volte, ma con scarso successo. Un noir di stampo classico solo in apparenza: in una plumbea San Francisco, il detective privato Sam Spade investiga sull’omicidio del socio, finendo per trovarsi coinvolto in una losca vicenda che ruota attorno alla scomparsa di una preziosa statuetta a forma di falco. In una trama intricata, tra i chiaroscuri opprimenti della fotografia di Arthur Edeson, si muovono i personaggi iconici del nuovo genere noir: il detective cinico e disilluso e la dark lady dal fascino letale.

john huston

John Huston, con quello che è considerato il padre di tutti i noir americani moderni, si è guadagnato anche una nomination agli Oscar per la miglior sceneggiatura non originale. Le sue straordinarie capacità nel dirigere gli attori e nel dare nuovo respiro a un genere già collaudato, gli permettono di fare de Il mistero del falco un vero e proprio cult movie. Un esordio brillante, realizzato con un budget di trecentomila dollari e sei settimane di lavorazione, girato in interni su set completi di soffitto – per una resa claustrofobica delle scene – e senza i soliti divi di Hollywood.

Quando Humphrey Bogart interpreta l’investigatore Sam Spade è ancora lontano dall’essere un mito del cinema, ma il suo fascino è già solido: antieroe dallo sguardo malinconico, in impermeabile e con la sigaretta sempre accesa, si muove con durezza tra bugie e tradimenti nascondendo sotto il trench i suoi segreti. La dark lady è invece interpretata da Mary Astor (Ruth Wonderly), l’assassina col volto angelico, fragile e disonesta. La stessa Mary Astor che diventerà un’icona dopo la scoperta dei suoi diari bollenti: sposata ad un medico che curava le dive di Hollywood, l’attrice teneva un diario con i dettagliati resoconti delle sue avventure extraconiugali. Come in un film nel film, l’illustratore Edward Sorel negli anni ’60 trova sotto il pavimento alcuni giornali di trent’anni prima, dedicati allo scandalo che aveva travolto l’attrice (i diari bollenti di Mary Astor è uno splendido libro illustrato edito in Italia da Adelphi).

john huston

Il McGuffin della storia è il falco d’oro, la statuetta diviene il pretesto per rivelare i lati oscuri dei diversi protagonisti, che si lasciano corrompere uno ad uno da una ricchezza effimera. La statuetta è l’oggetto del desiderio di tutti, ma si rivelerà un falso, esaminandola sul finale il detective Sam Spade pronuncerà la shakespeariana battuta finale: «È fatta del materiale di cui sono fatti i sogni». Il senso di tutto il film è racchiuso in quel finale: Bogart esamina il falcone per il quale tanti sono morti o si sono rovinati e alla fine non ha niente di prezioso, è senza valore. Non ci sono vincitori, dunque, così come non ci sono né buoni né cattivi.

Ne Il mistero del falco non è la vicenda ad essere rivoluzionaria, lo sono i personaggi, le scelte di sceneggiatura e di regia, rendono il film memorabile e magistralmente interpretato. Un noir fatto di inseguimenti, sparatorie e clamorosi colpi di scena; Huston crea le relazioni tra i personaggi e i loro fragili equilibri come un ragno tesse la tela, in modo da far emergere tutta l’oscurità che si portano dentro, mentre combattono il fascino del male e arrancano sulla strada della rettitudine. John Huston, appena trentaquattrenne, fa la storia del genere noir e lo reinventa così come lo conosciamo oggi. «Ora voglio fare un brindisi, se permettete. Lunga vita al crimine!» e lunga vita al cinema!