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Stefania Covella

Cosa farebbe Billy Wilder? Da Il frutto proibito a L’appartamento

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Nel corso de Il Cinema ritrovato a Palermo stagione 2018/2019 è stata restaurata e proiettata in 4K la pellicola più famosa di Billy Wilder: L’Appartamento, il film che forse più di tutti ha rappresentato la commedia brillante americana durante la Golden Age hollywoodiana, tra sarcasmo, scene esilaranti e strette allo stomaco. Ventisette film e mai un’opera mediocre, 6 Oscar e 14 nomination, una carriera lunga quarant’anni divisa tra drammi e commedie, insieme ai fedeli co-sceneggiatori Charles Brackett e I.A.L. Diamond e alla lunga serie di fedeli interpreti ricorrenti come Audrey Hepburn, Tony Curtis, Marlene Dietrich, Jack Lemmon e Marilyn Monroe.

Billy Wilder inizia a lavorare come sceneggiatore per filmetti di serie B, per poi acquisire notorietà scrivendo per Ernst Lubitsch il film Ninotchka gli vale una nomination all’Oscar  ̶ e Howard Hawks per il quale scrive Colpo di fulmine e La porta d’oro e guadagna altre due nomination. Finalmente, nel 1942, arriva la possibilità di girare la sua opera prima: Il frutto proibito (The Major and the Minor), una commedia degli equivoci tratta dall’opera teatrale Connie Goes Home di Edward C. Carpenter e adattata da Wilder e Charles Brackett.

billy wilder

È la divertente storia di Susan Kathleen Applegate (Ginger Rogers), una bella massaggiatrice delusa dalla vita di New York e stanca dei clienti che attentano alla sua morale, per questo decide di tornare nel suo paese d’origine ma si accorge di non aver abbastanza soldi per il biglietto. Così Susan si traveste e si atteggia da dodicenne, per usufruire della tariffa ridotta. Sul treno però incontra casualmente Philip Kirby (Ray Milland), maggiore dell’esercito e istruttore in un collegio militare. L’uomo vedendola sola decide di prenderla per qualche tempo in custodia. I due iniziano a provare dei sentimenti l’uno per l’altra e solo dopo una serie di numerosi equivoci riescono a sposarsi.

Una commedia spiritosa e leggera, con un ottimo incipit e un tollerabile rallentamento nella parte centrale, comunque mai noiosa. La pellicola esce nelle sale il 16 settembre del 1942, il successo è immediato: costata 928 mila dollari ne incassa 3 milioni solo negli Stati Uniti. Frutto proibito ricalca alcuni stilemi della screwball comedy classica ma introduce un sarcasmo per niente politically correct, tra sottointesi e rovesciamenti. Wilder stesso definisce questo suo primo film una commedia commerciale, scritta appositamente per farsi notare, eclettico e irriverente il regista austriaco ha sfidato con furbizia il perbenismo hollywoodiano, restando sempre sul filo del rasoio, evitando così la censura.

Come autore Wilder ha sempre sostenuto l’importanza delle storie sopra ogni cosa, mentre la macchina da presa è solo il mezzo della fruizione scenica, uno strumento non invasivo e privo di virtuosismi, concentrato sull’interpretazione attoriale e al servizio dei personaggi, perché per Wilder il miglior regista è quello che non si vede. Dopotutto, il suo idolo e mentore è il regista tedesco Ernst Lubitsch, infatti Wilder aveva appeso nel suo ufficio un cartello che recitava: «How would Lubitsch do it?».

billy wilder

Frutto proibito è un film più intelligente e provocatorio di quanto Wilder voglia far credere, a partire dall’ambiguità del titolo originale: The Major and the Minor, il maggiore (nel senso militare e anagrafico) e la minorenne. Come in tutto il suo cinema la leggerezza della messinscena maschera la complessità della sua poetica. Il tema centrale della sessualità è trattato in modo brillante ma sempre con garbo, dalla metafora delle falene attratte dalla lampadina alla tattica della Linea Maginot del cadetto che tenta di baciare Susan.

Il senso del film lo sintetizza il personaggio di Lucy in una battuta: «L’amore, in fondo, è uno stato di miopia astigmatica», lo stesso vale per lo spettatore e alla sospensione dell’incredulità che gli permette di dimenticare i trent’anni di Ginger Rogers per trovarla credibile nel suo travestimento da ragazzina. Nella vita e al cinema spesso scegliamo di credere alla finzione solo se è recitata abbastanza bene da non poter fare altrimenti, soprattutto se la bugia è bella come Ginger Rogers, e questo Wilder lo sapeva bene. «Nessuno è perfetto» recita la battuta conclusiva del film A qualcuno piace caldo ma Wilder, con il suo cinema brillante e senza tempo, ci va molto vicino.

Ridley Scott: da I duellanti a Blade Runner

I replicanti, i cartelloni pubblicitari digitali, i rifugi spaziali, le videochiamate dalle cabine telefoniche e i comandi vocali alle macchine: questo è il 2019 secondo Blade Runner, capolavoro di Ridley Scott del 1982. Se sui cartelloni ci siamo e Alexa e Google Home sono entrati nelle nostre case, i robot con capacità emotive non sono ancora in mezzo a noi, le videochiamate possiamo farle comodamente dal cellulare, i danni climatici (per ora) non ci hanno costretto a rifugiarci su altri pianeti e – per fortuna – non vanno più di moda i trench e le spalline.

Il regista britannico ha realizzato nel corso della sua carriera film di vario genere e dal successo altalenante, da Alien a il già citato Blade Runner, dal road-movie Thelma & Louise al peplum moderno Il Gladiatore, passando per adattamenti e commedie.

Ridley Scott ha iniziato a lavorare negli anni Sessanta come scenografo per la famosa serie tv di fantascienza Doctor Who, per poi passare alla regia televisiva per la BBC, mentre nei primi anni Settanta ha fondato la Ridley Scott Associates, una società molto prolifica in campo pubblicitario, celebre il suo spot per il lancio dell’Apple Macintosh intitolato 1984 come il capolavoro di George Orwell.

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Nel 1977 Scott ha quarant’anni e ha ottenuto i finanziamenti per dirigere la sua opera prima, I duellanti (The Duelists) tratto da The Duel il racconto di Joseph Conrad, a sua volta ispirato da una storia vera, un cult che sarà preso a modello di riferimento da generazioni di cineasti.

Il film, ambientato in età napoleonica, è incentrato sull’interminabile duello, nato per futili motivi, tra due ufficiali di cavalleria: Gabriel Féraud (Harvey Keitel) di umili origini e fedelissimo a Napoleone e l’aristocratico Armand d’Hubert (Keith Carradine). l duellanti non lo sapevano quando hanno scelto un motivo per odiarsi, il vero nemico era nello specchio, nel doppio, la parte di loro stessi che nell’altro non potevano fare a meno di voler estirpare. Il loro è un duello lungo vent’anni, considerato uno dei migliori della storia del cinema, anche se neppure durante l’ultimo scontro i due riescono a uccidersi. D’Hubert infatti non preme il grilletto, sceglie di graziare Féraud dichiarandolo virtualmente morto, ponendo fine alla contesa.

Come il racconto, il film si chiude con un’immagine: Gabriel Féraud, visto di spalle, osserva il sole tramontare sul paesaggio, impossibile non paragonare quest’immagine al quadro di Joseph Sandmann che ritrae Napoleone su uno scoglio di Sant’Elena, mentre contempla l’orizzonte.

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Le ambientazioni del film sono caratterizzate da un forte senso estetico e realistico, magistrali le abilità attoriali e i duelli realizzati con vere sciabole da sei chili l’una e la cura dei particolari colti dalla cinepresa di Ridley Scott tra banchetti, amori e duelli. Il regista britannico gira veri e propri tableux vivants, muove la macchina da presa incorniciando i personaggi con un’abilità molto matura per un esordiente. I duellanti si rivela un esercizio di virtuosismo raro, soprattutto per un film con soli 900.000 dollari di budget, anche un po’ sfortunato, se si pensa che è stato girato quasi tutto in esterni in soli cinquantotto giorni di riprese, cinquantasei dei quali funestati dalla pioggia.

La pellicola conquista all’istante gran parte della critica e del pubblico, vince un premio per la migliore opera prima al Festival di Cannes e un David di Donatello come miglior film straniero. I duellanti diventa in pochissimo tempo oggetto di culto e viene spesso paragonato al Barry Lyndon di Stanley Kubrick, una somiglianza puramente estetica. L’opera prima di Ridley Scott, che sia considerata fuori dalle righe nel genere cappa e spada o ben fatta in quello degli affreschi storici, è di sicuro una delle migliori trasposizioni letterarie della storia del cinema, un trattato sull’odio e sulla natura umana dove l’uomo razionale e quello selvaggio coesistono per sempre.

Alberto Viavattene. Uno storyteller diviso tra videoclip, horror e Sorrentino

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Alberto Viavattene è un giovane regista torinese, ha un cognome indimenticabile e uno spiccato gusto estetico per la fotografia. Diviso tra i videoclip e i set dei film di Sorrentino, ha trovato nell’horror la sua dimensione naturale. Roxane Duran, una delle star della serie Riviera su Sky Atlantic, è la protagonista del suo ultimo corto, quello che ha conquistato Sorrentino: Birthday. Una serie di fortunati eventi ha messo Viavattene sulla strada giusta e ora è pronto per realizzare la sua opera prima.

Video musicali, corti e spot, sei un eclettico! Come sei diventato regista?

Sin da piccolo ho sempre voluto fare il regista, il primo corto l’ho girato a 16 anni, quando mi hanno regalato una videocamera. A 19 sono capitato su un set come volontario: ho ricoperto il ruolo di video-assist su Il divo di Paolo Sorrentino. Mi sono ritrovato in mezzo a Sorrentino, Toni Servillo e Luca Bigazzi che erano i miei idoli.

Hai lavorato anche sui set di The Young Pope e Youth, come sei finito a dirigere il backstage di Loro?

Sorrentino ha visto il mio ultimo corto, Birthday, gli è piaciuto molto e mi ha affidato la regia del backstage di Loro. È stato un cerchio che si chiude, dopotutto ero partito come semplice volontario. Mi ha colpito e continua a colpirmi il suo modo di girare perché, quando si sta sul set, si ha sempre l’impressione di fare qualcosa di magico, quando poi si vede il film montato ci si rende conto di alcune scelte ed è sempre una sorpresa.

alberto viavattene

Al Festival del Cinema Europeo ho visto il tuo ultimo cortometraggio: Birthday. Da dove nasce l’idea per questo corto patinato e cupo insieme?

L’ho realizzato grazie alla vittoria di un bando della Torino Film Commission. Premetto che per me l’horror nasce dal quotidiano, non è da ricercare troppo in là: un’anziana non più capace di intendere e di volere, chiusa in una casa di riposo in balia del prossimo, è una situazione spaventosa. Poi l’Indastria Film ha coinvolto uno sceneggiatore ma io, già dopo il primo giorno di riprese, avevo capito che non sarei riuscito a seguire la sceneggiatura. Ho dovuto rielaborarla sul momento, l’ho modificata a tal punto che lo sceneggiatore ha chiesto di togliere il proprio nome dai titoli.

Sei l’incubo di ogni sceneggiatore…

Lo so [ride ndr]. È stata una situazione estrema, c’erano pochi giorni e il budget non era alto, andavano prese delle decisioni.

Cosa ti ha portato a scegliere il videoclip come principale forma espressiva?

Il videoclip è una forma espressiva immediata: ti viene un’idea o hai un’immagine in mente, in uno o due giorni si gira e dopo una settimana è tutto online, ne apprezzo la velocità. Preferisco lavorare con gruppi non troppo famosi e piccole etichette, perché mi danno la libertà di poter fare quello che voglio, come per l’ultimo che ho girato: Devo dirty di Luca dei Lapingra.

Insieme ad Anita Rivaroli hai realizzato il videoclip del progetto Rockin’ 1000: mille musicisti hanno suonato insieme le note dei Foo Fighters. Il video è diventato virale, quanto è stato complicato realizzarlo?

Non è stato semplice, c’era da capire come restituire e riprendere nel migliore dei modi l’emozione live di quell’impresa. Non è bastato mettere una decina di macchine da presa nella mischia e poi lavorare al montaggio, si è trattato di avere sempre del materiale buono per ogni strumento e studiare come alternarlo. Il video è andato benissimo, ancora oggi ha 44 milioni di visualizzazioni, non ce l’aspettavamo, è stata una bella sorpresa ritrovarsi coinvolti in un fenomeno virale.

alberto viavattene

Da dove nasce la tua predilezione per il genere horror?

L’horror è un genere nel quale mi sono trovato un po’ invischiato, è stata più un’esigenza, ho capito di riuscire a ottenere una certa attenzione nei festival di genere, dove una buona idea riesce a risaltare anche se hai pochi mezzi. Girerei volentieri anche un film drammatico o un noir, l’unico genere che non farei è la commedia.

Che progetti hai per il futuro?

Ho dei progetti che sto facendo girare tra le case di produzioni. Tra i vari soggetti, ce n’è uno al quale tengo particolarmente: un horror ambientato interamente nella cucina di un ristorante. Sono alla ricerca di un produttore coraggioso, oggi si fanno molti più film di genere rispetto a qualche anno fa, ma manca ancora un po’ di coraggio. Mi è capitato di dialogare con delle produzioni in cerca di progetti horror che hanno definito i miei soggetti “troppo horror”. Tra l’altro, non amo particolarmente i cortometraggi e sono il primo spettatore che si annoia, perché non riesci a entrare in una storia che ne sei già fuori. Mi sento pronto per realizzare la mia opera prima, credo però che il cinema non debba essere un riflesso del proprio essere: il difficile del mestiere del regista, dopotutto, è trovare delle storie che meritino di essere raccontate. Ed è quello che cerco di fare.

Nelle fotografie, Roxane Duran, la protagonista di Birthday, nel ruolo di una giovane infermiera che si approfitta dei pazienti di una casa di riposo finché non entra nella stanza numero 12.

Rossella Inglese. L’età del consenso

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Rossella Inglese dà ai suoi corti dei nomi femminili e ci lascia spiare le sue muse dai tratti delicati e dagli occhi magnetici nascoste dietro i vetri come le eroine di Sofia Coppola. Le mostra mentre scoprono il sesso e il proprio corpo, incuranti di un mondo che spesso le giudica per questo.

Rossella Inglese, classe 1989, da Battipaglia si è fatta notare alla Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Sic@Sic, entrando poi in contatto con la Wave Cinema che ha prodotto il suo ultimo corto, vincitore del premio Emidio Greco al Festival del Cinema Europeo 2018.

Ti occupi di sceneggiatura, montaggio e regia, lavori sui tuoi progetti a 360°. Come hai iniziato?

Il mio percorso professionale si sintetizza in tre cortometraggi: Vanilla, Sara e Denise, una trilogia sulla sessualità femminile con tre protagoniste. Ho iniziato studiando sceneggiatura a Roma, ma per fortuna ho cambiato idea e ho deciso di studiare regia al SAE Institute di Milano, dove ho anche imparato a montare.

Cosa ti ha fatto cambiare idea?

Mi sono ritrovata a scrivere di cose piuttosto intime, accorgendomi così di avere temi molto urgenti: volevo parlare della donna e della sua sessualità. Ho iniziato con un primo lavoro molto personale, ma mi ha affiancata un regista con una visione diversa dalla mia, anche dal punto di vista estetico, e dirigeva gli attori in un modo che non mi piaceva. Ho vissuto altre esperienze simili e mi sono accorta di avere anche una visione registica molto forte, quindi ho deciso di passare alla regia.

Hai fondato una casa di produzione, giusto?

Sì, la Fedra Film è una piccola produzione fondata da me e dal direttore della fotografia, Andrea Benjamin Manenti, nel 2012, con lo scopo di finanziare i nostri cortometraggi. In tutti i miei corti cerco di dare un contenuto narrativo anche alla fotografia e ai movimenti di camera, quindi c’è stata sempre questa collaborazione tra noi due e andrà avanti anche per la mia opera prima.

Poi ci sono Sara e Denise, non è un caso che entrambi i corti portino dei nomi femminili, mettono entrambi al centro delle adolescenti alla scoperta di se stesse e della propria sessualità. Come scegli quali storie raccontare?

Racconto ciò di cui sento l’urgenza: in Sara il punto focale è il passaggio dall’infanzia all’adolescenza di una bambina, orfana di madre, che fa fatica a comprendere i cambiamenti del proprio corpo. In Vanilla, invece, cercavo di capire il conflitto tra inconscio e io, tramite la storia di una ragazza giovane che ha una relazione consenziente con il proprio padre e si ritrova a scontrarsi con quello che prova, con la società che la circonda. In Denise ho affrontato il rapporto che c’è tra la propria identità e la propria immagine online. Questo è il corto un po’ più sperimentale, io e Andrea [Manenti, ndr] abbiamo cercato di fare un uso diverso della macchina da presa, che diventa così un personaggio della storia. In Denise mi sono chiesta come vive un adolescente di oggi, continuamente esposto sui social e quindi a un pubblico in conflitto tra l’identità e l’immagine che deve dare di se stesso agli altri.

Hai lavorato sempre con attori non professionisti.

Lavorare con attori non professionisti è stata una scelta: quando facevo i casting mi sono ritrovata a scoprire che gli attori che avevano già avuto delle esperienze non mi piacevano. A Milano è stato un po’ più faticoso, mentre mi sono trovata benissimo a Roma. Per l’ultimo corto, avrò visto centocinquanta ragazzi e mi hanno catturato quelli con meno esperienza: istintivi, liberi, con un’espressività molto forte, perfetti. Ad esempio, la protagonista di Denise è Gaya Carbini, una ragazza bravissima, sembra una professionista. Per me la direzione degli attori è importante, conosco alcuni registi che non fanno grandi prove. Io invece sono una che deve provare per mesi, far capire bene i personaggi, parlarne con gli attori.

Stai scrivendo la tua opera prima, ritroveremo i tuoi temi chiave o sarà qualcosa di completamente diverso?

Mi piace un cinema che lascia spazio più a uno sviluppo narrativo interiore che esteriore, che è molto sui personaggi e sulla loro interiorità, sulle relazioni uomo-donna. La mia opera prima verterà sugli stessi temi della trilogia di Vanilla, Sara e Denise, ma in questo caso la protagonista è più grande, ha vent’anni, ho chiuso con l’adolescenza. Abbiamo soggetto e trattamento e stiamo lavorando sulla sceneggiatura. Mi sento pronta per un lungometraggio, in Denise ho fatto veramente fatica, avevo scelto dei temi e una storia poco adatti a un corto e mi sono resa conto di avere bisogno di raccontare tutto con più ampiezza e respiro.

Le fotografie rappresentano la giovane e promettente Gaya Carbini nei panni di Denise, nell’omonimo corto che ha vinto il premio Young for Young al Visioni Italiane di Bologna e che è in concorso a Venezia a I love GAI – Giovani Autori.

Charlie Chaplin: Il monello tra un sorriso e, forse, una lacrima

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Bombetta, baffetti e bastone da passeggio, pantaloni sformati e scarpe consunte, il vagabondo Charlot (The Tramp) emotivo, malinconico e disincantato è l’emblema dell’alienazione umana nell’era del progresso industriale. Charlot è il personaggio attorno al quale Charlie Chaplin, la personalità più influente del cinema muto, ha costruito gran parte delle sue opere. Fellini lo definiva «l’Adamo del cinema», un po’ come se fosse il punto zero, l’origine primordiale della settima arte.

L’attore e regista inglese è stato tra i primi a capire il profondo potere simbolico del grande schermo, le sue idee fatte di immagini e silenzi in realtà gridavano più di qualsiasi altra cosa, così Charlot incarna lo spirito del Novecento, l’uomo schiacciato dal progresso, dalla guerra e dalla miseria, ma comunque testardo e vitale.

charlie chaplin

Il monello (The Kid) è l’opera prima di Charlie Chaplin, film culto del 1921 con protagonisti lo stesso Chaplin con Jackie Coogan e Edna Purviance. Le riprese della pellicola durano circa diciotto mesi, un periodo che coincide con una serie di infausti eventi che sconvolgono la vita privata di Chaplin: perde il primo figlio poco prima dell’inizio della lavorazione, il suo matrimonio finisce durante le riprese e il film rischia il sequestro. Alcune di queste vicende autobiografiche, sembrano in qualche modo confluire nell’opera, ma in modo lieve e quasi impercettibile, come la regia stessa. Infatti, il regista inglese usa la macchina da presa con discrezione: pochissimi prima piani, riprese frontali a distanza fissa, composizione che valorizza al massimo la recitazione dell’attore che è quasi sempre al centro dell’inquadratura. Dopotutto, Stanley Kubrick stesso sintetizza Il Monello definendolo «niente stile, tutto contenuto».

Il protagonista è un orfano abbandonato dalla madre e trovato per caso da un povero vetraio, che si improvvisa padre e lotta contro tutte le avversità che gli si abbattono addosso, tra toni burlesque e cupi insieme, in una Londra divisa tra ricchi e poveri, il vagabondo e il monello cercheranno di sopravvivere e di restare uniti. Guardando gli occhi pieni di lacrime del piccolo Jackie Coogan strappato dalle braccia di Charlot per essere spedito in orfanotrofio, è sconvolgente rendersi conto che quei fotogrammi hanno quasi novant’anni e che fanno parte dell’immaginario collettivo, uno sguardo puro che si fa cinema senza ricorrere a nient’altro se non all’empatia dello spettatore.

charlie chaplin

Il monello si caratterizza già come un insieme di quelli che saranno i temi portanti del cinema chapliniano: la denuncia sociale, l’attenzione al mondo degli svantaggiati, la fusione tra comico e melodramma, la cura dell’altro e la speranza. In Il monello, Chaplin adotta un approccio emotivo, ed è qui che ha origine questa commistione tra risata e dolore che caratterizza tutta la produzione di Chaplin, così il suo slapstick irriverente si fonde al sentimentalismo. Furono in molti a criticare questa scelta stilistica, ma il successo del film è indubbio, nonostante il delicato equilibrio che rende la pellicola uno strano ibrido tra un melodramma sentimentale e un film comico.

Alla fine, è semplicemente la storia di un bambino che sperimenta la paura dell’abbandono e il bisogno di sentirmi amato e al sicuro e non esiste niente di più universale e intimo insieme. Chaplin mette in risalto una maternità sofferta e raramente rappresentata sul grande schermo e un legame famigliare non tradizionale, anzi, un nucleo totalmente improvvisato ma non per questo meno vero. «A picture with a smile and, perhaps, a tear», questa è la frase storica che apre Il monello e che sinterizza e racchiude, forse, l’intera filmografia di Charlie Chaplin.

Terrence Malick e La rabbia giovane, on the road per le Badlands

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Terrence Malick è considerato il J. D. Salinger del cinema: ha concesso pochissime interviste, stipulato un contratto che impedisce di usare la sua immagine a fini promozionali e ha dato il suo benestare per un documentario sulla sua vita, Rosy-Fingered Dawn – Un film su Terrence Malick (2002) diretto da Luciano Barcaroli, Carlo Hintermann,  Gerardo Panichi e Daniele Villa, dove però non appare mai e la sua figura è descritta attraverso le interviste a colleghi e amici.

Malick inizia la sua carriera come script-doctor, non sempre accreditato e, nel 1973, scrive, dirige, interpreta un piccolo ruolo e finanzia personalmente la sua opera prima: La rabbia giovane (titolo dalla traduzione banale rispetto al più evocativo Badlands), un film indipendente interpretato da Martin Sheen (Kit) e Sissy Spacek (Holly), ispirato alle vicende reali del serial killer Charles Starkweather e della giovane compagna Caril Ann Fugate, negli anni ‘50. Un road-movie introspettivo, una spirale di delitti, una favola americana di amore e ribellione. Kit e Holly sono mossi dalla stessa inquietudine, lei scrive tutto sul suo diario – con piglio innocente – lui segue i suoi impulsi omicidi, persi e senza una direzione si muovono con la loro giovinezza rabbiosa per il paesaggio tragico e deserto delle Badlands.

Terrence Malick

Gli omicidi perpetrati dalla coppia, quindici anni lei e venticinque lui, sono un viaggio verso la follia. Se Holly li vive come in stato di trance e senza un’effettiva partecipazione emotiva, Kit sfiora la schizofrenia mentre i suoi attacchi di rabbia si fanno sempre più incontrollabili. Ma è proprio Kit l’anello debole, quasi ricerca la cattura come una liberazione, dall’inizio è destinato a compiere quel suicidio inventato per depistaggio, che sia in un incendio o su una sedia elettrica, la morte è l’unico modo di essere libero. Mentre Holly se la cava con poco, prima di sposare un uomo qualunque e tornare alla vita normale alla quale è destinata.

L’esordio di Malick è un film insolito, accolto con sorprendente entusiasmo alla sua anteprima al New York Film Festival. La pellicola con la sua originalità e l’altissimo gusto estetico, nonostante il budget ridotto, colpisce la Warner Bros che ne acquista i diritti e la distribuisce, pagando una cifra tre volte più alta del budget del film, cogliendo il significato sociale dell’opera che delinea in modo realistico la realtà provinciale della parte più selvaggia degli Stati Uniti.

La rabbia giovane ha già in sé tutte quelle che sono le caratteristiche del cinema di Malick: la rappresentazione cruda degli avvenimenti, l’importanza della natura selvaggia, il rapporto uomo-natura, la voce fuori campo introspettiva (quella di Holly, in questo caso), la fotografia curata e l’attenzione per la colonna sonora. Questo dimostra la chiarezza di idee, lo stile già formato e la visione che Malick ha del mondo, che nel corso della sua filmografia non cambia ma matura lentamente, sfiorando vette di perfezione assoluta.

Terrence Malick

Un po’ Lolita e un po’ A sangue freddo, l’opera prima di Terrence Malick è poetica e letteraria prima ancora che cinematografica, ma basterebbe dire che Bruce Springsteen ha tratto ispirazione da La rabbia giovane per incidere il singolo Nebraska, per capire che è uno dei film più evocativi degli anni ’70, un vero e proprio cult-movie.

Terrence Malick è un autore dai contenuti duri e spietati, che presenta al grande pubblico ritratti di uomini in crisi, con sé stessi e con la società della quale fanno parte. Malick ha uno stile unico, filosofico e spirituale, ed è noto per il suo perfezionismo maniacale e per la sua capacità intrinseca di dividere sempre pubblico e critica. Il regista americano ha segnato l’arte cinematografica con una ritrovata poesia visiva di rara bellezza, meritandosi piogge di candidature agli Oscar e un posto tra i grandi del cinema.

La commare secca e la poetica contaminata di Bernardo Bertolucci

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Gli anni ’60 sono un periodo di svolta per il cinema italiano, si sta congedando il cinema classico per far posto a una nuova generazione autoriale, il successo di Accattone di Pasolini fa da apripista ad altri famosi esordi cinematografici. Ed è in questa finestra di tempo che si colloca Bernardo Bertolucci, a ventuno anni è l’esordiente più giovane della storia del cinema italiano. La commare secca (1962) è la sua opera prima, l’impronta pasoliniana è innegabile: Pasolini scrive il soggetto e gli consiglia di usare attori non professionisti, i due sono amici e Bertolucci è anche stato il suo assistente alla regia in Accattone.

Il film narra, attraverso dei flashback, l’indagine sull’omicidio di una prostituta nella periferia romana. La morte della donna (Vanda Rocci), trovata sulle rive del Tevere, viene narrata attraverso i racconti di vari personaggi, in una messa in scena che moltiplica i punti di vista. Il carabiniere (Gianni Bonagura) che interroga ragazzi di vita, ladruncoli e criminali trovati nei pressi del luogo dell’omicidio, è una voce off e lontana, come il potere che rappresenta.

I principali indiziati sono: il Canticchia (Francesco Ruiu), il Califfo (Alfredo Leggi), il soldato Teodoro (Allen Midgette), Natalino (Renato Troiani) e due adolescenti Francolicchio (Alvaro D’Ercole) e Pipito (Romano Labate). I due ragazzi si fanno adescare da un uomo e lo derubano per poter uscire il giorno dopo con delle coetanee, a raccontarlo però è solo uno dei due, perché nella fuga uno annega nel fiume. Ed è proprio la vittima del furto a rivelarsi fondamentale per risolvere l’indagine, perché è stata testimone oculare dell’omicidio e riconosce in Natalino l’assassino.

bernardo bertolucci

La particolarità della pellicola sta nei diversi punti di vista, ogni personaggio ha una propria visione del mondo e questo Bertolucci lo mostra dirigendo ogni episodio con uno stile personalizzato. Un relativismo profondo, dove l’unica certezza resta la morte, a rivelarcelo è il sonetto di Gioacchino Belli che fa la sua comparsa nell’inquadratura finale: «e già la commaraccia secca de strada Giulia arza er zampino», la commare secca del titolo è proprio la morte, alfa e omega della pellicola di Bertolucci. Il giallo viene risolto, ma quello che conta davvero è lo spaccato sociale dell’epoca che il film ci mostra, in un bianco e nero perfetto e con una cifra stilistica ben definita, nonostante la forte influenza pasoliniana.

I personaggi di Bernardo Bertolucci si muovono nella periferia del mondo, disperati e ai margini cercano un modo per andare avanti in una vita che non lesina colpi bassi. Le storie che sceglie di narrare sono drammatiche, divise tra poveri e potenti, angeli e demoni, vittime di un tormento interiore o in balia degli eventi, tra lotta di classe, rivoluzione, sesso e droga.

Pasolini ha dichiarato «È stato girato contro di me», non in senso dispregiativo ma perché scrivendo il soggetto si è ritratto nel personaggio dell’omossessuale adescatore, in modo simbolico e autoironico. Il film riceve un’accoglienza un po’ fredda dal pubblico e dalla critica, qualcuno consiglia a Bertolucci di tornare a fare il poeta, come il padre Attilio. Una piccola parte di critica però ne apprezza proprio gli eccessi e scorge quella scintilla di talento che avrà poi modo di splendere nelle sue opere successive.

la comare secca

La commare secca si caratterizza per una poetica ambigua e contraddittoria, che esalta il senso di smarrimento dell’uomo comune. La mano di Bertolucci si nota soprattutto nelle scene di ballo, che diventeranno ricorrenti nella sua filmografia, molto bella quella nel finale che porterà al riconoscimento dell’assassino. L’opera prima di Bertolucci si rivela una pellicola popolare ma lirica, un po’ Rashomon di Akira Kurosawa e un po’ tragicommedia pirandelliana, La commare secca è un film imperfetto e contaminato da troppe influenze, ma contiene il germe di autenticità di un cinema che si rivelerà più innovativo del previsto, mosso da passione civile e dal rifiuto degli eroi.

Bernardo Bertolucci è l’autore di capolavori come Novecento e L’ultimo imperatore, il film da nove Oscar, che ha fatto la storia del cinema. Se lo sarà pure portato via la commare secca, ma i suoi film non saranno mai dimenticati.

La bella vita di Paolo Virzì, tra triangoli amorosi e Notti magiche

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Al cinema l’ultimo film di Paolo Virzì, Notti magiche, si classifica al settimo posto del box office, mettendo al centro una storia di meta-cinema: un famoso produttore viene trovato morto nel Tevere la notte del 3 Luglio 1990 e i principali sospettati sono tre giovani aspiranti sceneggiatori. La figura dello sceneggiatore è centrale non solo nel nuovo film di Virzì, ma lo è nella sua carriera, dall’opera prima La bella vita, che segna l’inizio del lungo sodalizio artistico con il talentuoso sceneggiatore e amico Francesco Bruni, che lo accompagnerà nei suoi maggiori successi, da Ovosodo a Il capitale umano. Paolo Virzì è il regista morale del cinema italiano, racconta la società e i suoi drammi dolceamari con un tocco ironico e intelligente. Cantore della vita quotidiana, dalla mancanza di lavoro alla precarietà dei sentimenti e del futuro.

La bella vita, anche se prima si chiamava Dimenticare Piombino, dalla città toscana che fa da sfondo al film, racconta l’amore al tempo della crisi della classe operaia, un triangolo amoroso interpretato da Sabrina Ferilli, Massimo Ghini e Claudio Bigagli. Il film è girato con un budget molto ridotto, usando figuranti locali e scenografie di fortuna, ma ottiene un ottimo incasso. Presentato con successo nel 1994 alla Mostra del cinema di Venezia, il film viene premiato con il Ciak d’oro, il Nastro d’argento e il David di Donatello come miglior esordio.

paolo virzi

Bruno (Claudio Bigagli) è un operaio metalmeccanico nelle acciaierie di Piombino e Mirella (Sabrina Ferilli) lavora come cassiera in un supermercato. Sono sposati da pochi anni e il loro matrimonio è in bilico: Bruno perde il lavoro a causa della crisi del metallurgico e Mirella prova una forte attrazione per Gerry Fumo (Massimo Ghini, con un piglio da Sceicco bianco felliniano) – nome d’arte di Gerardo Fumaroni – divo e presentatore di una piccola emittente televisiva locale. Bruno finisce in cassa integrazione, trascura la moglie e tenta con un lavoro in proprio, mentre Mirella cede alle avance di Gerry e tradisce il marito, anche se si rende conto molto presto che, la sua scappatoia verso una vita mondana, è solo un’illusione. Infelici e separati, i due si tengono in contatto con una corrispondenza epistolare, trovando una vicinanza nuova nella lontananza.

Bruno è la voce narrante della vicenda e ci permette di entrare subito in empatia con le sue sfortunate vicende, Virzì ama i suoi personaggi e ne mostra pregi e difetti senza giudicarli, li svela con una delicatezza affettuosa che scalda il cuore. La vicenda è godibile con una regia rudimentale fatta di scene ferme e primi piani e una sceneggiatura ironica e scorrevole, anche se ancora molto ancorata al modello classico della commedia italiana. La bella vita è una tragicommedia social-sentimentale, fatta di amori, scioperi, tradimenti e cassa integrazione, con un enorme debito verso Romanzo popolare di Mario Monicelli.

la bella vita

Si disfa la coppia e si disfano le certezze di quel tessuto sociale che perde i suoi punti fermi: il lavoro sicuro, la famiglia e la stabilità. Le cassiere, nei loro tristi spogliatoi, cantano Vaffanculo di Marco Masini, scena iconica che sottolinea l’aspetto popolare del film, presente nel titolo stesso della pellicola, perché a fare la bella vita forse è il cassaintegrato Bruno che non lavora ma percepisce lo stipendio o è Mirella – un po’ Madame Bovary di provincia – che tenta l’avventura mondana.

La verità è che la bella vita, quella priva di preoccupazioni, non appartiene alla generazione operaia degli anni ’90, in crisi d’identità. Crollano le certezze dei protagonisti che si ritrovano a cercare appigli un po’ a caso, con scarso successo, il mondo sta cambiando intorno a loro e non sono pronti, restano vittime di un cambiamento del quale non possono mantenere il passo.

Accattone di Pier Paolo Pasolini, intellettuale corsaro

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Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale corsaro, come i suoi scritti, e uno dei più grandi protagonisti del Novecento italiano. La sua vita ha destato scandalo, il mistero irrisolto del suo omicidio fa ancora discutere e la sua impronta sulla storia del cinema e della letteratura è indelebile.

Pasolini inizia a lavorare nel mondo del cinema nel 1954 come sceneggiatore per Soldati, Fellini e Bertolucci (per il suo esordio, La commare secca), che era anche il suo aiuto regista in Accattone. L’opera prima di Pasolini è stata costellata di problemi in fase di produzione e distribuzione: Accattone (1961) doveva essere prodotto da Federico Fellini che però si era tirato indietro all’ultimo momento, scontento del girato giornaliero, valutato come sgrammaticato, consigliando lapidario a Pasolini «torna a scrivere, è meglio».

La pellicola del regista friulano è una metafora di quella parte di Italia che vive nelle periferie delle grandi città, senza poter sperare di migliorare la propria condizione. La scelta di utilizzare soprattutto attori non-professionisti, nasce dalla convinzione di Pasolini che i ragazzi di vita non siano rappresentabili, poiché sono soggetti incontaminati e privi di sovrastrutture sociali.

accattone

Accattone è il soprannome di Vittorio Cataldi (un iconico Franco Citti), un sottoproletario che tenta di sopravvivere nella periferia romana. Accattone vive di espedienti, lascia la moglie, tradisce gli amici, sfrutta una prostituta, ruba, si mette nei guai e perde la vita in un incidente. Pasolini ritrae in modo impietoso, ma per certi versi glorificante, una gioventù sola e disgraziata ma anche felice, in modo spudorato e incontenibile. Accattone è un film duro, come era dura la vita nelle periferie del mondo, ma è anche poetico, un inno all’amore per gli esseri umani fragili, corrotti e senza speranze.

Il costo approssimativo del film si aggira intorno al budget di una pellicola di serie B, circa cinquanta milioni. Presentato alla 26ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – fuori concorso – il 31 agosto 1961, il film di Pasolini riceve critiche e aspre contestazioni. Memorabile la prima romana del film, al cinema Barberini, dove un gruppo di giovani neofascisti cerca di impedirne la proiezione, lanciando contro lo schermo bottiglie d’inchiostro e finocchi, per sbeffeggiare l’omosessualità di Pasolini. Il film riceve anche il blocco della censura, Accattone infatti è stato il primo film del cinema italiano ad essere vietato ai minori di 18 anni.

L’esordio di Pasolini viene spesso catalogato come uno dei film più importanti della storia del cinema italiano, ma è anche un simbolo di innovazione e di un nuovo tipo di autorialità. Il punto di forza della pellicola sta nel realismo della recitazione, Pasolini fotografa la realtà come nessun altro regista sa fare, anche se non è visionario come Fellini e non ha la padronanza tecnica del mezzo che caratterizza la regia di Antonioni. Mette in scena la vita vera così come è ed è questo che rende il suo cinema la perfetta metafora della realtà.

accattone

La macchina da presa di Pasolini segue il protagonista lungo le strade polverose di un’estate romana bruciata dal sole, nella borgata, tra le baracche e le macerie, e lo fa con uno stile essenziale: pochi movimenti di macchina, numerosi primi piani, con quello stile un po’ agé da film muto. Con la splendida fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e il montaggio dal ritmo perfetto di Nino Baragli, che contribuiscono a una resa perfetta dei tempi e delle immagini.

Accattone con i suoi ladri e le sue prostitute, mostrando l’ultimo tra gli ultimi, strappa il cinema alle star di Hollywood e regala ai suoi ragazzi di vita un posto nell’immaginario comune del novecento. Pasolini porta sul grande schermo un cinema poetico che non si fa merce e non serve il potere, scomodo e sincero. Questo lo sapeva bene, di Accattone lui stesso diceva «non sarà nemmeno un film bello, non lo so; l’ho immaginato come un film angoloso, fuori delle regole, con la macchina da presa costantemente puntata sulle facce dei protagonisti. Sarà comunque un film sincero».

Er mondo è de chi cià li denti, ci ricorda il film, il cinema è di chi ha uno sguardo nuovo sulle cose e nessuna paura, come Pier Paolo Pasolini che non voleva compiacere nessuno, solo far sentire la sua voce.

80 anni di Pupi Avati: Balsamus, l’uomo di Satana

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Giuseppe Avati, noto come Pupi: così lo chiama la madre e poi il mondo intero, con il diminutivo del nome di un violinista austriaco. Pupi Avati, forse più di chiunque altro, rappresenta la scalata di un uomo comune verso il cinema e di quanto la solidarietà – una mano tesa – faccia la differenza. Quella abissale però, alla Sliding doors.

Dall’ambiente del cinema, Avati ha dichiarato spesso di essersi sentito più compatito che apprezzato, un regista di storie familiari – come diceva la critica Emilia Costantini – cantore di Bologna, scelta per orgoglio provinciale (quando ancora Bologna poteva considerarsi così): una città a misura del suo mondo, per farsi bello davanti agli amici, rivalersi sulle ragazze che non l’avevano amato e forse neanche capito «Ancora oggi quando faccio i miei film, in qualche modo sono come delle cartoline e delle lettere d’amore che mando ai miei amici, alle ragazze che mi hanno rifiutato». Con spirito ribelle si inventa un mestiere che non ha mai fatto, per farlo nel proprio posto sicuro del mondo, quasi al solo scopo di dimostrare qualcosa agli altri.

In cinquant’anni di prolifico lavoro Avati si è confrontato con un caleidoscopio di generi: dal biografico con La cena per farli conoscere, all’horror La casa delle finestre che ridono, al cinico Regalo di Natale. A premiarlo è stato soprattutto il pubblico capace di riconoscersi nel realismo e nella semplicità del suo cinema dei piccoli sentimenti.

pupi avati

Avati, prima del cinema, credeva che il suo grande sogno fosse il jazz, si è esibito come clarinettista dilettante tra il ’59 e il ’62 con la Doctor Dixie Jazz Band, almeno fino a quando Lucio Dalla non è arrivato a rubargli la scena. Almodóvar raccontava degli anni al call center come i peggiori della sua vita, Avati lo fa dei quattro passati a fare il rappresentante della Findus surgelati. La visione di 8½ di Federico Fellini, cambia tutto, gli mostra che i film possono racconta la vita, non sono solo storie di inseguimenti e cowboy.

La storia di Pupi Avati è anche quella delle grandi donne che l’hanno circondato e che hanno creduto nel suo sogno, dalla madre vedova, Ines, che ha venduto casa per aprire una pensione e avvicinarsi al centro della città per sostenere i suoi sogni, a Laura Betti che l’ha introdotto nel giro degli artisti che gravitavano in piazza del Popolo, portandolo alle cene con Moravia, Bertolucci e Pasolini, con cui poi ha scritto Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975).

Un alone di mistero circonda l’imprenditore che ha finanziato i suoi primi due film, un uomo incontrato al Bar Margherita che – come leggenda vuole – gli ha lasciato sedici assegni dal valore totale di 160 milioni di lire. L’opera prima di Pupi Avati è Balsamus, l’uomo di Satana (1968), la storia gotica e surreale di uno stregone. Balsamus (Bob Tonelli) – un chiaro riferimento al Conte di Cagliostro – è un ciarlatano, la gente si rivolge a lui credendolo capace di risolvere la sterilità, curare gli animali e creare elisir d’amore. Raccoglie attorno a sé una congrega di signore borghesi e, con la sua corte dei miracoli, vive in una grande dimora indossando abiti settecenteschi. Fisicamente incapace di amare la moglie, si suicida.

pupi avati

Ci sono già degli elementi tipici del cinema del regista bolognese: gli attori Gianni Cavina e Bob Tonelli, l’ambientazione bucolica e lo humor nero. In sala è un fiasco, un film approssimativo e atipico, pesante con qualche momento divertente e una colonna sonora disturbante, volutamente ossessiva. Si intuisce già la capacità di Avati di trarre il meglio dagli attori ed è apprezzabile il tentativo di catturarne i volti trasfigurati inseguendo suggestioni felliniane e pasoliniane.

Balsamus, l’uomo di Satana, resta una pellicola per cinefili appassionati e sognatori, amanti delle stramberie e dei misteri. Della sua opera prima, Avati dice: «essendo fortunatamente perduta, la possiamo considerare perfettamente riuscita, perché nessuno potrà mai vederla». Il film invece è talmente poco riuscito che Pupi si sente deriso dalla città intera, al bar lo prendono in giro e lui scappa a Roma. Quattro anni dopo, lo salva la generosità di Ugo Tognazzi. Se Avati è un uomo che ha fatto della sua umanità, delle debolezze portate addosso come medaglie, uno stile di narrazione e un accorciare le distanze con il pubblico, lo deve proprio a Tognazzi. L’attore, che ha recitato in due dei suoi film, si approcciava agli altri con una dichiarazione di debolezza, la prima cosa che raccontava di sé era un suo fallimento, anche molto personale e potevi essere autentico e rispondere con una tua debolezza, creando intimità e amicizia o restare spiazzato e perderlo.

Pupi Avati è un miracolo della provvidenza cinematografica, un sognatore che nella Bologna degli anni ’60 è passato dai bastoncini di pesce al cinema, dopotutto i sogni sono di chi li insegue fino alla fine (ne sa qualcosa Terry Gilliam). I film di chi si è arreso, dopotutto, non li ha visti nessuno.