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Alice Ambrogi e il suo cinema militante: “il corpo è politico”

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Alice Ambrogi, 24 anni, pensa che il cinema debba essere politico oggi più che mai, e se racconta storie a volte grottesche ed esasperate è per far capire a tutti che la realtà spesso è diversa da quello che sembra. Ha firmato la regia e la sceneggiatura di Farfalle nello stomaco, un cortometraggio grottesco che vede come protagonista Marcello FonteSPOGLIATI, documentario che narra le vicende della Kiki House of Windowsen e lo scenario della Ballroom italiana. Baby Moon Park, il suo lavoro finale alla RUFA, è distribuito da Première Film ed è stato selezionato in numerosi festival tra i quali il Giffoni Film Festival e Visioni Italiane.

Hai trovato nell’estetica grottesca la tua dimensione: quale percorso hai seguito per arrivarci?

L’idea per Farfalle nello stomaco è nata da un connubio insolito: da un lato avevo visto da poco Il pasto nudo di Cronenberg, dall’altro ero affascinata da una leggenda orientale che riguardava il mondo delle farfalle. Baby Moon Park invece è un progetto molto più personale, ho voluto raccontare qualcosa di me e delle persone a me care insieme a qualcosa di creato solo dalla mia immaginazione. Ho così dato vita a un mosaico di storie che, seppur esagerato, risultasse reale e credibile. In generale, il mio processo creativo inizia immaginando un personaggio, che poi studio a fondo per diventarne amica e conoscere tutto di lui: le abitudini, le fissazioni, le paure, i segreti, i sogni e i desideri, soprattutto quelli di cui si vergogna. Solo dopo averlo compreso appieno metto a fuoco la storia. Esaspero la realtà per renderla visibile agli occhi più distratti e annoiati. Questa esagerazione mi permette di catturare l’attenzione del pubblico, talvolta anche disturbandolo, svelando così aspetti della condizione umana attraverso una lente deformante che, paradossalmente, li rende più autentici.

SPOGLIATI è un documentario che narra le vicende della Kiki House of Windowsen e lo scenario della Ballroom italiana tra il 2021 e il 2023, spaziando tra Roma, Napoli e Milano. Cosa ti ha portato da Gian, Morgan, Sasha e Concetta e perché hai deciso di raccontare le loro storie?

Aver avuto la possibilità di girare un documentario che pone al centro le vite, le difficoltà di affermazione e posizionamento sociale della comunità LGBTQIA+, non è stato solo necessario ma doveroso. Ha significato poter fornire una testimonianza di come la conquista dei diritti non si attui solo attraverso lo schermo di un telefono, ma la si faccia camminando, performando, mettendo in scena un mondo parallelo in cui la lotta è forse superata, ma resta fondamentale come memoria storica e sociale. Non solo, con SPOGLIATI ho voluto evidenziare l’urgenza di rivendicare la proprietà che ognuno ha del proprio corpo inteso come strumento politico, performativo, fluido e indipendente con il quale si possono sovvertire le regole imposte da una società patriarcale ed eteronormativa che non è più possibile accettare. Le storie di Gian, Morgan, Sasha e Concetta sono l’emblema di questa urgenza. Ognun* di loro ha una storia complessa alle spalle, ognun* di loro è stat* vittima di hate crimes, ognun* di loro ha lottato incessantemente senza mai mollare, ognun* di loro ha trovato una rinascita e un senso di rivalsa all’interno della Ballroom, scoprendo una comunità forte e accogliente. Chi meglio di loro, allora, per raccontare questa storia?

Alice Ambrogi
Alice Ambrogi.

Preferisci creare un legame o mantieni una certa distanza dai soggetti dei tuoi lavori?

In quanto regista, ritengo essenziale sviluppare sempre un rapporto di amicizia basato sulla totale fiducia reciproca con i protagonisti delle storie che racconto. Per narrare una storia in maniera autentica e credibile è fondamentale che i soggetti si sentano a loro agio davanti alla telecamera. Prima di iniziare le riprese di un documentario occorre trascorrere del tempo con i propri soggetti, senza camere né troupe, imparando a conoscersi e sviluppando un rapporto intimo. Bisogna raccontarsi gradualmente e io devo a mia volta dare qualcosa: per guadagnare la loro fiducia devo aprirmi io per prima, mostrandomi vulnerabile e sincera. Solo così si può ottenere un dialogo trasparente e autentico quando le telecamere poi si accendono. Con i/le ragazz* della Kiki House of Windowsen non è stato difficile, ci siamo compresi fin dal primo momento in cui abbiamo iniziato a parlare. Credo che quello che ci legato di più è stato condividere lo stesso obiettivo, ma anche la stessa rabbia e sete di rivalsa. Avevamo tutt* il desiderio di urlare: “Siamo qui e non ce ne andiamo. Guardateci, notateci, rispettateci!”.

Ti senti più a tuo agio con la fiction o la non fiction?

È una domanda che ultimamente mi sono posta spesso. Devo ammettere, non senza vergogna, che quando ho iniziato il mio percorso non avrei mai immaginato di appassionarmi al documentario, che ritenevo un valido ripiego solo nell’eventualità di un fallimento nel cinema di finzione. Ero convinta che l’unica “essenza” del documentario fosse quella informativa ed educativa, ignoravo l’esistenza di una potente componente artistica, poetica e simbolica. Dire che mi sono ricreduta sarebbe riduttivo: barcollavo nella totale ignoranza di un luogo così ricco d’inventiva, così libero da ogni schema prestabilito, un mondo fluido e accogliente nel quale poter riversare la mia creatività.

Baby Moon Park è la storia di Violante, una giovane donna che lavora in un parco giochi e vive una crisi in seguito a un aborto. Ne racconti le varie le contraddizioni, il trauma e soprattutto le scelte. Pochissimi corti affrontano questo tema, soprattutto con il clima politico attuale che preferisce una narrazione a senso unico.

Quando ho iniziato a scrivere la storia di Violante, non sapevo ancora che avrei raccontato la storia di un aborto. La mia priorità era creare una narrazione che ingannasse lo spettatore, costringendolo a contraddirsi e a riflettere sui suoi pregiudizi. Volevo dar vita a un personaggio che al principio venisse etichettato come un mostro, qualcosa contro natura. Perciò dovevo trovare un espediente narrativo che portasse ogni mente benpensante a concordare con un giudizio così estremo. Viviamo in una società che ha un forte pregiudizio nei confronti delle donne che scelgono di non avere figli: quando una donna decide di non averne, viene spesso considerata incompleta o egoista poiché si allontana dall’idea convenzionale della femminilità. Così, ho deciso di creare Violante, una donna che odia suo figlio, o almeno questo è ciò che sembra. Con il progredire del corto, però, il pubblico si ritrova inevitabilmente a empatizzare con la stessa donna che pochi minuti prima aveva disprezzato, scoprendo che la realtà è più complessa. Alla fine si svela che Violante non ha mai avuto un figlio. A causa di una scelta molto difficile, ha perso il controllo e – forse per proteggersi da un dolore troppo profondo – si è distaccata dalla realtà. In questo modo conduco il pubblico a empatizzare ulteriormente con la protagonista: lo spettatore è costretto a rivalutare la propria opinione, trasformando colei che all’inizio sembrava un mostro nella vittima di una società giudicante e selettiva.

Alice Ambrogi Spogliati
Un’immagine da “Spogliati”.

«Madre è l’anagramma di merda» è una frase che pronuncia Violante parlando con l’amica Sharon.

Io e Clara Greco, l’attrice che interpreta Violante, abbiamo costruito insieme questo personaggio. Siamo partite dalla sceneggiatura per poi cesellare gli ultimi particolari durante le prove precedenti alle riprese. Ho scelto Clara per vari motivi: al tempo aveva poca esperienza sui set cinematografici e un’impostazione più teatrale, ma è comunque riuscita a indossare subito gli abiti di Violante dimostrando un talento sconcertante. Mi ricordo ancora una frase che mi ha detto in uno dei nostri primi incontri: «i figli non sono una proprietà, sono qualcosa di autonomo e distinto, a sé stante».  Ho capito che Clara era Violante e che la mia ricerca era finita.

Violante indossa una t-shirt che recita: Are you in a film or in reality? Citi Godard, un po’ è uno scherzo e un po’ è metacinema?

La scelta della maglietta è avvenuta quasi per caso. La costumista me l’ha proposta e io ho accettato, l’ho trovata buffa e adatta. Solo dopo, a corto non solo girato ma anche post-prodotto, mi sono resa conto del significato simbolico della scritta. Violante sta male, persa in un delirio che non le permette di distinguere la realtà dalla finzione. Quale maglietta poteva essere più appropriata per esprimere un concetto simile? L’obiettivo del corto è proprio quello di invitare lo spettatore a essere più clemente e paziente nell’esprimere un’opinione, perché spesso la realtà non è come sembra. E poi, cos’è la realtà? Quali sono i parametri per riconoscerla?

Il tuo lavoro sembra essere soprattutto politico, militante: parli di aborto, dell’abolizione del Ddl Zan, di salute mentale, di diritti. Credi che sia possibile fare cinema politico oggi?

Ho sempre considerato il cinema non solo come un mezzo di intrattenimento, ma anche e soprattutto come uno strumento di espressione accessibile a tutti, indipendentemente dall’estrazione sociale e dal livello di istruzione. Il cinema offre la possibilità di condividere pensieri e idee, dunque quale strumento migliore per parlare di diritti? Credo che oggi più che mai sia non solo possibile ma necessario fare un cinema militante, affrontare temi legati all’urgenza di un cambiamento politico e sociale. Credo sia più facile farlo in un contesto indipendente, dove non ci sono vincoli e si è liberi di esprimere le proprie idee senza scendere a compromessi. Molti registi hanno paura di compromettere la propria carriera e, da un punto di vista meramente egoistico, è sicuramente più facile chinare la testa e restare in silenzio. Non nego che un po’ invidio chi riesce a farlo e a essere in pace con sé stesso, è qualcosa che io non sono mai riuscita fare.

Hai collaborato spesso con Luca Martella, mostrando grande attenzione verso la musica. Quanto è importante l’originalità per te?

Per me la musica e il suono in generale sono la colonna portante del cinema. Rappresentano quell’elemento senza il quale il cervello umano faticherebbe a dissociarsi dal mondo reale e lasciarsi trasportare in un nuovo universo. L’importanza dell’originalità della colonna sonora dipende dalle esigenze narrative del progetto su cui sto lavorando: ad esempio in SPOGLIATI, trattandosi di un documentario che racconta di una comunità, sarebbe stato fuori luogo alterare le musiche che hanno contribuito a formarne la cultura. Ho collaborato con Luca come sound designer su ogni mio progetto e in Baby Moon Park si è occupato anche della creazione delle musiche originali. Abbiamo lavorato a lungo su questo aspetto: inizialmente faticavamo a trovare il giusto equilibrio tra le mie influenze post punk e le esigenze narrative del corto che richiedevano invece qualcosa di più mistico e trascendente, capace di guidare il pubblico attraverso l’arco narrativo della storia. Il compromesso è stata la traccia con cui il corto si chiude, fortemente ispirata a Inno del perdersi dei Verdena. In generale, credo che la parola chiave in una collaborazione artistica sia proprio questa: empatia. Senza, è impossible lavorare insieme in modo efficace.

Quando lavori ai tuoi progetti hai un target preciso in mente?

Il pubblico che preferisco raggiungere e con cui ho un riscontro più significativo sono le persone che incontro per strada, al ristorante, al bar, in piazza, la gente comune. Con SPOGLIATI il mio obiettivo era raggiungere i membri della comunità LGBTQIA+ che sono quotidianamente vittime di oppressione, hate crimes, discriminazione. Volevo raggiungere le persone che hanno bisogno di una comunità per sentirsi accettate e protette e che forse non sanno nemmeno che ne esiste una per loro. Per questo motivo ho proiettato il film in ogni centro sociale e Circolo Arci che si è mostrato interessato, soprattutto per raggiungere i giovani.

Fra poco uscirà il tuo nuovo progetto, un docufilm in collaborazione con il dipartimento di salute mentale dell’ASL Roma 1.

Con il dottor Gianluigi Di Cesare ci siamo posti l’obiettivo di esplorare il delicato tema della salute mentale nei giovani, sfidando i pregiudizi sociali e combattendo le narrazioni erronee che spesso vengono associate all’argomento. Nel film affrontiamo diversi temi: dagli ostacoli che nascono dalla mancanza di comunicazione intergenerazionale alla paura del giudizio sociale e molto altro ancora. A mio avviso, una delle particolarità di questo progetto è che sia stato realizzato interamente da under 30. I protagonisti del film hanno un’età che spazia dai 16 ai 23 anni e la fantastica squadra che ho formato è altrettanto giovane, nessuno di noi supera i 27 anni. La trovo una cosa bellissima.

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La fabbrica italiana dei cartoons

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Negli ultimi anni l’industria dell’animazione ha registrato un notevole successo commerciale, che però ha portato anche a una sovrapproduzione. Con un numero sempre maggiore di cartoons rilasciati ogni anno, il rischio è quello di saturare il mercato e ridurre l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico per le nuove uscite.

Perciò sia gli studi cinematografici che i creativi si trovano a dover bilanciare la domanda del pubblico con la necessità di mantenere la qualità e l’originalità delle loro produzioni. Anche in Italia.

Secondo l’Osservatorio europeo dell’audiovisivo, nel nostro Paese l’animazione è in crescita, anche grazie alla Legge Cinema che ha permesso di fissare il tax credit al 40%, riportando la proprietà intellettuale nelle mani delle produzioni italiane, che prima erano costrette a cederle ai coproduttori stranieri. Da noi l’animazione ha trovato terreno fertile soprattutto, ma non solo, nel campo della serialità e, se prima si guardava ai rating televisivi, adesso è fondamentale la sentiment analysis: le produzioni cercano di percepire attraverso social, siti e canali digitali l’effettivo gradimento dei prodotti e delle rispettive campagne di comunicazione.

A ogni modo, il panorama italiano di oggi è caratterizzato da una vivace comunità di animatori, registi e artisti che lavorano sia nell’ambito del lungometraggio che delle serie tv animate. Il successo di film come La gabbianella e il gatto, Leo da Vinci: Missione Monna Lisa, Yaya e Lennie – The Walking Liberty e Mary e lo spirito di mezzanotte ha dimostrato che c’è un mercato per il cinema d’animazione italiano, e numerosi talenti emergenti o affermati stanno collezionando riconoscimenti a livello internazionale. Nel caso della serialità animata, invece, il prodotto più famoso resta il Winx Club, iconica serie animata italiana trasmessa in oltre 150 paesi; creata da Iginio Straffi e prodotta dalla casa di produzione Rainbow, la serie ha debuttato nel 2004 e da allora ha generato un vasto franchise che include serie tv, film, giocattoli e molto altro ancora. Sono tante le medie realtà italiane del settore, come Mondo Tv, creatrice di La famiglia Passaguai, Sissi – La giovane imperatrice e Pocoyo, Gruppo Alcuni, che ha dato vita a Lupo Alberto, Pet Pals e Leonardo, e la divisione di Rai Ragazzi, con Geronimo Stilton e Il piccolo principe. Sono sempre di più anche gli studi indipendenti che contribuiscono ad arricchire il panorama, come Lanterna Magica per i corti e le serie animate, Studio Bozzetto & Co del famoso animatore Bruno Bozzetto e le napoletane MAD Entertainment, fondata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella, con il loro premiatissimo Gatta Cenerentola di Alessandro Rak, Marino Guarnieri, Ivan Cappiello, Dario Sansone, e Uanèma Entertainment, con Fiammetta di Nicola Barile, che celebra uno degli amori più famosi della letteratura italiana, quello tra Fiammetta e Boccaccio. Titoli, questi ultimi, che mostrano l’importanza dell’ancoraggio al territorio e alla cultura locale.

Diversity strategy

Gli eventi e i festival che forniscono dei report dettagliati sull’andamento dei contenuti animati in Europa sono numerosi: il CartoonNext di Marsiglia, il Cartoon Movie a Bordeaux, il Cartoon Springboard di Madrid e il Cartoon Forum di Tolosa. Si tratta solo di alcuni dei panel del settore, insieme a quelli organizzati dai grandi festival dell’animazione come Imaginaria e Annency. Ed è dal 2022 che i dibattiti ospitati dal CartoonNext evidenziano fra l’altro la necessità di stabilire nuove coproduzioni internazionali, per dar vita a un nuovo modello europeo, solido abbastanza da competere con quelli dominanti: il modello giapponese e quello americano.

animazione in Italia

È stato proprio Luca Milano – che sarà direttore di Rai Ragazzi con mandato fino al 2025 – a spingere sull’importanza del lavoro di squadra. Infatti oltre il 50% dei prodotti animati italiani coinvolge una coproduzione francese (Lupin Stories), tedesca (Leo Da Vinci) o spagnola (Annie & Carola). Questo tipo di coproduzioni dovrebbe indirizzare le aziende e i talenti verso un obiettivo comune, abbandonando una certa forma di protezionismo culturale che non ha fatto altro che nuocere al settore, impendendo al mercato europeo di diventare competitivo sul piano mondiale. Secondo Milano, un altro passo importante sarebbe stabilire una nuova forma di alleanza tra i brodcaster nazionali e i produttori indipendenti, ponendo fine a una rivalità interna del mercato che finisce per danneggiare entrambi.

Più di recente invece, nel corso dell’ultimo CartoonNext, il tema centrale è stato quello della diversity e dell’inclusività nei contenuti per bambini, in un’ottica critica verso la meccanizzazione di elementi applicati forzatamente, al solo scopo di far risultare il prodotto al passo con le nuove aspettative dei consumatori. La diversity infatti è un punto focale del nuovo dibattito sulle produzioni animate, ma è necessario che non sia una lista da spuntare per far approvare un contenuto, ma un’attitudine, parte della missione aziendale. La diversità e l’inclusione non sono questioni risolvibili solo ampliando il ventaglio etnico dei personaggi o evitando un certo tipo di umorismo; è una tema di accessibilità dei contenuti, di costante aggiornamento e revisione della diversity strategy, ma anche di lavoro fatto dietro le quinte nei team stessi di produzione.

Un tipo di impegno che, nel loro piccolo, tentano di portare avanti con successo molti giovani talenti dell’animazione italiana ed europea. Federica Carbone e Anita Verona ne sono un esempio con il loro Astrid and the School of Astronauts: Astrid è una bambina albina di sette anni che vuole fare l’astronauta e il cartone animato mostra una figura femminile in grado di promuovere con naturalezza lo studio delle discipline STEM da parte delle bambine, solitamente escluse o scoraggiate nell’intraprenderle. La serie spagnola Sex Symbols, di Paloma Mora, accosta invece edutainment, sessualità e affettività. I quattro protagonisti Carla, Mia, Max e Hugo, stanno per affrontare l’adolescenza e devono venire a patti con i cambiamenti del proprio corpo. La serie è supportata da Save the Children e, con la consulenza di medici e psicologi, il cartone animato affronta temi come il desiderio, l’orientamento sessuale, l’identità di genere e le malattie sessualmente trasmissibili.

Nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle questioni sociali attraverso l’animazione, la più grande difficoltà sta però nelle tempistiche: i minutaggi sono sempre più ridotti e ci si ritrova a dover affrontare e risolvere un tema complesso anche in un paio di minuti, correndo il rischio di semplificare troppo. Un’altra difficoltà risiede nella scelta di contenuti controversi o di temi sgradevoli o spaventosi, come la pandemia, l’estinzione delle specie animali a rischio, il riscaldamento globale o il genocidio, senza creare troppa distanza con lo spettatore o cadere vittime della censura. L’animazione deve sempre essere un terreno di incontro e i professionisti devono essere liberi e consapevoli, pronti a prendersi la responsabilità di cosa portano sugli schermi.

Rodari e Goldrake

Insomma, poiché è indubitabile che i cartoni animati sono elementi radicati nella nostra cultura, vanno padroneggiati in modo cosciente. Già negli anni Ottanta Gianni Rodari dichiarava in un articolo di schierarsi «dalla parte di Goldrake», e invitava gli spettatori a non focalizzarsi solo sugli aspetti eventualmente negativi dei cartoni, ma a riconoscere e comprendere i contenuti entrati a far parte della vita di milioni di ragazzi, per ampliare l’esperienza dei bambini e perché non restasse circoscritta o isolata. In quei disegni innocenti, colorati, pieni di fascino e mistero spesso si nasconde un significato insondabile, perché il segreto di un prodotto destinato a diventare un classico – anche per l’infanzia – non sta nella riduzione della complessità ma nella stratificazione del senso, che non ne riduce l’accessibilità ma ne democratizza la comprensione.

Una versione più estesa di questo articolo è apparsa su Fabrique du Cinéma n. 43. Abbonati qui per restare sempre aggiornato sulle novità del cinema italiano. 

 

 

 

Mariacarla Norall costruisce mondi fantastici

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Regista, sceneggiatrice e scenografa di animazione di origine italo-inglese, Mariacarla Norall inizia la sua carriera studiando architettura a Manchester per poi trasferirsi a Napoli e lavorare alla MAD Entertainment, la factory creativa e produttiva fondata a Napoli nel 2010 e amministrata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella. Alla MAD, insieme a un team fluido e affiatato, lavora per vari reparti ai film Gatta Cenerentola, Yaya e Lennie – The walking Liberty e alla serie animata Food Wizards disponibile su Netflix Italia.

Mariacarla Norall diventa una costruttrice di mondi fantastici e con il suo talento si affianca a una nuova generazione di giovani donne che si stanno facendo strada nel mondo dell’animazione 2D e 3D. Il suo primo corto animato Lizzie and the Sea, prodotto da MAD e presentato nella sezione International Showcase al Cartoons on the Bay 2023, ne mostra tutta la capacità narrativa: gli sforzi che la piccola Lizzie compie per affrontare la paura del mare sono accompagnati da un lavoro compositivo pieno di grazia che fa presagire un brillante futuro.

Come sei arrivata all’animazione?

Ho studiato architettura all’università di Manchester ed è stato un percorso di laurea bellissimo. Purtroppo, ero meno interessata alle leggi della fisica e alle restrizioni delle normative di legge… insomma, a tutto ciò che rende reale e fruibile un progetto. Eppure, per come la vedo io, tutto ciò che mi ha entusiasmato della laurea in architettura, lo ritrovo nel mestiere che faccio oggi. Per me il mondo del cinema e dell’animazione, in particolare della scenografia, è un rifugio nel quale posso e devo vivere come se la mia fantasia fosse realtà. Certo, ci sono restrizioni anche qui – perché anche l’immaginario più incredibile ha bisogno di una logica per poter apparire credibile agli spettatori – ma alla fine dei conti passo le mie giornate a creare luoghi e situazioni che… in realtà non esistono! Mi piace dire che faccio l’architetto delle cose inventate.

Al centro del tuo corto di esordio, Lizzie and the Sea, c’è il tema della paura e di come rischia di bloccarci, mentre è appena l’inizio di un’incredibile avventura trasformativa.

La paura è un sentimento che conosciamo tutti. Anche se a volte ci aiuta a proteggerci dal dolore, spesso non fa che alzare un muro tra le abitudini che ci sono familiari e le nuove entusiasmanti esperienze di cui potremmo godere se solo avessimo il coraggio di affacciarci all’ignoto. L’ironia della sorte vuole che Lizzie, impaurita dell’acqua, abiti proprio in riva al mare. La sua fobia le impedisce di godersi i piccoli grandi momenti di gioia come il bagno a mare o schizzarsi in acqua con il fratello. Per affrontare la paura, suo malgrado, Lizzie deve tuffarsi letteralmente nell’ignoto, che si rivela meno terribile di quanto pensava.

“Lizzie and the Sea”.

La produzione è di Mad Entertainment: mi racconti del rapporto che hai con loro e del lavoro che hai svolto nel corso del tempo da Gatta Cenerentola fino a Lizzie and the sea?

Sono con MAD ormai da otto anni. Dopo la laurea ho lavorato in uno studio di render architettonici a Londra, ma ero alla ricerca di lavori in ambito cinematografico, pur non avendo ancora nessuna esperienza nel settore. Un amico di Napoli mi suggerì di fare domanda alla MAD, che in quel momento cercava una segretaria di produzione per il film Gatta Cenerentola. Non era il ruolo artistico a cui ambivo, ma pensai che potesse essere un buon modo per affacciarmi al mondo dell’animazione, quindi nel giro di pochissimo lasciai lavoro e casa a Londra, subaffittando la mia stanza e pensando di fare un’esperienza lavorativa a Napoli di solo pochi mesi. Otto anni dopo eccomi ancora qui! A poco a poco sono passata dalla produzione al concept e set design e infine alla regia. Con gli amici scherzo sul fatto che sono l’unica persona che ha lasciato l’Inghilterra per trovare lavoro a Napoli! Alla MAD mi sono state concesse delle libertà che non avrei trovato altrove, come sperimentare ciò che mi incuriosiva ma che non faceva parte del mio ruolo, per esempio concept art, post produzione e sceneggiatura. Così ho potuto imparare sotto l’ala dei miei colleghi, in particolare del regista Alessandro Rak che ha scelto di includermi nella squadra artistica e delle scenografe, sempre generose nel condividere con me il loro sapere.

A livello tecnico quali programmi o tecniche (digitali o meno) preferisci usare in questo momento?

Il primo passaggio di qualsiasi idea per me avviene sempre a mano, anche in forma di un incomprensibile sketch a penna bic. In un secondo momento mi aiuto a visualizzare gli spazi creando un’immagine di pittura/collage digitale in Photoshop. Oppure creando delle forme in 3D, con Blender, un software open source. Tendo però a preferire il mondo visivo dell’animazione in 2D, motivo per cui per Lizzie and the Sea siamo stati attenti a creare personaggi, set e metodi di render che potessero avere come effetto finale un risultato apparentemente in 2D.

Quali personalità del cinema tradizionale e d’animazione ti ispirano?

Apprezzo moltissimo il lavoro di Cartoon Saloon, lo studio di animazione irlandese che ha creato film come Wolfwalkers e Song of the Sea. Quest’ultimo, diretto da Tom Moore, è stato di grande ispirazione visiva per Lizzie and the Sea. Adoro sia la sua scelta di raccontare storie legate alla mitologia del luogo in cui abita, sia l’impasto visivo di colori e texture che rende corposo e fiabesco ogni frame del film. Sono poi una grande fan di Wes Anderson, in particolare del suo modo di inscenare film live action come se fossero rappresentazioni teatrali: ho sempre pensato che sarebbe divertentissimo lavorare alle scenografie per un suo film. Adoro anche il suo modo di sottolineare e valorizzare gli aspetti più strampalati dei personaggi, è un’ode all’eccentricità che rende ognuno di noi unico e umano.

C’è un aneddoto emblematico che ha segnato il tuo percorso?

Un aneddoto che mi sta molto a cuore risale a quando vincemmo il premio per i Migliori Effetti Speciali ai David di Donatello per Gatta Cenerentola. Registi e produttori del film erano nel pubblico per seguire la premiazione, mentre il nostro team artistico aveva deciso di incontrarsi quella sera e aprire lo studio in via del tutto eccezionale, per guardare tutti insieme la trasmissione. Ordinammo delle pizze e scrivemmo un messaggio a uno dei quattro registi – Marino Guarnieri – con una lunga lista dei nostri nomi per chiedergli di leggerli sul palco se avessimo vinto. Un gesto che, col senno di poi, sfidava ogni regola della scaramanzia, ma che si rivelò di buon auspicio perché poco dopo venne annunciata proprio la nostra vittoria. L’emozione e l’adrenalina nel ricevere quel premio raggiunse il suo apice quando Marino sfilò dalla tasca il cellulare e, in prima visione, ci elencò uno a uno come promesso.

Mariacarla Norall
Mariacarla Norall.

Hai partecipato a molti festival, come Giffoni e Cartoons on the Bay. Com’è interagire con il pubblico?

Non immaginavo che partecipare ai festival mi sarebbe piaciuto così tanto! Ogni volta che si conclude un festival torno a casa con un’energia rinnovata. Il Giffoni, in particolare, è un’esperienza che non mi scorderò di certo. In inglese usano l’espressione to dive in at the deep end, che letteralmente vuol dire “tuffarsi dove non si tocca”, ovvero trovarsi in una situazione completamente nuova senza nessuna preparazione, e per me il Giffoni è stato così! Alla mia prima proiezione sono entrata in un tendone pieno di migliaia di bambini, con un livello di decibel inimmaginabile, e mi chiedevo come avrebbero fatto a seguire i corti. Ma li avevo sottovalutati: al termine si è formata una lunga fila di bimbi con le domande più disparate, alle quali gli altri registi e io ci siamo divertiti moltissimo a rispondere. Negli ultimi festival è stato indubbiamente incoraggiante ricevere complimenti e approvazione da altri professionisti del settore, ma nulla mi ha entusiasmata tanto quanto vedere interesse e curiosità nei volti dei bambini che hanno visto il mio corto.

A cosa stai lavorando in questo momento e a quale target pensi di rivolgerti nei tuoi prossimi progetti?

Ho tante idee che mi frullano in testa per nuovi corto/mediometraggi, anche se credo che a questo giro il target non saranno i bambini (per loro ho in mente un libro illustrato di racconti, ho già delle bozze). Mi sento molto ispirata da ciò che mi circonda: abitare a Napoli, e più specificamente nel mio quartiere, è come avere dei biglietti in prima fila a teatro. Gli spettacoli sono quasi quotidiani, basta affacciarsi al balcone per vedere inscenate commedie, drammi e, purtroppo, anche tragedie. Ma anche la mia personale storia familiare è fonte di grande ispirazione. Crescere a cavallo di due culture, figlia di due famiglie che competono tra loro per ricchezza di aneddoti strampalati e fuori dal comune, è una ricchezza che un giorno mi piacerebbe poter raccontare attraverso il cinema. Nel frattempo sto lavorando ai concept e al set design del lungometraggio Sono ancora vivo prodotto da MAD e diretto da Roberto Saviano, presentato al Cartoon Movie 2023. In questi giorni il mio pane quotidiano sono le planimetrie, per cui si può dire che la mia laurea in architettura è tornata pienamente a dare i suoi frutti e, come mi auguravo, sono diventata architetto delle cose inventate.

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MalaFede, la Madonna che ama la comunità LGBT

Il mito del doppio, la sacralità popolare che ricorda un mondo nudo, senza categorie. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, la comunità LGBT campana compie un pellegrinaggio all’abbazia di Montevergine, sul Monte Partenio, per omaggiare la Madonna nera la cui icona è conservata in una cappella del santuario. Proprio in quella cappella, dove si svolgono le danze e i rituali guidati dai canti di Marcello Colasurdo, artista e e mediatore tra la comunità e il divino, si riuniscono i “femminielli”, né maschi né femmine, i più autentici e ancestrali custodi di un culto popolare che celebra la sacralità della natura umana, della rinascita rituale e della Grande Madre. MalaFede è un documentario piccolo ma sconfinato, aperto come un respiro fatto a pieni polmoni, vibrante di colori e energia. Una regia collettiva per un rito collettivo, un esordio fresco e allo stesso tempo meditato, che ha il sapore del raccordo ideale. Il successo di MalaFede mostra a pieno i frutti del lungo lavoro di Chiara Borsini giornalista e sceneggiatrice, Marialuisa Greco autrice e producer freelance e Paolo Corazzo cinematographer e direttore della fotografia. Un’unione rara che muove come un’unica mano e un unico sguardo un progetto che ha fatto della collettività il suo punto di forza.

È stata la vostra prima volta alla regia, raccontatemi come avete vissuto questa esperienza.

Malù: Mi sono sempre occupata della parte autoriale dei progetti, poi il lavoro mi ha portata a sperimentare altri ruoli, così sono diventata una producer. La regia era un percorso che prima di MalaFede non avevo mai preso in considerazione. Lavorare insieme, in una regia collettiva, ci ha permesso di essere sicuri delle nostre scelte e superare qualche dubbio dovuto all’inesperienza. Dalla nostra parte poi, avevamo molti riferimenti cinematografici in comune, un gusto estetico condiviso che ci ha portati verso un risultato apprezzato con soddisfazione da tutti e tre.

Paolo: Ho la fortuna di collaborare ogni giorno insieme a vari registi su progetti e clienti sempre diversi. In pubblicità il risultato e la crescita professionale seguono un percorso fatto da modalità, tempistiche e obbiettivi estetici differenti. La regia di MalaFede per me è stata prima di tutto un dialogo condiviso totalmente diverso dalle altre mie esperienze.

Chiara: Avere la possibilità di condividere questa esperienza alla regia con Marialuisa e Paolo ha sicuramente rappresentato un valore aggiunto al nostro lavoro, sia perché siamo tutti e tre portatori di competenze e sensibilità diverse, sia perché il rapporto umano, oltre che professionale, che ci ha sempre unito ha favorito una crescita durante la quale abbiamo imparato molto gli uni dagli altri. Le produzioni indipendenti conoscono sempre momenti che costituiscono delle sfide e avere la fortuna di affrontarli con persone con cui abbiamo scelto di collaborare per affinità elettive è una grande fortuna.

MalaFede
La Madonna di Montevergine.

Com’è nata l’idea di MalaFede? Perché questo titolo?

Chiara: L’idea è nata sei anni fa dalla lettura di Mamma Schiavona. La madonna di Montevergine e la Candelora. Religiosità e devozione popolare di persone omosessuali e transessuali di Monica Ceccarelli. Il saggio analizza in prospettiva storico-antropologica la devozione, la festa e il conflitto con l’autorità religiosa della comunità campana dei femminielli. Anche La pelle di Curzio Malaparte è stato un testo illuminante per comprendere la figura del femminiello nella cultura partenopea e, potendo contare sulla conoscenza del territorio di Marialuisa che è di origini campane, abbiamo deciso di fare esperienza diretta del pellegrinaggio. Dal 2017 abbiamo partecipato alle celebrazioni della Candelora, che si sono poi purtroppo interrotte per un paio d’anni durante la pandemia. Abbiamo compiuto il pellegrinaggio insieme ai fedeli, danzato con loro, abbiamo condotto molte interviste e raccolto decine di ore di girato. Ci sono voluti anni per dare a MalaFede la forma e il respiro che ha oggi. Inizialmente volevamo farne un lungometraggio che superasse i confini di quel territorio, poi, in fase di pre-montaggio, grazie al supporto della nostra video-editor Giulia Baciocchi, abbiamo spostato il focus del racconto interamente sulla dimensione di Montevergine, tenendo da parte altri elementi della nostra ricerca per progetti futuri.

Malù: Conoscevo la figura del femminiello e alcuni suoi rituali, come la tombola e la “figliata”, il parto del femminiello, al quale mio padre aveva avuto la fortuna di assistere. Il titolo poi fu un’illuminazione: una sera ero con alcune amiche, tra di noi ci chiamavamo “Malefemmine” e, mentre parlavo della difficoltà di trovare un nome al documentario, venne fuori, come fosse un gioco, il nome “MalaFede”. Quel titolo l’ho sempre immaginato con un punto interrogativo: è davvero una mala fede, una cattiva fede, quella di una comunità, emarginata da secoli, che si è costruita una identità religiosa diversa da quella ufficiale ma con gli stessi princìpi?

La scrittrice e docente di Letterature comparate Tiziana de Rogatis ha scritto che Napoli è la città del limen, della soglia, della sospensione tra temporalità, codici e generi opposti. Sostiene che la sua eccentricità si fonda proprio sull’essere una «città ermafrodita e ibrida, femmina e maschio» arcaica e contemporanea.

Chiara: Non potrei essere più d’accordo con questa definizione della cultura partenopea. Nel documentario, Marcello Colasurdo e Ciro Cascina sono stati capaci di rendere questo concetto in maniera esaustiva con la metafora della sirena Partenope – metà donna e metà pesce. Ermafrodita è Napoli ed ermafroditi sono i sacerdoti del tempio di Cibele – secondo la narrazione leggendaria di quel luogo –  sulle cui ceneri sorge oggi il santuario di Montevergine. È straordinario che questa dualità sia un elemento fondativo dell’identità di quel territorio, di cui il femminiello, né uomo né donna, rappresenta una figura iconica.

Malù: Credo che l’aspetto più sorprendente della cultura partenopea sia la capacità di abbracciare tutte queste apparenti contraddizioni: Napoli è una città che accoglie tutte le diversità. Abbiamo incontrato persone che incarnano perfettamente questa caratteristica, persone che si sentono accolte e ascoltate da Mamma Schiavona e che a loro volta accolgono e ascoltano chiunque sia interessato alla loro storia. Un’apertura verso l’altro che è talmente insita nella tradizione che può resistere a qualsiasi tipo di cambiamento.

Più che un set era una festa, era vita e gente.

Chiara: Sì è vero! Siamo stati accolti da subito come parte della “paranza” (famiglia) e abbiamo vissuto appieno l’atmosfera di festa che caratterizza quel 2 febbraio tanto atteso dalle comunità locali. Uno dei momenti per me più significativi delle riprese è stato quando Marcello Colasurdo ci ha aperto la porta di casa sua, permettendoci di entrare in quell’incredibile mondo caotico, ingombro di reliquie e pieno di vita che era il suo privato. Ci ha fatto il caffè, ci ha raccontato momenti della sua biografia che in parte sono diventati materiale prezioso per il nostro documentario, ha cantato per noi. Di tanto in tanto venivamo interrotti dalla voce di un vicino, qualcuno che passava a trovarlo, a portargli qualcosa in dono, Marcello era lo sciamano della sua comunità. E MalaFede, a qualche mese dalla sua scomparsa, assume per noi ancora più valore, è la sua ultima testimonianza, il ricordo più autentico che abbiamo di lui.

MalaFede
Marcello Colasurdo.

I protagonisti, Marcello Colasurdo e Ciretta, sono molto carismatici. Come avete lavorato con loro e come avete gestito l’essere parte della festa, catturarne i momenti senza turbarne lo svolgimento?

Chiara: Marcello e Ciretta ci sono stati presentati da alcune delle persone con cui avevamo compiuto il pellegrinaggio il primo anno e fin da subito ci è sembrato che incarnassero pienamente lo spirito di MalaFede.   Sono persone da sempre abituate alla visibilità mediatica ma la nostra ricerca voleva andare più in profondità, oltre l’aspetto meramente folkloristico dell’evento religioso “fuori dalle righe” e questo approccio ci ha ripagato. La narrazione sul rapporto tra identità e religione, così ben raccontato da Ciretta, è diventata il filo conduttore della nostra ricerca negli anni. Ci interessava capire come venivano vissute dai fedeli le contraddizioni tra religione e spiritualità, tra la storica apertura all’accoglienza di tutte le diversità connaturata e celebrata in quel territorio e le resistenze di alcuni esponenti dell’istituzione religiosa, avvenute in passato. Come convivono in quel luogo il silenzio solenne del santuario e il ritmo cadenzato delle tammorre, il rito cattolico e quello pagano.

La vostra è stata una regia agile, libera, perfetta per adattarsi a un contesto dinamico e mutevole. Ma è stata anche parte di un lavoro virtuoso, fatto di pazienza e lunghe attese. In cosa sentite di aver investito maggiormente?

Chiara: L’estetica della camera a spalla e l’agilità nel comporre il frame ideale ci hanno permesso di avvicinarci ai nostri soggetti senza compromettere la loro spontaneità. In situazioni come le interviste, abbiamo scelto di evitare l’impiego di fonti di luce, a meno che non fosse strettamente necessario. Questo approccio ha richiesto tempo e pazienza ed è proprio il tempo l’elemento del nostro lavoro in cui abbiamo deciso di investire di più. Il tempo concede una maggiore coscienza nella composizione dell’inquadratura, sempre molto complicata in situazioni caotiche e affollate come il pellegrinaggio e le celebrazioni per la Candelora.

Trovo che sia stato fatto un accurato lavoro narrativo anche al montaggio, tanto è vero che è impossibile non notarne l’armonia compositiva.

Paolo: Il lavoro di montaggio svolto di Giulia Baciocchi è stato l’ultima spinta per la chiusura del progetto. L’intervento e la prospettiva di un occhio competente e esterno a tutto il processo di produzione filmica è stato fondamentale per dare a MalaFede il taglio narrativo che ha oggi. Abbiamo lavorato con lei a distanza, poiché tutti viviamo in città diverse d’Italia e la pandemia rendeva complicato qualsiasi spostamento, quindi ogni incontro, confronto o condivisione doveva avvenire online. Nonostante le difficoltà, Giulia è riuscita a gestire una vasta quantità di materiale, cogliendo pienamente l’idea che avevamo in mente, aggiungendo il suo sguardo, poetico e musicale.

Che progetti avete per il futuro? A cosa state lavorando?

Chiara: MalaFede è la sintesi di un lavoro durato anni, che ci ha condotto in altri luoghi, in altri contesti religiosi e culturali, lungo il fil rouge che per noi è sempre stato il tema del rapporto tra identità, spiritualità e religione. In questo momento abbiamo in cantiere un’idea che è nata proprio durante le riprese di Malafede e che abbraccia le stesse tematiche ma in un contesto socio-culturale diverso, nel Nord Italia. È la storia di Don Franco, sollevato dal suo ministero poiché officiava (e tuttora officia) matrimoni tra coppie omosessuali ed è investito dalla sua comunità di un ruolo di guida spirituale nonostante non sia più formalmente un sacerdote. Parallelamente, tutti e tre portiamo avanti altri progetti: Paolo sta realizzando un documentario su Paolo Olbi, artigiano della carta stampata a Venezia e io mi sto dedicando alla scrittura, alla drammaturgia e alla realizzazione di progetti in teatro. Mentre Marialuisa sta lavorando alla produzione di un documentario d’inchiesta e alla scrittura del suo prossimo progetto documentaristico.

Il true crime non è mai abbastanza

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Al confine tra letteratura e giornalismo, tra narrazione e inchiesta, nel giro di pochi anni il true crime è diventato uno dei territori narrativi più interessanti della cultura pop contemporanea.

Secondo i dati dell’Osservatorio Agicom la cronaca nera è il tema più trattato dalle pagine social e dalle testate giornalistiche. Se da un lato consumiamo ossessivamente queste storie, dall’altro siamo stressati dai contenuti violenti che digeriamo senza elaborarli, vittime della compassion fatigue. Ma nel true crime invece li elaboriamo, lasciamo entrare il male e lo interroghiamo, lo osserviamo da una distanza di sicurezza mediato da altri. Non si è mai trattato di un genere uniforme, il tono poteva variare dal sensazionalista allo spirituale fino al didattico, ma nonostante i penny dreadful e i tascabili dalle copertine schizzate di sangue, l’ideatore riconosciuto del true crime è Truman Capote, autore di A sangue freddo (1966), il resoconto del quadruplice omicidio della famiglia Clutter nel Kansas del 1959. E pensare che per gli scrittori e i critici dell’epoca era uno scandalo che uno scrittore serio si dedicasse a un romanzo-verità, a quello che Norman Mailer definì un «fallimento dell’immaginazione». Tuttavia il true crime vero e proprio – che combina il racconto di un omicidio con la ricostruzione di tipo investigativo – nasce e si sviluppa con il giornalismo moderno e in parallelo con i progressi nell’ambito della scienza forense.

Con l’arrivo in televisione il genere raggiunge picchi mai visti prima, in Italia con Chi l’ha visto? o Storie maledette di Franca Leosini, virali anche sui social, per approdare poi sui nuovi media: podcast, videocast, docu-serie e serie tv. L’onda d’interesse parte tra il 2014 e il 2015 negli Stati Uniti con il podcast Serial della giornalista Sarah König e con la serie Making a Murderer di Netflix. Verso il 2017 arriva sui nuovi media italiani anche grazie al giornalista Pablo Trincia con il suo Veleno, il podcast sul caso dei “diavoli della Bassa modenese” e più di recente con Dove nessuno guarda – Il caso Elisa Claps prodotto da Chora Media per Sky e SkyTg24. Sono tanti i giornalisti e scrittori rinomati a essersi lanciati sulle piattaforme audio, come Stefano Nazzi, scrittore ideatore e voce indimenticabile di Indagini de Il Post e autore de Il volto del male (Mondadori, 2023). La passione per il genere ha attirato anche moltissimi creator su piattaforme come Youtube e Twitch, dove la più ascoltata (e vista) è Elisa De Marco, nota come Elisa True Crime. Non restano indietro le piattaforme VOD, con docufilm e docuserie incentrare su casi di crimine realmente accaduti in Italia, come Vatical Girl – La scomparsa di Emanuela Orlandi di Mark Lewis.

Ogni cultura ha le proprie storie di crimini e misteri irrisolti, così i contenuti rispettano perfettamente la formula glocal del successo targato Netflix, non  a caso la piattaforma più attiva nella produzione e distribuzione di questo genere. Dopo tanti casi americani arrivano infatti anche quelli italiani come Marta – Il delitto della Sapienza, diretto da Simone Manetti, sulla studentessa di giurisprudenza uccisa il 9 maggio 1997. Il regista stesso ci ha raccontato la sua esperienza: «È un progetto che mi ha profondamente coinvolto sin dall’inizio. La vicenda affrontava temi complessi, portando con se un dibattito che non si è mai spento, nonostante i molti anni trascorsi dal fatto e dalla chiusura giuridica. Per me un aspetto fondamentale, non solo in questo documentario ma in tutti quelli che dirigo, è mantenere un approccio “atesico” alla narrazione. Questo significa che non prendo parte alla discussione ma cerco di riportare lo spettatore al tempo degli accadimenti per farglieli rivivere come furono vissuti all’epoca rispettando, chiaramente, la verità processuale». Secondo Manetti siamo ben lontani dall’aver raggiunto la saturazione dei contenuti: «Il true crime sembra godere di una popolarità duratura grazie alla sua intrinseca capacità di coinvolgere il pubblico con storie reali affascinanti. La diversità di sottogeneri e la continua evoluzione della narrazione contribuiscono a mantenerlo vivo».

Secondo il giornalista e autore Stefano Nazzi l’interesse per il true crime è sempre esistito: «Cerchiamo di capire e contestualizzare ciò che non capiamo, che ci appare lontano da noi ma ci accorgiamo fare invece parte del mondo. Riuscire a inquadrare un fatto orribile ci aiuta forse a sentirci più uniti e ad averne meno paura». Nel suo libro Il volto del male Nazzi ha trattato in modo analitico e mai banale molti casi di cronaca: «Il male ha molti volti, con un tratto che unisce: le persone che fanno male ad altre persone si sentono solitamente al di sopra degli altri, vedono loro stessi al centro di tutto, il resto dell’umanità è per loro senza valore». Per Elisa De Marco ci interessano «le ragioni che spingono persone “strutturalmente” uguali a noi a commettere delle azioni socialmente impensabili, orribili. La violenza domestica, le relazioni tossiche o abusanti sono questioni diffuse, ma di cui spesso si fa fatica a parlare. Credo che l’interesse nasca proprio lì, cerchiamo un modo per capire, per essere a nostra volta più consapevoli».

Il podcast si conferma uno degli strumenti più amati per gli amanti del true crime. Per Stefano Nazzi «consente di raccontare le storie coinvolgendo chi ascolta grazie alle musiche, al tono della voce, alle pause anche mentre fa altre cose».

true crimeSpesso l’attenzione del pubblico è del tutto focalizzata sulla persona che commette il crimine, soprattutto nel caso dei serial killer: ci si concentra sul loro passato, sul modus operandi e sul fascino che alcuni di loro hanno saputo esercitare durante le indagini e i processi. Non a caso uno dei rischi principali di chi tratta il genere come storyteller è la romanticizzazione del crimine e la mitizzazione dell’assassino, come è accaduto nel caso di Jeffrey Dahmer dopo la serie di Ryan Murphy per Netflix. Ma la vicenda del Cannibale di Milwaukee ha portato anche a una riflessione razziale, sull’impunità che gli è stata a lungo garantita dall’essere bianco e benestante. Analogamente al criminale per cui il mondo dell’intrattenimento ha sfiorato l’ossessione, Ted Bundy, interpretato tra gli altri da Zac Efron nel film Ted Bundy – Fascino criminale, che puntava l’accento su quanto il serial killer fosse di bell’aspetto.

Tutti i nostri intervistati non hanno dubbi, tra gli errori peggiori c’è il sensazionalismo, come spiega Stefano Nazzi: «Il racconto della cronaca è spesso spettacolarizzato, carico di giudizi e del tentativo artificiale di suscitare emozioni quando dovrebbe essere invece il fatto in sé, nella sua crudezza, a suscitare emozioni». Il sensazionalismo è un meccanismo di forzatura emotiva, concorda Simone Manetti, e prosegue la riflessione sulla pericolosità di questo approccio che «può sfociare nella “pornografia del dolore”, ovvero sfruttare il dolore delle vittime a fini di solo intrattenimento. Talvolta si può cadere nell’enfatizzazione del colpevole, trascurando le storie delle vittime. Per evitarlo, bisogna mantenere un approccio equilibrato, rispettoso e imparziale tramite una rigorosa ricerca dei fatti, il coinvolgimento delle vittime quando possibile e la presentazione delle storie in modo che il pubblico possa formarsi le proprie opinioni». Per queste ragioni la verifica dei fatti e il rispetto devono essere al centro del lavoro, spiega Elisa De Marco: «È importante tenere a mente che le storie che si raccontano non sono le nostre, e per questo vanno trattate con il massimo del rispetto e delicatezza. Tutti possiamo commettere degli sbagli nella ricerca delle informazioni, a me per prima è capitato, proprio per questo cerchiamo sempre di verificarle al massimo delle nostre possibilità». Anche Simone Manetti si è avvalso delle testimonianze delle persone coinvolte: «Ho sempre realizzato lavori nei quali erano presenti le varie parti chiamate in causa e insieme a loro ho costruito il racconto e la narrazione. Non ho mai preso un “dolore” per farne un film senza il permesso di chi l’ha provato e sperimentato sulla propria anima».

Ed è proprio il “come” l’aspetto cruciale in Only murders in the building, la fortunata serie targata Disney creata da John Hoffman e Steve Martin protagonista con Martin Short e Selena Gomez: i tre personaggi principali sembrano non avere niente in comune se non il fatto di abitare all’Arconia, un palazzo dell’Upper West Side di New York. Presto i tre scoprono di essere tutti fan di un podcast true crime All Is Not Ok in Oklahoma e il ritrovamento di un cadavere proprio all’Arconia dà il via alle indagini e li rende protagonisti del proprio podcast: Only murders in the building. Charles-Haden Savage (Steve Martin) a un certo punto dice «Ogni storia true crime è reale per qualcuno», sintetizzando l’approccio della serie, una comedy venata di mistero che intercetta con leggerezza e lucidità le problematiche insite in un fenomeno che da tempo attraversa in maniera trasversale il mondo dell’entertainment. Disney ha compiuto un passo ulteriore nell’evoluzione del true crime anche grazie alla nuova politica glocal, con nuove produzioni ancorate al territorio italiano, come nel caso di Avetrana – Qui non è Hollywood di Pippo Mezzapesa, coprodotto da Groenlandia e in uscita nei primi mesi del 2024. Infatti la richiesta – e quindi l’offerta – di contenuti cresce anche da noi: il primo novembre è arrivato Sky Crime, in collaborazione con A+E Networks Italia. Roberto Pisoni, Sky Entertainment Content and Channels Senior Director, spiega: «Il true crime è un genere in crescita costante che attrae un pubblico trasversale con podcast, programmi televisivi e serie documentarie di grande successo, perché da una parte rilegge episodi della memoria collettiva con testimonianze nuove, rivelazioni o semplicemente rimettendo in fila i fatti e dall’altra rianalizza i possibili errori nelle indagini o gli esiti giudiziari dubbi. Ci illude di poter trovare finalmente una soluzione per i casi irrisolti o evidentemente ambigui e talvolta lo fa davvero. E poi è un genere ibrido in cui sono ricostruiti e documentati fatti di cronaca reali ma che possono essere narrati con un’efficace dose di drammatizzazione».

In definitiva, superata l’indagine televisiva di bassa qualità, con l’evolversi dei contenitori e dell’attenzione al tema si è evoluto anche il contenuto e soprattutto sono cambiate le modalità con cui il true crime viene narrato, alzando di molto il valore di un prodotto che – con buona pace di una critica – si è fatto sofisticato. A tal punto da essere degno di analisi dai parte dei teorici dei new media, per cui il fascino della cronaca nera risiede anche nella capacità di mostrarci un male diffuso concentrato in un solo evento, mentre la violenza sistemica di solito fa meno notizia di un crimine efferato.

Come scrive Jonathan Gottschall ne L’istinto di narrare, se è vero che le storie ci aiutano a evadere dal quotidiano, le storie dell’orrore ci piacciono perché ci mettono di fronte a una serie di paure e pericoli che possiamo vivere a distanza di sicurezza.  D’altro canto, la massificazione del fenomeno ha portato con sé anche un pubblico più vasto e variegato: che sia interesse per il macabro, curiosità, senso di verità e giustizia o un modo per imparare a cogliere i segnali di pericolo, la maggior parte dei fruitori trova nel true crime un effetto catartico. Secondo le statistiche il crescente interesse del pubblico femminile può essere letto proprio in quest’ottica, ma anche come desiderio di riappropriarsi delle storie in cui le donne sono sempre state oggetti e (quasi) mai soggetti.

Ed è così anche per l’occhio investigativo di Rebecca Makkai, da noi conosciuta per I grandi sognatori (Einaudi, 2021), romanzo finalista al premio Pulitzer, che nella sua nuova suspense novel I Have Some Questions for You (2023 – inedita in Italia) si confronta proprio con l’ossessione per il true crime. L’autrice riflette su alcuni temi etici, come il rischio di oggettivare le vittime soprattutto se sono giovani, bianche e carine. L’ultima riflessione non è nuova, ne ha scritto già Alice Bolin in Dead Girls: Essays on Surviving an American Obsession (2018), mettendo in luce il mito moderno del Dead Girl Show in cui un detective sviluppa il proprio personaggio grazie al sacrificio della vittima perfetta: una donna silente che si fa terreno neutrale e muto innesco della storia. Makkai nel suo romanzo ironizza su un gruppo di dipendenti dal true crime: la sua protagonista è diretta al suo ex college dove terrà un corso sul podcasting. Makkai sceglie un approccio grandangolare e si chiede: può il true crime essere etico? Arrivati alla pagina finale tutte le opzioni restano aperte. È il delitto perfetto, quello in cui alla fine è il lettore (o lo spettatore) ad avere in mano il coltello.

Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club

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Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino e un master in Advanced Cinematography a Milano, ma continua a studiare.

Spicca come regista nella scena videomusicale indipendente e l’abbiamo vista tutti sorridere e ballare nell’iconico videoclip Oroscopo di Calcutta, diretto da Francesco Lettieri. In qualità di sceneggiatrice, con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo ha creato Love Club, la serie in quattro episodi diretta da Mario Piredda e disponibile su Prime Video.

Parlami del tuo rapporto con la forma videoclip, che ha caratterizzato l’inizio del tuo percorso.

La musica è sempre stata familiare per me, a casa si suonava e si cantava sempre. Suonicchiavo anche io, non tanto bene, ma sapevo le basi. Inserirmi nel mondo del videoclip è stata una sfida continua, riuscire a creare con poco budget delle piccole storie, con scenografie fatte in casa, un approccio “do it yourself” che ha settato anche il mio stile. Anche se dovessi avere milioni di euro per il mio primo film [ride ndr], la scenografia sarebbe artigianale, legata a un mondo indie che mi appartiene, che mi ricorda un po’ il realismo magico di Julio Cortàzar e l’immaginario infantile che non mi ha mai abbandonato.

Di te si dice che fai parte di quella manciata di persone che hanno inventato la scena romana indipendente. A distanza di qualche anno, come è cambiata quella scena?

Alle Mura organizzavo Margarina, un evento mensile dove si esibivano donne musiciste, tra cui Laila Al Habash, Chiara Monaldi, Iruna, In.versione Clotinsky e tante altre. Vivevo a San Lorenzo e c’era davvero un bel giro tra lì e il quartiere Pigneto. Sapevo che era un momento florido per la musica e quindi anche per i videoclip, si respirava tanta libertà nella creazione artistica, e lo si può vedere sia dagli album usciti negli anni 2016-2017 sia nella regia dei videoclip di quel periodo. C’era una bellissima atmosfera, io facevo ancora gavetta per i più “grandi” come Motta, Thegiornalisti e iniziavo a fare regia o fotografia per i più “piccoli”, all’epoca i Pinguini Tattici Nucleari, Giorgio Poi e Frah Quintale, e c’erano amici e nuove voci come Galeffi, Vanbasten, Canova, Gazzelle, I Cani e tanti altri. La scena indie non esiste più, è stato un periodo molto breve, e lo dico non solo perché la maggior parte di loro lavorano con le major, chi come artista chi come autore o entrambe le cose, ma anche perché anche a livello di locali hanno chiuso davvero la maggior parte dei magici luoghi dove si suonava (e questo non vale solo per Roma, ma anche per Milano e altre città d’Italia).

Pollo all’ananas ’98 è il tuo primo cortometraggio: perché hai scelto di raccontare proprio una storia di immigrazione ambientata in un ristorante cinese di provincia?

Pollo all’ananas ’98 l’ho scritto a 25 anni, durante la pandemia. L’abbiamo girato a giugno 2022 in due giorni e mezzo a Torino, è stato prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production con il finanziamento del Mic e della Piemonte Torino Film Commission. In realtà deve ancora uscire, siamo alla ricerca dell’anteprima per i festival. Come ogni primo corto, non è perfetto, ma quando lo guardo mi dà una gioia immensa. Anche questa storia è ispirata alla mia infanzia: siamo nel 1998 e i miei genitori, immigrati dal centro-sud al nord, sono tra i pochi che frequentano il ristorante cinese di Verbania. Per festeggiare la promozione di mia sorella siamo andati a mangiare cinese, insieme ai miei nonni. Questo ricordo è ovviamente solo l’ispirazione iniziale del corto, che prende una piega molto diversa, spingendosi verso un finale grottesco, ironico e artigianale, proprio nel mio stile.

Quale tabù ti piacerebbe infrangere sul grande schermo?

Immagino che per molti già Love Club è pieno di tabù che abbiamo infranto, nonostante non ci fosse nessun intento di sconvolgere. Sono convinta che i corpi di molte persone e le loro scelte di vita sono di per sé un tabù per tanti. Mi piacciono le storie contraddittorie, che non riflettono quello che ti aspetti, che ti risvegliano in qualche modo. Mi accorgo, soprattutto nei libri scritti da voci incredibili come La cronologia dell’acqua, La breve favolosa vita di Oscar Wao, L’interprete dei malanni o Denti bianchi (sono letteralmente gli ultimi libri che ho letto e che mi sono piaciuti), che hanno un fil rouge di autenticità e di arguzia, con storie vicine agli scrittori, spesso le loro, frutto di traumi e ferite.

Quanto credi che i trend, i social e le mode del momento influenzino il tuo lavoro e la tua estetica?

Ci sono dei trend che mi influenzano, ma allo stesso tempo mi distacco dal mondo social perché sono ossessionata da storie e personaggi che non hanno nulla a che fare con quello che va di moda. Da Bridget Jones a Pedro Infante passando per i mormoni e l’immigrazione cinese in Italia. Sono molto umorale e iperattiva, vado a fondo nelle storie, potrei starci anni. Mi piace riprendere quel baule dei travestimenti di quando ero piccola ed essere fluida anche nel mio modo di vestire, di essere, in base a quello che provo.

Com’è stato co-scrivere Love Club?

Quando Denise Santoro nel gennaio 2021 ha detto a me e a Bex Gunther che forse era arrivato il momento di metterci a scrivere una storia sulla nostra comunità, è stato tutto molto spontaneo, come se fosse ovvio, giusto e naturale. Vivevo in una mansarda a Bee, sopra il Lago Maggiore, in attesa che finisse la pandemia e con Bex ci incontravamo online una o due volte a settimana a scrivere. Abbiamo lavorato tantissimo sull’immaginario di ogni personaggio e del quinto protagonista che è il Love Club stesso, a livello visuale con moodboard, booklet, stili, gusti personali, ma anche sulla musica (c’è la playlist di Love Club su Spotify). Poi quando il progetto si è strutturato con Prime e Tempesta, abbiamo creato noi tre, insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, una writer’s room meravigliosa. Ci hanno capito subito, e ci hanno aiutato a strutturare al meglio la serie in così poco tempo. In nove mesi abbiamo creato Love Club

Una cosa che si capisce dai tuoi lavori è che non imponi una visione ma ti poni in posizione di ascolto e poi guidi la visione che ti restituiscono le persone: in questo modo quello che crei risulta autentico. Cosa possono fare le nuove generazioni di creativi per restare fedeli al reale?

Hai centrato il punto. Non impongo la mia visione, ci arrivo e guido gli altri. Shi Yang Shi mi ha scritto un messaggio molto bello dopo il lavoro insieme su Pollo all’ananas ’98, ringraziandomi per la mia “morbida determinazione”. Questo per me è oro, creare delle connessioni tra regia e cast, capirsi, comunicare. Riguardo alle nuove generazioni, quello che dico sempre è di studiare tanto, c’è molto da apprendere e tantissimo da fare. Quindi bisogna partire da lì, io non ho mai smesso di studiare, vorrò farlo sempre. Ora sto prendendo un’altra laurea tra la mediologia e il cinema, approfondendo l’immaginario collettivo del cinema messicano.

Nei primi sei minuti della serie compaiono due scene di sesso. So che sul set c’erano degli intimacy coordinators: cosa pensi di queste figure, le userai sui tuoi set in futuro?

Abbiamo spesso ribadito con Bex e Denise quanto fosse importante avere un approccio autentico alla vita amorosa e sessuale della comunità. Abbiamo voluto presentare una coppia lesbica diversa dallo stereotipo delle butch, mostrare che le lesbiche fanno sesso e che va fatto vedere tanto quanto il sesso eterosessuale (lì legato al tema del consenso – nel terzo episodio). Gli intimacy coordinators sono essenziali, mi è capitato come assistente alla regia di finire tra turbini di imbarazzo, poca comunicazione e colpe assurde date alle costumiste (sono loro che forniscono le protezioni e i famosi “sacchetti”), perché mancava una persona che coordinasse. Per me il miglior modo di lavorare è la trasparenza, la comunicazione, il consenso.

Ti senti pronta per realizzare un lungometraggio o vuoi continuare il tuo percorso nella serialità?

Sto scrivendo il mio primo film, una sorta di rom-com molto indie e autoriale sulla storia di un uomo trans, dal titolo Golden Trans Boy. C’è anche qui molto di personale e molta ironia.

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Maddalena Stornaiuolo, che racconta una Napoli senza sconti

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Maddalena Stornaiuolo è nata nelle Vele di Scampia e da lì ha deciso di raccontare la criminalità dall’interno, le storie del rione, portando una vera e propria rivoluzione nel cinema di periferia. Nei suoi corti c’è Napoli, la figlia di un “fine pena mai”, una madre che si inginocchia davanti agli uomini per guadagnarsi da vivere, un bambino vestito da Hulk che non ha la forza di difendere nessuno.

Maddalena è attrice, acting-coach, regista, imprenditrice e fondatrice della compagnia teatrale Vodisca Teatro e della scuola di recitazione La scugnizzeria. Con Sufficiente, il suo primo cortometraggio diretto insieme ad Antonio Ruocco, ha ricevuto il Premio Speciale ai Nastri d’Argento 2020 ed è in giro per festival con il suo secondo lavoro, Coriandoli (2021). La forza di questi shortfilm sta nella sottrazione e nello sguardo onesto e partecipato, nella regia tesa al mettere al centro i giovani protagonisti e le loro storie raccontate in prima persona, senza sconti. Solida e instancabile, Maddalena ha cambiato il volto di un territorio dimenticato da tutti, compiendo un lavoro enorme di recupero e riqualificazione del tessuto sociale.

La scugnizzeria non è solo una scuola ma un progetto votato all’inclusione, aperto al territorio e a persone di tutte le età, alle quali offri numerose opportunità a prezzi popolari. Hai portato il cinema sul territorio e i ragazzi via dalla strada.

La scugnizzeria è un progetto che è nato solamente cinque anni fa, ma è un sogno che coltivavamo da tempo, solo che tra un lavoro e l’altro era veramente complicato trovare uno spazio che potesse ospitare una grande quantità di ragazzi. Poi, quando sono rimasta incinta di mia figlia, mi sono dovuta fermare, non potevo essere sui set né tanto meno fare spettacoli a teatro. Allora mi sono detta che era il momento giusto per creare La scugnizzeria. Ci siamo messi alla ricerca degli spazi e li abbiamo trovati dove speravamo. Sono arrivati tantissimi ragazzi, all’inizio da Scampia, da Melito, dalla periferia limitrofa e poi da ogni punto della città. Questa è stata una vittoria, non volevamo solo avvicinare i ragazzi del quartiere ma creare una mescolanza, delle connessioni.

Maddalena Stornaiuolo Scampia
Le Vele di Scampia.

Non parliamo solo di corsi di recitazione ma anche di produzione, da qui ha preso forma Sufficiente. Gaetano è un pluriripetente che si presenta agli esami di terza media e aspira alla licenza con un voto sufficiente, qualcosa che significhi “abbastanza”. È un corto sul pregiudizio, sulla società escludente, sugli adulti che non tutelano e sui figli che pagano per gli errori di tutti. Perché hai scelto di raccontare proprio questa storia?

Siamo partiti con l’idea di raccontare una situazione che conoscevamo da tanto tempo, perché purtroppo la vicenda – per quanto romanzata – prende spunto da una storia vera, ma volevamo raccontarla da una prospettiva differente. La criminalità è spesso narrata da un solo punto di vista, invece mi interessava dar voce al ragazzo che subisce le conseguenze delle scelte non sue. Volevo che si sentisse preso in considerazione, quando a casa e a scuola questo non era accaduto. Credo che il cinema serva anche a dare voce a chi non ha la possibilità di farsi ascoltare.

Coriandoli è un’altra storia vera, quella di Speranzella che legge sul balcone per non sentire la madre che accoglie in casa i clienti. Una bambina che vede nei libri una via di fuga, che ha paura del rumore delle zip e non mangia perché non vuole che le cresca il seno. Totoriello è vestito da Hulk e vorrebbe avere i superpoteri per difenderla, ma è terrorizzato. Eppure sono a una festa con le giostre, vestiti da Carnevale: hai scelto questa ambientazione per contrasto?

Sì, esatto. L’infanzia e l’adolescenza dovrebbero essere età felici, ricche di scoperte, invece questi due bambini si trovano a fare i conti con un presente feroce e con un futuro incerto, pieno d’ombre. Mi premeva raccontare un’infanzia negata da situazioni di criminalità: non era quello che era accaduto a me ma, se ci penso, non ho ricordi di me in cortile o al parco, non potevo giocare fuori perché i miei avevano troppa paura. Tutta la mia infanzia è trascorsa tra il balcone e le mura domestiche, le uscite erano altrove, non nel rione. Volevo che questo risuonasse nel personaggio di Speranzella, questa chiusura nelle mura di cemento, in quel balcone lunghissimo che da piccola ti sembra sconfinato e invece non è che uno spazio troppo limitato.

Maddalena Stornaiuolo
Maddalena Stornaiuolo.

Hai recitato in Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico, un esempio di teatro e cinema civile, che racconta la storia vera di una ragazza di ventidue anni uccisa dalla camorra nel 2004, nel quartiere di Secondigliano. Cosa ti sei portata dietro da questa esperienza?

Tutto è iniziato durante la prima stagione di Gomorra, quando in parallelo alla messa in onda passavano su Sky Atlantic dei cortometraggi: uno di questi era Centoquattordici diretto da Massimiliano Pacifico che raccontava la storia di Gelsomina Verde, vittima numero centoquattordici dall’inizio della faida di Scampia. In quel corto interpretavo l’amica che raccontava la storia, ma già alla fine delle riprese sentivamo l’esigenza di approfondire quella vicenda: così è nato il lungometraggio dove avevo il ruolo di Gelsomina. Recitare alcune scene mi faceva molto male, a volte la notte non riuscivo a prendere sonno sapendo che all’indomani avrei dovuto interpretarle, ma questo mi ha aiutata a dare il taglio giusto. Si è parlato molto di lei, anche sui giornali e in TV, non sempre in maniera corretta. Poterla raccontare con l’aiuto del fratello, Francesco Verde, è stato il nostro piccolo dono alla memoria di questa ragazza morta in modo feroce. È stato un riscatto, se così si può dire, meritava di essere raccontata nel modo più onesto possibile.

Hai lavorato come acting-coach nella terza stagione della serie L’amica geniale, diretta da Daniele Luchetti, e poi sul set de La vita bugiarda degli adulti, la serie prodotta da Netflix Italia che vede alla regia Edoardo De Angelis. Come è stato lavorare nella serialità italiana?

Lavorare a L’amica geniale è stato non stupendo, di più, qualcosa che avrei desiderato che non finisse mai. Guido de Laurentiis, il produttore, è una delle persone più generose e disponibili che io abbia mia conosciuto, Daniele Luchetti, oltre ad essere un regista strepitoso, è una persona dall’anima buono, ci siamo fatti un sacco di risate e mi ha insegnato tantissime cose. Nella vita bugiarda degli adulti invece sono la acting coach personale di Valeria Golino, l’avevo conosciuta sul set di Fortuna di Nicolangelo Gelormini. Già all’epoca era nata una grande sintonia tra noi, sono davvero contenta di lavorare con lei e di poter assistere al suo processo creativo, è stato molto facile “metterle il napoletano in bocca”. Poi ho scoperto che De Angelis è un regista rock, è adorabile il modo in cui dirige gli attori e riesce a tenere il set. Non ci avevo mai collaborato, è un lusso lavorare con persone con le quali ti trovi così bene, spero di replicare.

Dopo il successo di entrambi i tuoi corti, ti senti pronta a esordire con un lungometraggio?

Per quanto riguarda il lungometraggio siamo in fase di sceneggiatura e abbiamo già degli accordi di produzione. Amo le sfide e questa è forse la sfida più grande, non vedo l’ora di buttarmici a capofitto ma, al momento, sono impegnata come attrice sul set di Mare fuori, sono il nuovo agente di polizia del PM. C’è bisogno di tempo, in questi casi: il mio motto è “senza fretta ma senza sosta” per cui piano piano le cose arrivano, si fanno i passi giusti e nel frattempo si costruisce quello che si vuole.

Acqua che scorre non porta veleno: quando finisce un amore

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Regista e produttrice appena 25enne, Letizia Zatti ha studiato alla Luchino Visconti di Milano e si è fatta notare al RIFF con la storia di una donna che si introduce di nascosto nella casa del suo ex compagno, quella che un tempo era stata di entrambi. Nel corto Acqua che scorre non porta veleno, Matilde soffre per l’amore perduto e Zatti cuce sulla protagonista una regia intima e sensoriale, utilizza palette di colore e spazi come strumenti narrativi realizzando un equilibrio perfetto tra estetica e contenuto.

Nonostante la vocazione registica hai studiato produzione alla Luchino Visconti di Milano. Perché questo percorso?

Sono stata presa alla Visconti a 19 anni, subito dopo il liceo. Ero piccola e quindi ho scelto produzione perché in me convivono creatività e pragmaticità. Col senno di poi è stata la scelta più giusta: mi ha permesso di lavorare su set pubblicitari e cinematografici. L’incontro fondamentale è avvenuto con l’aiuto regista Miguel Lombardi, che venne a farci un corso di aiuto regia. A lui devo praticamente tutta la mia esperienza sui set, è stato il mio maestro. Poi, in realtà, non ho mai avuto il mito della regia. La vocazione registica mi si è rivelata set dopo set, è semplicemente il ruolo in cui più mi sento me stessa. Senza aver studiato produzione però, probabilmente sarebbe stato tutto più improvvisato.

 

In Acqua che scorre non porta veleno Matilde ripercorre gli stessi spazi, annusa l’odore dell’ex dalla sua camicia e si immerge nella vasca piena d’acqua, dove un tempo facevano il bagno insieme. La casa-nido è quasi un terzo personaggio. Che tipo di lavoro hai fatto sugli spazi e con l’attrice protagonista?

È proprio così. La storia narra la fine di una relazione, ma ancora di più narra un legame profondo con la casa. Era questo il tema che volevo approfondire. Ognuno di noi vive la propria casa in modo diverso: c’è chi la considera solo un tetto sotto cui dormire e c’è chi invece cura ogni dettaglio. C’è chi di case ne ha cambiate trenta e chi invece vive tutta la vita nello stesso posto in cui è nato e cresciuto. Io ho vissuto in dodici case diverse nell’arco di 24 anni e quella che si vede nel corto è stata la prima casa che ho veramente sentito mia. L’ho fotografata spesso, per cui scegliere le inquadrature è stato abbastanza facile, la scelta della macchina fissa voleva restituire proprio questo terzo punto di vista, quello delle mura della casa. L’acqua poi è un elemento subdolo: si insinua, penetra lentamente e rovina un’abitazione facendola marcire in profondità. Ma ha anche un alto contenuto simbolico: lenisce, lava, cura. Emilia [Emilia Scarpati Fanetti, l’attrice protagonista] ha da subito capito cosa volevo raccontare, era un tema che sentiva vicino perché aveva vissuto un’esperienza simile. Ho voluto fare tutte le prove in casa, anche quella costumi con gli attori, in modo che avessero familiarità con il luogo.

Acqua che scorre non porta velenoLe cose che ci passano per la mente sono quasi sempre inconfessabili, il voyeurismo di Matilde, la sua difficoltà nel lasciar andare, ci mettono di fronte alla sua ferita. Il tuo è un cinema intimista, fatto di sentimenti quotidiani e cose minuscole. Cosa aspiri a raccontare e in quale forma?

Il cinema che voglio fare è un cinema intimo, ricco di un sottotesto che rende onore più ai volti e alle piccole emozioni che alle grandi gesta. Sono affascinata dalle dinamiche psicologiche che si creano dietro le relazioni umane e ossessionata dal perché le persone diventano ciò che sono. Per ora sento che questa è la mia via: storie semplici ma con un universo dietro, un punto di vista chiaro e una forma estetizzante ma mai fine a se stessa. Ogni giorno che passa cambiamo e ci evolviamo, quindi chissà, un giorno potrei cambiare del tutto approccio.

Cosa ti auguri per il cinema post-pandemico?

Non ho particolari storie che vorrei vedere, tutto è già stato scritto, tutto è già stato detto. Vorrei vedere film che più che focalizzarsi sul cosa raccontare, si concentrino sul come farlo. Spero vivamente che la visione in sala riesca a sopravvivere nella sua essenza popolare e che non diventi solo per un pubblico d’élite. Fare i film per un’élite non mi interessa, la mia missione è quella di arrivare a tutti.

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Le ninfe dark di Isabella Torre

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Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre ha nel suo carnet anche la collaborazione alla trilogia di Jonas Carpignano (Mediterranea, A Ciambra e A Chiara, fresco di ben 6 candidature ai David di Donatello 2022).

Hai sempre lavorato davanti e dietro lo schermo: regia, produzione e recitazione. Sei alla ricerca della tua dimensione o l’hai trovata nel movimento fluido tra i vari ruoli?

Mi sento di dire di esserci quasi “nata e cresciuta” sul set. Mia madre, costumista di cinema, mi ha portato alle riprese di tutti i suoi film fin da piccolissima ed è per questo che ho sempre ritenuto il set cinematografico un po’ come casa, anche più di quanto non lo fosse la mia casa reale. Per quanto riguarda Ninfe recitare, oltre che dirigere, è stata una necessità quasi pratica (essendo un corto molto sperimentale, girato per sondare il terreno per un lungometraggio sullo stesso soggetto) e interpretare le ninfe è stato un lavoro molto duro: dalla nudità nel gelo di febbraio, alle lunghe notti nel fango e nella terra… non avrei voluto mettere nessun altro in quelle condizioni terribili se non me stessa. In Luna piena invece la necessità era un po’ diversa, più che altro catartica. Questo cortometraggio è molto personale, ispirato a quello che ci è successo mentre giravamo A Chiara di Jonas Carpignano e tutto è cambiato a causa della pandemia. Il bagaglio emotivo che ho affidato a Lina era più che altro il mio, per me aveva senso affrontare questa avventura in prima persona. In futuro deciderò istintivamente come ho fatto sino a ora se sarà il caso di interpretare oltre che dirigere, ma per la versione lungo di Ninfe penso che mi dedicherò unicamente alla regia.

C’è stato un momento decisivo nella tua carriera? Qualcosa che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta?

Vari momenti, direi. Innanzitutto quando ho realizzato che il gruppo di collaboratori che abbiamo creato in questi anni girando i film di Jonas (con cui ho lavorato per tutta la trilogia) è come una vera e propria famiglia. D’altra parte come dicevo prima, il set per me è la mia tana, collaborare con qualcuno con cui ti senti affine e sentire di essere parte di un’operazione comune dà senso a tutto. Un altro momento illuminante è stato mentre giravo Ninfe. C’erano stati dei problemi in un magazzino e tutta la pellicola che avevamo girato era rovinata. L’indomani tornammo per rigirare le scene in quel piccolo villaggio abitato unicamente da una famiglia pastori. Era l’alba e mi aspettavo che ci mandassero a quel paese, invece ci hanno accolto incredibilmente contenti e calorosi; d’improvviso il cielo si fece tutto rosa e l’aria profumava di montagna, girammo in una sorta di idillio. Pensai: “Questa è la magia del cinema”.

Ninfe di Isabella Torre
“Ninfe”, di Isabella Torre.

Come funziona il tuo processo creativo?

Di solito è tutta colpa o merito del mio inconscio. Sono una persona piuttosto inquieta da sempre, il mio mondo interiore può essere sovrastante, se non lo libero rischio davvero e questo è il mio modo per farlo. Poi naturalmente le persone sono l’altra faccia della medaglia: sono piena di personaggi nella mia testa ispirati alle persone che mi capita di conoscere, anche quelli vanno liberati ogni tanto per evitare “assembramenti”.

Ninfe mostra la terra d’Aspromonte come un luogo mistico, incantato e a tratti spaventoso. L’archeologo e i suoi due uomini sono lì per disseppellire un tesoro, ma dal terreno finisce per venir fuori molto di più, tra la nebbia emergono tre ninfe che causano una serie di misteriosi avvenimenti.

L’Aspromonte è un luogo unico. Una terra fatta di contrasti, con atmosfere che ti rapiscono e la nebbia… la nebbia è un’entità a sé. Sono arrivata in Calabria sette anni fa e ho sempre frequentato l’Aspromonte, eppure non c’è una volta che abbia vissuto un’esperienza simile all’altra lassù. La verità è che la potenza della natura di quel posto ha influenzato anche la gente che lo abita, che ne ha assunto le stesse contraddizioni e la stessa unicità. La componente surreale del film è il mio modo per indagare anche a livello sociale e culturale questa terra.

Sia Luna piena che Ninfe hanno in comune una forte simbologia naturale, una forza misteriosa ma reale che ristabilisce l’ordine e riprende il controllo su tutte le cose in modo implacabile.

Anche qui viene tutto dal mio inconscio: il mondo in cui viviamo e le dinamiche che regolano la nostra vita sono motivo di grande ansia per me. Sono profondamente convinta che dovremmo tutti ritornare alla terra, allo scandire del tempo dettato dalla natura. È l’unica vera bussola che potrebbe aiutarci a riprendere le redini delle nostre vite. Mentre giravamo Ninfe ci ritrovammo ad aspettare che la famiglia del villaggio si svegliasse per iniziare a girare: il giorno prima ci avevano detto a che si sarebbero svegliati, ma invece dormivano ancora tutti. Ecco più, tardi risolvemmo l’arcano: loro non cambiano mai l’orologio a seconda dell’ora legale o solare, hanno un unico riferimento per dare inizio alla loro giornata, ovvero, come dicono loro, “le bestie”. Quando si svegliano le capre, inizia la giornata. Non c’è altra convenzionalità a regolare il giorno e la notte. Lo trovo magnifico

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Il cinema reale e intimista di Saverio Cappiello

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Per il giovane regista pugliese Saverio Cappiello la provvidenza è la mano che guida sia il cinema che la vita; la camera può solo fermare gli istanti di felicità concessi poco prima che tutto crolli, attimi che si codificano in un linguaggio cinematografico sperimentale ma sempre puro.

Andando a fondo nei suoi lavori come Mia sorella, Jointly Sleeping in Our Own Beds, La vita mia e Celentano non può andare in barca, scopriamo che il nodo nevralgico, il fulcro del suo cinema reale e intimista, sono le relazioni e a volte il loro fallimento. Al centro delle storie c’è sempre una precisa sfumatura di solitudine che accomuna Pauline, Celentano, Vanni, la nonna che scorda (o dice di aver scordato) le atrocità dei campi di concentramento e Saverio stesso.

Qual è stato il tuo primo approccio al cinema?

Sin dai tempi del liceo ho avuto la necessità di scrivere racconti e poesie. Era un’esigenza forte perché la scrittura era un filtro che mi permetteva di trovare la bellezza nella realtà che mi circondava. Man mano che pubblicavo i miei primi testi su riviste ai tempi dell’Università, ho avuto la prima forte urgenza di cambiare mezzo. Il pubblico che ne usufruiva era assai specifico e mi dispiaceva che questa mia ricerca della bellezza in quei luoghi venisse totalmente persa dalle persone che mi avevano ispirato. Non voglio entrare troppo nel merito, ma penso che il cinema abbia avvicinato i protagonisti all’opera.

In Jointly Sleeping in Our Own Beds, i due protagonisti (tu e Pauline) vivono una relazione molto moderna, via chat e Skype. Ci sono varie gradazioni di distanza tra te e lei: la lingua, lo schermo, la posizione geografica, eppure dormire insieme è una vicinanza così intima da annullare di colpo ogni barriera. Più che un film di critica sociale, mi sembra la visione poetica di un discorso amoroso.

Sì, dici bene. Non volevo raccontare niente di più che una storia d’amore. Sono consapevole che la peculiarità della relazione che ho avuto con Pauline possa suscitare riflessioni sulla società e sono sempre contento di sentirmele dire, ma non è quello che ho voluto raccontare. Anzi, ho cercato di dimostrare che la magia della realtà digitale esiste nella stessa misura della realtà fisica. Forse c’è qualcosa di ancora più bello.

Scena da “Jointly Sleeping in Our Own Beds” di Saverio Cappiello.

Il tuo è un cinema del reale intimistico, caratterizzato da una visione molto personale del presente. Per Pasolini il cinema era un’esplosione del suo amore per la realtà, per Truffaut invece era un tradimento. Tu la realtà la racconti o la tradisci?

I cineasti sono sempre stati ossessionati dalla realtà. Il documentario negli ultimi venti anni – da quando è entrato di prepotenza nei festival e nelle sale – ha mostrato quanto l’idea che avevamo della realtà fosse limitata. In un documentario possono capitare cose impensabili, coincidenze assurde che non potresti mai permetterti di scrivere in un film di finzione perché considerate inverosimili. E la verosimiglianza è un codice che ci siamo costruiti nel cinema per capirci a vicenda agevolmente, ma non ha niente a che fare con ciò che è reale. Siamo ossessionati, come registi, perché tendere alla realtà è come allungare il braccio verso l’infinito. Per me non è raccontabile nella sua interezza ed è presuntuoso pensare di poterla tradire, perché si tradisce già da sola, continuamente.

Ti sei prestato anche come attore per il videoclip di Adesso, brano sanremese di Diodato e Roy Paci che affronta la stessa tematica di Jointly Sleeping, di cui sei tu stesso protagonista. Essere diretto da qualcun altro è un’esperienza che rifaresti?

Non credo di essere un buon attore e nemmeno mi piace particolarmente essere diretto da altri registi, a meno che non mi lascino molta libertà. Le esigenze di quel videoclip però mi avevano dato la possibilità di improvvisare e di lavorare con Sara Mondello. Avevo presentato da pochi mesi Jointly Sleeping a Pesaro ed ero fresco dell’esperienza. Credo, con il videoclip, di aver chiuso il ciclo di ricerche sull’amore a distanza.

Sei co-fondatore del collettivo di registi Santabelva, di che si tratta?

Santabelva è nato quando vivevo a Milano. È un collettivo formato da Niccolò Natali, Henry Albert, Gianvito Cofano, Nikola Lorenzin e me, un patto di sangue dove ci supportiamo sempre, unendo le energie anche sul lavoro, per sentirci meno alienati. Un problema comune quando sei in città come Milano. Con loro ho provato una regia a quattro teste, con il montaggio di un altro Santabelva ad honorem, Alessandro Belotti, su un documentario dal titolo Corpo dei giorni. Il documentario intreccia storie di vari personaggi confinati in un casale sperduto, tra i quali un ex terrorista all’ergastolo.

Mi parli delle esperienze fatte nelle residenze artistiche?

È un’opportunità straordinaria per i giovani autori. Ho realizzato Mia sorella all’interno di una residenza artistica a Enziteto dove, però, giocavo in una zona che conosco molto bene e grazie al quale ho avuto diversi riconoscimenti, tra cui anche la candidatura ai David di Donatello. Una sorpresa, visto che il budget non è mai il forte delle residenze artistiche, ma grazie a questo spirito di adattamento emergono spesso altre qualità dei lavori come la sincerità e l’urgenza. Laguna sud, la residenza artistica di Andrea Segre, è stata un’altra sfida perché andavo in un posto che non conoscevo affatto, Chioggia. Lì ho incontrato Loredano (aka Celentano) che guardava il mare fischiettando un motivo malinconico e in pochi giorni ho creato una storia, girato e montato tutto da solo. Il tutoraggio di Andrea Segre è stato indispensabile, tra l’altro in Celentano non può andare in barca ho lavorato con diversi personaggi comparsi nel suo film Io sono Li.

Scena da “Celentano non può andare in barca” di Saverio Cappiello.

La Calabria Film Commission insieme a Picture Show e Verso Feature sta producendo la tua opera prima, L’altra via, cosa ci puoi dire di questo progetto?

L’altra via è la storia di un incontro tra un calciatore disilluso di serie C, che entra nel mondo del calcioscommesse per mantenere il suo stile di vita, e un ragazzino che vede in lui un idolo, all’oscuro degli affari con la malavita locale. È un film che ha come sfondo i giorni precedenti all’inizio del mondiale di calcio del 1990, nella periferia di Catanzaro. Mi piacerebbe creare un tempo sospeso tra il passato e il presente, un 1990 con i pezzi dei Gazosa alla radio, e la vecchia poesia del calcio dove l’atmosfera viene retta dalle relazioni umane e sospinta da un vento di realismo magico.

Hai altri film in cantiere?

C’è un film che ho sempre voluto fare ed è sempre stato in cima ai miei pensieri. È una storia che ho scritto dieci anni fa, una stesura molto sofferta. È tuttora sofferto e complesso il suo adattamento cinematografico che stavo realizzando con Martina Di Tommaso, scomparsa recentemente. Lei più di ogni altro ha creduto in questo soggetto. La bella è una fiaba nera sospesa nel tempo. Parla di Laura che vive a Ponto, una città pugliese, con il fratello Tano. Qui persiste un’antica morale che si tramanda di generazione in generazione e che vede di cattivo occhio l’etica moderna, improvvisamente accelerata dall’arrivo di internet. Laura, dunque, che è figlia di questa nuova etica, si trova a scegliere se credere nella magia e accettare l’antica morale, oppure fuggire distante nella favola della modernità, che si dimostra anch’essa malata e feroce.