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Silvio Grasselli

“Saro”, alla ricerca del padre

Enrico Maria Artale firma un documentario coraggioso e autentico, nel quale scrive una riflessione lucida sull’identità e sulla relazione tra genitori e figli.

Saro è il nome di un uomo e il titolo di un film. L’uomo è il padre che Enrico Maria Artale ha reincontrato dopo venticinque anni di lontananza. Il film è il documentario che Enrico ha realizzato proprio su questo incontro, passando attraverso un processo creativo e produttivo di quasi sette anni, e che nell’autunno 2016 ha vinto il premio per il Miglior Film all’Italiana.Doc del Torino Film Festival.

Enrico Maria Artale regista di SaroLa storia di Saro – lungometraggio di poco più di un’ora – inizia nel 2009: Enrico è appena entrato al Centro Sperimentale di Roma. In quegli stessi mesi riceve una telefonata dalla Sicilia (la stessa intorno alla quale si costruisce l’incipit del film): è il padre Saro – che Enrico non vede da quando era ancora piccolissimo – che lo invita a sentirsi, magari a scrivergli. Enrico prende con sé il necessario per girare e parte per la Sicilia: durante il viaggio – al termine del quale effettivamente ritrova il padre che non conosce, che non ricorda – registra quasi sessanta ore di materiale che una volta tornato a casa mette da parte.

Intanto tra i primi e più importanti incontri al Centro Sperimentale c’è quello con Daniele Segre e con il cinema documentario. Da qui nasce il progetto de I giganti dell’Aquila, lungometraggio sulla squadra di rugby del capoluogo abruzzese ritratta nei giorni successivi il terremoto, mandato in onda dalla RAI nel 2010. Poi, come conseguenza diretta, arriva la proposta da parte della società di produzione del Centro Sperimentale di lavorare a un film a soggetto sul rugby. Nel 2013 viene presentato in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 70 Il terzo tempo, lungometraggio d’esordio che mette Enrico a confronto con i meccanismi dell’industria cinematografica (a coprodurre e distribuire il film arriva quasi all’ultimo momento De Laurentiis) e con le traversie della professione di regista, facendogli provare la vertigine della distanza dal suo lavoro d’autore.

Alla ricerca di una prova più libera e personale, nel 2014 riprende il lavoro sui materiali girati cinque anni prima: il tempo ha cambiato molte cose, prima di tutto ha cambiato lui. Per questo, subito dopo aver tagliato e ordinato il materiale in una prima versione grezza di tre ore, Enrico – aiutato dalla montatrice Valeria Sapienza – inizia una fase di revisione e scrittura.

Un'immagine da SaroSaro non è il film che ci si aspetterebbe forse prima di tutto per la diversità e lo spostamento dell’io soggettivo che gira, ieri, rispetto all’io soggettivo che ricostruisce le immagini nella forma di un film, oggi. Dopo un incipit secco e diretto, una serie di volti circoscrivono la storia di Enrico, della madre, della sua relazione con Saro, di un passato misterioso remoto e come tale irrecuperabile. Le parole sono poche, gli incontri brevi, e quando inizia il viaggio il film cambia ritmo. E più il film avanza più si allontana dai due vicinissimi strapiombi: da un lato l’autonarrazione ombelicale, dall’altra la saga sentimentale dei rapporti familiari.

La voce di commento di Enrico parla al presente, si sovrappone allo sguardo e al corpo dell’Enrico di cinque anni prima, riposiziona psicologicamente, in modo implicito, le immagini di cinque anni prima, tentando di colmare una distanza che invece resta felicemente irrisolta. La musica segna l’incertezza di chi si scopre esposto, di chi cede al timore che il racconto non basti. L’orizzonte del film è però nitido, con lo sguardo teso alla ricerca di una scoperta ma che inventa deviazioni e soste per dissipare la pressione di una legittima aspettativa. Tanto che quando l’incontro avviene per la prima volta è quasi un incidente, un’anticipazione inconsulta, una delusione rimandata.

Enrico Maria Artale, prima del Centro Sperimentale, si è laureato in estetica con una tesi sul volto tra il cinema e la filosofia: il modo in cui dispone il tempo e il luogo nel quale Saro lo ritrova dopo quasi trent’anni dall’ultimo abbraccio, in una stanza disadorna, sopra un lungo divanetto a semicerchio, dice molto della sua capacità d’intrecciare pensiero, immagine ed emozione. Un’inquadratura frontale, a distanza, niente stacchi per molti minuti di seguito: il silenzio dell’imbarazzo e della commozione soffocata e repressa, forse addirittura smarrita, amplifica la potenza di un’immagine semplice ma cruciale. È qui, a pochi minuti dalla fine, che il corpo e la voce di Enrico, il passato e il presente, si riconoscono e contemperano, fronteggiandosi esplicitamente, come in grumo di tempo nel quale svaporano i sentimenti e le aspettative addensate negli anni. Saro è un film che respira, che accetta il rischio di perdere il filo del racconto per lasciarsi scorrere in appunti e deviazioni che remano contro l’efficienza e la fluida rotondità della narrazione.

Enrico Maria Artale da piccolo con la madreCome il romanzo che nella descrizione e nell’analisi delle peripezie di un’anima compone un saggio di psicologia, così quello che all’inizio sembra essere un ritratto autobiografico di famiglia, o peggio, il diario catartico di un individuo in cerca di salvezza, si rivela presto il discorso libero di un cineasta giovane che grazie alle forme aperte e flessibili del documentario scrive una riflessione lucida sull’identità e sulla relazione tra genitori e figli; un’indagine intima ma non autistica, che scorre lungo il respiro ampio del tempo.

Saro – che Enrico Maria Artale ha deciso di produrre da solo fondando la Film After Film, alla quale si sono poi associate anche Bright Frames e Young Film – dopo aver felicemente partecipato a festival nazionali e internazionali – oltre a Torino anche SalinaDocFest, Taormina Film Festival, SalinaDocFest e altri ancora – ha visto anche una prima distribuzione indipendente nelle sale.

Happy Winter, un diorama balneare

Presentato alla scorsa edizione del festival di Venezia, Happy Winter è il primo lungometraggio del giovane documentarista siciliano, Giovanni Totaro viene dalla sezione palermitana del Centro Sperimentale di Cinematografia, quella dedicata al cinema documentario: dopo qualche esperienza nel formato corto e medio, approda alla lunga durata costruendo un film d’osservazione centrato sul microuniverso che si muove dentro e intorno alle cabine sulla spiaggia di Mondello.

Il movimento perpetuo di un venditore abusivo di bevande e snack è il metronomo che segna il ritmo, la linea d’entrata e d’uscita dalla dimensione intima e riparata delle cabine: davanti agli sportelli aperti, la sintesi e la riconfigurazione di una piazza di paese, con i tavoli, le carte, le radio, i teleschermi, le partire, le chiacchiere e perfino piccoli aspiranti politici in cerca di voti; dentro, tante piccole parodie d’abitazione, regge in miniatura ognuna ricostruita e agghindata secondo il gusto e i desideri del rispettivo occupante temporaneo.

una scena di Happy Winter di Giovanni Totaro

Bastano pochi minuti di visione per scoprire l’anima divisa in due di Happy Winter: da una parte la pura e semplice fascinazione per l’atto del guardare, del raccogliere e conservare pezzi di tempo riscritti da un cinema puro e semplice in un racconto implicito ma diretto; dall’altra il film, prodotto dalla giovane società indipendente torinese Indyca insieme a RAI Cinema, sembra conoscere e consapevolmente frequentare l’efficienza standardizzata della narrazione paradocumentaristica di tanta televisione contemporanea, pronto per allettare un pubblico famelico ma distratto.

Totaro dimostra una sapienza non comune nel circoscrivere un luogo facendone proliferare immagini e immaginari, nello smontarlo in parti, nel penetrarne gradualmente gli anditi più nascosti, spiandolo dalle fessure tra le cose; sapienza nel cercare e trovare il suo gruppo di protagonisti, nel coglierne e annotarne con sagacia vezzi, tic, mostruosità e grazia, innescando nello spettatore la disposizione allo stupore.

Stupore che però non arriva mai perché Totaro, forse distratto dalla comprensibile preoccupazione di non sbagliare al primo colpo, predilige la battuta a effetto, il bozzetto impressionistico, un’osservazione frenata che si limiti ad alimentare una giostra narrativa semplice, fondata sul piacere elementare e confortante del riconoscimento; del rispecchiamento offerto allo spettatore invitato a riconoscere nel piccolo mondo del film la riduzione romanzata del piccolo mondo che pensa già di conoscere.

Così Happy Winter resta la promessa di un film che ancora non è, capace di scorgere le passioni, i desideri, le tensioni, le delusioni e frustrazioni dei suoi protagonisti senza mai farcene assaggiare neppure un grammo; lasciando che le persone servano da macchiette in un piccolo diorama balneare; fermando il gioco del racconto all’evocazione di un sentimento, senza prendersi mai il rischio d’inoltrarsi sull’impervia strada dell’emozione.

“Il contagio” di Botrugno e Coluccini

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Con Il contagio Matteo Botrugno e Daniele Coluccini tornano a Venezia – alle Giornate degli Autori – sette anni dopo il memorabile esordio Et in terra pax (prodotto grazie all’intervento paideutico di Gianluca Arcopinto).

Per l’opera seconda – punto cruciale nella carriera di un regista – i due confermano la direzione intrapresa con il film precedente, alzando coraggiosamente il tiro e ingrandendo la dimensione delle aspirazioni: la base è l’adattamento dell’omonimo imponente romanzo di Walter Siti, dal quale il film trae direttamente l’idea di un racconto pendolare che mette orizzontalmente in comunicazione il centro e la periferia della capitale; l’orizzonte è quello di una nuova tragedia urbana che tiene insieme lirismo e verismo, narrazione corale e consapevolezza politica.

una scena dal fil "Il Contagio"

Il film cerca di trovare una forma audiovisiva per il libro che traduca sullo schermo – ritrovandone l’essenza, senza imitarne pedissequamente la struttura – il congegno verbale complesso e stratificato della pagina scritta. Anche solo per questo Il contagio è già di per sé un caso raro, quasi eccezionale nel panorama del cinema italiano, condensando gli sforzi di due giovani autori che provano a raccontare il presente, lontano dalla tentazione di compiacere il pubblico, seguendo invece la difficile strada di una ricerca autentica.

Così nell’incipit prevale il gioco di esplorazione e descrizione del microcosmo costituito da un piccolo pezzo del più vasto continente della borgata romana, passando in rassegna i volti, i gesti, le voci, i dialetti e i linguaggi, la geografia caotica di un nuovo deserto urbano. Una carrellata di personaggi e situazioni che gradualmente rallenta, per riordinarsi e riconfigurarsi presto – prima della metà – in un più compatto e circoscritto montaggio di storie che scorrono vicine, fino a un finale ricongiungimento narrativo che è anche ricapitolazione di anime e d’esistenze.

una scena dal film "Il Contagio"

L’impianto del racconto trova coerente rispecchiamento nello stile visivo – frutto anche del lavoro a tre con Davide Manca, già responsabile della fotografia del film precedente: le inquadrature e i movimenti di macchina che si alternano e articolano tra loro in serie ordinate quasi musicalmente; la scrittura cromatica e luministica che dalle tinte chiare e calde dell’inizio degrada, come in un precipizio dell’occhio e dell’emozione, ai colori freddi e cupi che connotano e definiscono il passaggio dalla periferia al centro della città, nella seconda parte del film, la più oscura. Quasi che l’intenzione all’origine del progetto fosse quella di far crescere lo stile proprio dei due registi in una forma matura e canonica, insinuando nell’estetica corrente del cinema italiano di questi anni gli elementi fondamentali della grammatica formale dei due romani, Botrugno e Coluccini selezionano e montano insieme molti, forse troppi materiali senza riuscire sempre a farli brillare, a costruirli in un circuito che produca uno scarto di senso.

Il contagio funziona a fasi alterne, qua e là assortendo punti d’inerzia e momenti di sintesi eloquente, ma cerca una via originale e alternativa zigzagando tra generi e clichè, evitando le secche del film denuncia tanto quanto la sterile inerzia del bozzettismo, e conferma in fondo la verità del lavoro di due registi ancora orgogliosamente in cammino.

“L’ordine delle cose” di Andrea Segre

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A pochi giorni dall’uscita in sala, Andrea Segre torna alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare – con una “proiezione speciale” – il suo terzo lungometraggio a soggetto. L’ordine delle cose, coproduzione italo-francese. Un film che racconta nitidamente, con stile asciutto, la crisi di coscienza di Corrado Rinaldi, alto funzionario di polizia incaricato dal Ministero degli Interni italiano di una delicata missione in Libia: sanati e risolti i conflitti tra potentati tribali locali, ci si aspetta che Rinaldi ottenga alla causa del Governo italiano la completa collaborazione dei libici nel contenimento e nella  repressione delle partenze dei migranti dalle coste africane.

“Le vicende sono immaginarie ma è vero il contesto sociale che le produce”: tre anni fa, quando Segre mise mano al progetto iniziando – da sociologo – le ricerche e gli incontri con i veri funzionari impegnati sul fronte dei nuovi flussi migratori, l’orizzonte degli eventi era ancora meno chiaro di quanto non lo sia oggi. Più chiare ne erano forse le possibili evoluzioni, divenute ormai fatti di cronaca.

Scelto un materiale tanto rischioso, intricato e incandescente, Andrea Segre sembra trovare soluzioni nuove e diverse rispetto al passato. Sparita quasi del tutto l’eco lontana del documentario, l’apertura e l’incertezza, l’indeterminazione di un fronteggiamento diretto della realtà, subentra ora una più forte macchina narrativa che serve da innesco all’illuminazione di un discorso politico. La linearità meccanica, schematica, quasi pallida nel suo elementare e inesorabile meccanismo, ricorda il cinema italiano d’impegno civile degli anni Ottanta. D’altra parte il ritmo della narrazione, il colore della recitazione – bravi e giusti Pierobon e Battiston -, la semplificazione del mondo ad opera di un racconto senza pori, senza strappi, senza fessure, sembrano riecheggiare di lontano i film statunitensi sulla politica internazionale dei primi anni Duemila.

Il ricorso al cliché e alla sintesi, la ridottissima gamma cromatica di una fotografia desertificata, i pochi gesti ripetuti, le poche parole, selezionate e pronunciate come in un pezzo di teatro dell’assurdo, sono il palinsesto che Andrea Segre costruisce per esporre, disarticolata e riordinata, la spiegazione di una complessa congiuntura politica. La scrittura lacunosa – che semina dettagli e indizi dimenticando poi di orientarne l’accumulo – e la regia compilatoria – che sembra cercare sempre l’immagine più chiara e più utile per la composizione di un pamphlet – non bastano a disinnescare del tutto la necessità di un film come questo, che tenta di nominare l’innominabile, rappresentando l’irrappresentabile.

Un film che pur rintanandosi nella dinamica della denuncia, e risolvendo la sua parabola etica nell’arco breve di una crisi di coscienza stroncata sul nascere, si prende la responsabilità e i rischi di brutalizzare i fatti pur di poter prendere parola e dire qualcosa. Qualcosa di semplice, qualcosa di giusto.

 

“Vergot”, Un racconto d’emozioni

“Vergot” è l’esordio internazionale di Cecilia Bozza Wolf. Un piccolo intenso documentario sulla riforma delle relazioni familiari tra maschi che nasce dal confronto con il dolore e col bisogno d’amore di un giovane uomo.

A Bologna, organizzato dall’associazione D.E.R. (Documentaristi Emilia Romagna), si tiene da dieci anni un festival interamente dedicato ai giovani registi documentaristi sotto i trent’anni. L’edizione più recente, quella dello scorso dicembre 2016, ha consegnato il premio Docunder30 a Cecilia Bozza Wolf per il suo Vergot, appena pochi giorni dopo l’anteprima mondiale tenutasi a Firenze dove il Festival dei Popoli l’aveva già scelto per il Concorso Italiano.

Cecilia viene dalla provincia trentina. Laureata al DAMS di Padova con una tesi su Fellini (sotto la guida di Mario Brenta, regista oltre che professore, allievo a sua volta di Ermanno Olmi, che consiglierà Cecilia anche su suoi cimenti cinematografici successivi) inizia ancora durante gli studi universitari a far pratica su una camera minidv di seconda mano. Alla carriera accademica preferisce, dopo la laurea, una scuola di cinema. Così, mentre si susseguono le prime esperienze semiprofessionali, Cecilia passa le selezioni e inizia la Zelig di Bolzano, una delle più autorevoli scuole di documentario in Italia e in Europa. Un percorso di studi e di preparazione al lavoro nel cinema tanto lineare quanto ancora poco diffuso tra i professionisti nostrani. Un segno dei tempi che – finalmente – cambiano.

La storia di Vergot comincia nello stesso periodo, intorno alla metà del 2013: con l’amico e collega Raffaele Pizzatti Sartorelli Cecilia inizia le ricerche per un film sulle rock band sparse nelle valli e sui monti intorno a Trento. L’incontro con Gim e Alex, i protagonisti di Vergot, due giovani fratelli che si dividono tra il lavoro agricolo e la musica, ciascuno con la propria band, è l’inizio di un rapporto che ancora oggi non ha smesso di evolversi, e che prima di tutto spinge Cecilia a ripensare il progetto del film, facendone nascere uno del tutto nuovo e parallelo al primo: un film sul rapporto tra i due giovani, scegliendo come prospettiva e filo del discorso la difficile affermazione di Gim, omosessuale appena maggiorenne, all’interno della famiglia e nel conflittuale confronto con il fratello maggiore Alex. Dopo una prima fase di riprese, e un rallentamento che diventa poi sospensione, il lavoro con i due fratelli torna a muoversi per diventare infine il film di diploma di Cecilia e il suo debutto internazionale.

Vergot è una parola del dialetto trentino: in italiano significa “qualcosa”. Un piccolo intenso film sulla riforma delle relazioni familiari tra maschi che nasce dal confronto con il dolore e col bisogno d’amore di un giovane uomo. Come già i due precedenti cortometraggi girati negli anni Zelig – Non disturbo (2014) fulmineo ritratto di una cacciatrice solitaria, eremita dei boschi e Metalmorphosis (2015), cronaca minima dei giorni di un cinquantenne, padre immaturo, rockstar di provincia di notte, “operatore mortuario” di giorno – Cecilia Bozza Wolf lavora su pochi essenziali elementi posandoci sopra uno sguardo d’intensità e d’intuizione che riesce – dopo aver costruito una relazione ispessita nel tempo e un’osservazione discreta ma sagace – a registrare e riprodurre il colore esatto di una situazione, modulandone i dettagli e le sfumature impercettibili.

Al centro di Vergot c’è Gim, ripreso e ascoltato lungo un arco temporale che copre la maturazione di una coscienza e di un’identità. Accanto gli sta Alex, il fratello maggiore: altra solitudine densa ma diversamente interpretata e dissipata. Infine il padre, incapace d’esprimere affetto, impreparato a riconoscere il suo stesso amore per i figli. E poi il fantasma di una madre che si palesa solo attraverso le spicciole richieste d’amministrazione domestica, scritte su foglietti di carta, passati sotto le porte o lasciati sopra i letti. Il lavoro del film comincia prima che Cecilia prenda in mano la camera, cosicché quando la macchina inizia a registrare l’obiettivo è già dentro la fitta trama delle tensioni affettive. Il girato è frutto di una consapevole partecipazione condivisa, tanto che alcune delle scene montate vengono dalla richiesta esplicita e diretta dei protagonisti.

Vergot è dunque prima di tutto un film di situazioni che procede per salti, mettendo in fila una teoria di momenti topici, di quadri cronologicamente indefiniti. Solo pochi dettagli discreti suggeriscono una sequenza temporale. Più che essere antinarrativo Vergot propone invece una narrazione diversa, che procede per eventi emotivi, seguendo in un disegno lacunoso ma coerente il graduale scioglimento di una relazione tripartita. Un racconto di gesti, di sguardi, di azioni elementari, di singhiozzi e grida, distillato dalla presenza assidua e dall’intimità ottenuta anche grazie a ingegnose accortezze (la registrazione del suono in presa diretta è stata affidata dalla regista al cugino dei due protagonisti; la troupe – ridotta spesso a due sole persone – ha potuto così muoversi in confidenza con i ragazzi e la loro famiglia).

Una prova che testimonia non solo il talento dell’intelligenza cinematografica di una regista ancora in via di maturazione ma che mette anche in luce le capacità del promettente montatore Pierpaolo Filomeno,  compagno di Cecilia Bozza Wolf alla Zelig, che per questo lavoro ha vinto infatti il Doc/it professional Award.

“Il successore”, dalle mine alla pace

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Il successore è il film che segna l’exploit internazionale del giovane documentarista leccese Mattia Epifani. La storia della redenzione di un costruttore di armi che finisce a disattivare mine in Bosnia raccontata da un film sospeso e onirico.

 La Puglia, da almeno una decina d’anni, è una delle regioni italiane più attive sul fronte della produzione e promozione del cinema documentario.

Poco tempo fa, a Brescia, Il successore, mediometraggio prodotto grazie a un bando dell’Apulia Film Commision e diretto dal leccese Mattia Epifani, ha vinto il Premio Roberto Gavioli assegnato dal MUSIL-Museo dell’Industria e del Lavoro. Solo l’ultimo di una serie di riconoscimenti che il film è andato raccogliendo dal suo primo affacciasi sulla piazza dei festival internazionali, nel novembre 2015 (Torino Film Festival, Premio Cipputi), fino a questo autunno, periodo per il quale RAI Storia ha programmato la sua prima messa in onda. Ai più recenti riconoscimenti in patria Epifani e il suo film ci sono però arrivati dopo una traiettoria lunga che ha attraversato alcuni dei maggiori festival del mondo, dal prestigioso IDFA di Amsterdam, fino all’altrettanto blasonato canadese Hot Docs.

Mattia Epifani, classe 1985, ha cominciato ancora adolescente con la videocamera di famiglia e subito dopo con i primi piccoli esperimenti autoprodotti. Nel 2005 l’incontro decisivo con Davide Barletti dei Fluid Video Crew – collettivo di filmmaker indipendenti fondato nel 1995 insieme a Lorenzo Conte, Edoardo Ciocchetti e Mattia Mariani – e l’inizio della gavetta da professionista: assistente alla regia, montatore, operatore, direttore della fotografia, fino a che, nel 2010, proprio Barletti gli affida il suo primo progetto da regista, Rockman, documentario lungo poco meno di un’ora che attraverso la ricostruzione della controversa storia di Piero Longo/Militant P, fondatore dei Sud Sound System, ricompone i pezzi sparsi di vent’anni di controcultura e scena musicale alternativa in Puglia. Per alcuni anni Epifani colleziona una vasta gamma di esperienze, da una parte garantendosi il pane con produzioni commerciali e istituzionali, dall’altra seguitando un percorso di affinamento e ricerca personale che lo porta, nel 2013, a un secondo incontro fondamentale, quello con la regista Paola Leone e con i suoi laboratori teatrali in carcere. Nel 2014 è pronto Ubu R1e, documentario costruito proprio sull’interazione, i colloqui e il lavoro con i detenuti coinvolti nella preparazione di uno spettacolo sotto la guida di Leone. Dopo il consolidamento della collaborazione con Paola Leone e la decisione di Epifani di ripetere e continuare il lavoro in carcere, allargando lo spettro dei laboratori al campo dell’audiovisivo, viene l’ideazione e la messa in opera del progetto al quale l’autore leccese sta lavorando nei mesi in cui scriviamo.

Il 2014 arriva dunque come l’anno della svolta: un bando della film commission pugliese assegna 30.000 euro a fondo perduto per la realizzazione di un documentario che racconti “storie del territorio”. Epifani recupera una vicenda letta sul giornale mesi prima: il proprietario di un’azienda pugliese attiva nella produzione di complementi per armi, ricevuta in eredità dal padre ormai defunto, entra in una crisi di coscienza che lo conduce verso la chiusura della sua piccola industria e verso una carriera da sminatore in Bosnia Erzegovina. Così, lavorando forsennatamente, con l’aiuto di Davide Barletti in veste di produttore, il film viene rapidamente preparato, girato in appena nove giorni e montato in poco più d’un mese.

Il successore è un film anomalo: un po’ diario, un po’ biografia e un po’ film di denuncia, usa immagini d’archivio senza il respiro breve dell’illustrazione, le interviste come si fa nelle inchieste prodotte per la TV, la musica e gli effetti luministici quasi che si fosse in un thriller o un dramma. Vito Alfieri Fontana è seguito – da vicino ma lasciando una premurosa distanza di sicurezza tra il suo corpo e l’obiettivo – lungo un viaggio che lo riporta nei luoghi dove ha lavorato per scovare e disattivare mine in molti casi costruite proprio dalla sua azienda, la Tecnovar. Invece di appiattirsi sulla linea diritta delle interviste, invece di limitarsi alla ricostruzione didascalica del lavoro del protagonista, Epifani costruisce un film al contempo narrativo e contro la narrazione lineare classica, tutto sospeso in un tempo onirico, che esplora il passato come un luogo fisico e stilizza il racconto testimoniale dilatando i tempi della parola e allentando il legame referenziale delle immagini con la realtà cronachistica delle cose.

Forse non ancora le marche evidenti di uno stile consapevole, le scelte di Mattia Epifani sono il prodotto della commistione – rara nel nostro paese – di una scaltrezza tecnico-linguistica maturata nell’esercizio assiduo del mestiere e la sensibilità intelligente di un autore onestamente in cerca di una forma autenticamente sua.

Quando il film inizia, Vito Alfieri Fontana ha già da tempo interrotto le operazioni in Bosnia, ma, come spesso accade con il cinema documentario, dopo la fine del film le cose non sono più le stesse. Il percorso a ritroso sui passi che hanno già una volta dato sollievo e pacificazione alla sua coscienza – la ricognizione materiale nei luoghi in cui ogni passo porta con sé il rischio estremo e il nuovo incontro con uno degli storici collaboratori sul campo – conduce il protagonista a una generale riconsiderazione della propria vicenda e stimola un cambiamento: poco tempo dopo l’uscita di Il successore, il suo protagonista decide di tornare in Bosnia e riprendere il suo lavoro tra le mine inesplose.

La storia di un conflitto interiore e di una redenzione che sembrano diventare nel tempo uno dei temi ricorrenti nel cinema del giovane regista leccese.

 

Venezia73: “Tommaso”, la commedia intelligente di Kim Rossi Stuart

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Il secondo lungometraggio da regista, Kim Rossi Stuart lo presenta nel Fuori Concorso, poche ore prima dell’uscita in sala. Tommaso, il protagonista, è, per esplicita ammissione del regista, lo stesso personaggio che nel precedente Anche libero va bene veniva abbandonato dalla madre ancora bambino. Questo, come il precedente, è in larga misura un film autobiografico, anche se più che al fedele ricalco delle vicende personali, Rossi Stuart mira a una vasta e generale messa in scena della propria vicenda psicologica ed esistenziale.

Tommaso, quarantenne borghese, attore in perenne conflitto con gli altri, con se stesso, con il mondo e più di tutti con la madre, affronta un’esplorazione delle sue fragilità e dell’eredità ricevuta dalla tormentosa relazione con i genitori. Il terreno d’elezione per questo percorso di consapevolezza è naturalmente il rapporto con l’altro sesso.

L’incipit e l’epilogo scelgono due luoghi tipicamente morettiani come la seduta psicanalitica – virata in parodia – e la spiaggia – anch’essa come teatro delle gesta erotiche del protagonista giocate in chiave grottesca. Il film si costruisce poi per scene autonome imperniate tutte sui dialoghi e una collezione di microazioni comiche che nel complesso fanno pensare a certa commedia sofisticata francese degli anni Settanta e Ottanta. Tommaso però di bello ha una compattezza stilistica, una coerenza di registro e di colore emotivo che ne fanno un oggetto originale e in sé compiuto, una commedia intelligente che senza incastrarsi in giochi cervellotici riesce a produrre riso ristoratore dalla rara leggerezza.

Rossi Stuart racconta con autentica autoironia per nulla compiaciuta le disavventure romantiche di un borghese quarantenne, perso nel garbuglio della propria storia emotiva: un piccolo diario catartico delle proprie manie, idiosincrasie, dei sogni e degli incubi che apre per il film, direttamente e senza falsi pudori, la via del racconto ombelicale, percorrendone però alcuni dei tratti più fecondi, evitandone gorghi e crepacci grazie a un approccio onesto e scanzonato. Così le sedute con lo pseudo-psicoterapeuta diventano un refrain goliardico e macchiettistico, il tema onirico – di solito facilmente eletto luogo dell’elucubrazione più cerebrale – serve qui a dare spessore emotivo e definizione di registro alla macchina narrativa, mentre lo script e la regia impregnano tutto il film di una fresca dimensione ludica.

Dirigersi da soli è forse una delle prove più difficili per un regista attore, e in effetti Kim Rossi Stuart non riesce sempre ad azzeccare il tono. E anche se alcuni dei trucchi che servono a rendere più concreta la dimensione soggettiva del racconto (per esempio le proiezioni mentali del protagonista che trasformano la realtà davanti ai suoi occhi) sono forse tra i più evidenti elementi dissonanti in un impianto per il resto ben congegnato, e anche se il progetto narrativo riesce meglio nella macrostruttura e nelle singole scene di quanto non faccia nell’articolazione delle parti, Tommaso resta una delle visioni più soddisfacenti tra i titoli italiani presentati a Venezia 73, e un brillante esempio di come anche in Italia esista la possibilità di produrre film medi appetibili per il grande pubblico che facciano ridere “di testa” senza per questo costringere lo spettatore ad alcuna esperienza intellettualmente punitiva.

Venezia73: “Le ultime cose” di Irene Dionisio

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“Le ultime cose” è il film con il quale la documentarista e artista visuale Irene Dionisio (vedi Fabrique n. 15) esordisce nel lungometraggio di finzione, unica italiana nel concorso della 31a Settimana Internazionale della Critica a Venezia. Il titolo ha un che di apocalittico e cupo anche se profuma d’intimità quotidiana.

Tre storie fanno da telaio sul quale intrecciare i percorsi di una piccola galleria di personaggi, al centro un luogo emblematico, tutto intorno la Torino patria d’origine della regista trentenne: un giovane, ingenuo e onesto, intraprende il suo nuovo lavoro presso un banco dei pegni; dall’altra parte dello sportello il giovane incontra una trans pronta a impegnare una pelliccia ricevuta in regalo; fuori, a pochi metri, un vecchio pensionato, invece che al meritato riposo, si trova costretto a dedicare le sue giornate – e i suoi affanni – ai traffici del cognato, ricettatore senza scrupoli.

Come in un labirinto di corridoi narrativi, così i fili che segnano il percorso dei molti personaggi all’interno del film sembrano attraversare da tutte le parti il luogo simbolo, il banco dei pegni, microcosmo che rappresenta una città e una nazione esplorandone a fondo una zona periferica. Nella forma del film corale Irene Dionisio sembra trovare la via al racconto critico dell’Italia d’oggi, scegliendo come linea d’orizzonte il denaro – non il valore ma il prezzo – in una dimensione in cui l’esistenza è sottoposta e costretta sempre alla verifica dell’economia di mercato.

Non tutto funziona, e come spesso succede nelle prime prove d’autori esordienti, qualcosa manca mentre qualcos’altro è di troppo: la musica non coglie sempre il giusto registro, alcuni dei trucchi per oliare le giunture narrative non sono sempre brillanti (come significano e a cosa servono le immagini delle telecamere a circuito chiuso, usate quasi come ritornello visivo negli snodi del racconto?), però Irene Dionisio conferma la prontezza di sguardo già dimostrata nei documentari, intagliando nelle singole scene miniature ricche di dettagli, lavorando all’intreccio in modo che il singolo frammento non prevalga sul disegno complessivo, componendo infine un affresco che non rinuncia all’assertività del cinema civile.

La giovane piemontese sembra avventurarsi nella lunga durata del cinema a soggetto per essere più liberamente e più decisamente al comando della narrazione, prima e ultima responsabile di un discorso critico politicamente cristallino; la lezione del documentario non è persa e garantisce anzi il rigore morale necessario a evitare tanto l’intransigente manicheismo, quanto il pietistico sentimentalismo. Gli attori professionisti e gli interpreti “presi dalla strada” riescono a convivere – pur con qualche stonatura – in un processo al presente nel quale tutti sono imputati, ma non ci sono né innocenti né condannati. Il finale arriva come una sincope, in controtempo, in un improvviso sussulto: l’unica rivoluzione è quella che ognuno lancia contro se stesso, per questo il fallimento può ripetersi ogni giorno.