Prima presentato al Torino Film Festival 2023, poi finalista dei Fabrique du Cinéma Awards tra i candidati per la Miglior Opera Prima Italiana, infine al centro di un giro d’Italia auto-organizzato, Castelrotto, il primo lungometraggio del poco più che quarantenne Damiano Giacomelli, è allo stesso tempo un raro esempio di indipendenza radicale e un pezzo di cinema italiano falsamente regionalistico, autenticamente diverso da tutto il resto. Un oggetto antico e nuovo stranamente affascinante.
Il suo autore totale – che ha scritto, diretto prodotto e distribuito – ha il physique du rôle e la storia dell’uomo di cinema d’altri tempi, un outsider caparbiamente e consapevolmente fiorito fuori dai soliti giri. Durante gli anni all’Università di Urbino Giacomelli scopre casualmente l’opzione cinemato
Riprende l’attività didattica con giovani e giovanissimi, dentro e fuori le scuole; da qui nasce Officine Mattoli, un laboratorio aperto che diventa fucina di nuovi artigiani cinematografici. Intorno si va raccogliendo intanto una piccola folla di talenti che si stabilizzeranno presto in gruppo di lavoro. In parallelo ricomincia l’attività di produzione cinematografica – che presto troverà la sua forma ufficiale sotto le insegne di Yuk! film – nella quale quel gruppo diventa protagonista. Così, nel giro di pochi anni, arrivano due corti – La strada vecchia e Spera Teresa – e un lungometraggio documentario – Noci sonanti – che tutti insieme costituiscono un po’ la massa critica necessaria per l’arrivo al primo lungometraggio a soggetto. Nei tre film si ritrovano anticipazioni, ricorrenze, contesti e registri che torneranno, sublimati e combinati, in Castelrotto: alcuni luoghi della provincia pulviscolare come dimensione esistenziale, il comico, il malinconico, il grottesco, il gergale e il dialettale usati come musica concreta, il plurale e il singolare come luoghi della vita di paese.
Il progetto di Castelrotto nasce a questo punto dall’intreccio e dalla sovrapposizione di due spinte: da una parte quella che muove Damiano Giacomelli verso nuove e più alte sfide in direzione di una maturazione e di una crescita, dall’altra la necessità di un’idea per trovare una forma cinematograficamente estrinseca. Dalla frequentazione assidua della cronaca locale, dalla rimasticazione delle dinamiche e delle forze che tendono l’ordito dei piccoli centri tra Fermo, Macerata, Tolentino, dalla versione del mondo, alternativa e differente, che da questi territori è prodotta, nasce un’idea che si manifesta – dice Giacomelli – prima di tutto come voce: Ottone, il protagonista del suo esordio, inizia a esistere nella testa del suo autore come voce ancora senza volto e senza corpo.
Alla fine del 2019 la voce è maturata in idea e l’idea in progetto: il film a venire ha già una sua forma produttivamente concreta e il suo protagonista, la sua voce portante, ha trovato un corpo, quello di Giorgio Colangeli. Un po’ per scelta e un po’ per necessità la macchina della produzione si mette in moto seguendo la via dell’indipendenza e intraprendendo l’avventura di fare un film senza la garanzia di accordi o alleanze.
Le riprese si svolgono durante l’ultima recrudescenza della pandemia di Covid,, concentrandosi soprattutto nel piccolo borgo di Ponzano di Fermo. Nonostante le difficoltà pratiche quotidiane, nonostante una sosta obbligata causa contagio, il film si presenta presto alla fase della post-produzione. «Mentre lo scrivevo ascoltavo sempre della musica»: tra le sue tante esperienze di agitatore culturale Giacomelli è anche direttore artistico del festival culturale Borgofuturo. Qui conosce Peppe Leone, autorevole musicista percussionista senza alcuna pregressa esperienza nella composizione per il cinema. A lui affida la costruzione di una colonna sonora anti-melodica e per niente nostalgica che contribuisce significativamente all’invenzione dell’anima frammentaria e sincopata di Castelrotto. Un contrappunto antinaturalistico e asincrono che spinge lo spettatore lontano da ogni possibile apparentamento con l’apologetica strapaesana.
Quel che arriva a Torino è un film di difficile definizione, né comico né tragico, che gioca con alcune forme dei generi cinematografici – il giallo e il crime movie su tutti, ma in una convincente simbiosi con altre citazioni frammentarie tra le quali forse perfino il western – senza mai lasciarsi irrigidire nel cimento; che evoca immaginari inconsueti pur parlando in modo concreto e rigoroso del tempo presente; che inizia sorvolando un orizzonte apparentemente surreale – né tondo né quadro, assai lontano dalle forme di visione e di racconto del cinema italiano contemporaneo – e che finisce atterrando in un altrettanto enigmatico panorama astratto, procedendo in realtà per tutto il tempo, secondo una coerenza perfetta, lungo una traiettoria che attraversa i corpi e le cose.
La voce che dà l’avvio al film è quella di Ottone, maestro in pensione che dalla finestra di casa sua domina la piazzetta del borgo di Castelrotto, dove una mattina non vede arrivare il camioncino del solito venditore ambulante ma quello dei “calabresi”, un padre e due figli arrivati nelle Marche per la ricostruzione del terremoto degli anni Novanta e poi rimasti in cerca di una vita migliore; da Ottone odiati e contrastati ciecamente per la convinzione, mai dimostrata, che abbiano indirettamente causato la morte della nipote.
Ottone – che inizia distinguendo tra storie e storielle, tra racconti che funzionano e racconti che non funzionano – è un narratore anacronistico e spaesato, giornalista amatoriale, e all’inizio del film si rimette alla sua vecchia macchina da scrivere per tentare di trovare un ordine nei misteriosi fatti intorno alla scomparsa del vecchio ambulante. Nella traiettoria che lo conduce attraverso una riconciliazione con il suo paese e con sé stesso, Ottone incontra la rabbia e l’odio […]
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